La mia cena di ieri sera, un amabile esperienza solitaria con candele accese e musica, è terminata molto, ma molto tardi con uno yogurt sul divano e la televisione a farmi compagnia. Ho lasciato che un documentario storico di cui non ho trattenuto nemmeno un contenuto facesse da sottofondo mentre iniziavo con grande rispetto e, spero, umiltà visibile la lettura di 24, il mensile del Sole. Festeggiavo un giorno di grande tristezza, che ho deciso di celebrare con un primo a base di gnocchetti fatti a mano affogati in una salsina semplice di pomodoro fresco, cipolla e carote, pecorino a pezzetti e olive nere; un’insalatina iceberg con yogurt e noci, e una coppetta di minestrone con una spruzzata di panna acida. Poco, pochissimo vino: un Varvàra del 2006, un bicchiere a stento, per non ripetere quella sensazione mortifera di ribongia del fine settimana precedente.
Ho anche messo le candele piccole, quelle da cimitero dei gatti, dovunque e spento la luce. Ho riscaldato la focaccia e posizionato i lumini dietro a tutti i contenitori di vetro, per amplificarne l’effetto. La casa era calda, silenziosa e musicale assieme, e la mia amata persona era lì a fare compagnia a sè stessa. Sono seguite ditate nella marmellata, cucchiaini di zucchero nel caffè e persino un biscottino al cioccolato, impucciato a dovere dentro la miscela nera e calda. Alla fine del pasto ho chiuso la porta e aperto la finestra, ho acceso una pall mall 100’s e l’ho fumata piano, come se dovessi morire sulla sedia elettrica subito dopo.
E’ stata una serata interessante: io sono una persona affascinante, specialmente se non forzata a dialogare con nessuno. Anche il mangiare è andato lento, parecchio. Verso le dieci e mezzo ho raccolto la mia pargola dal tappeto peloso e l’ho trascinata nel suo giaciglio, tornando alle mie cose. Le ho fatto vedere Alice nel Paese delle Meraviglie ieri sera, anche lei il venerdì festeggia daltronde. Ho cercato di farmi venire in mente in quali album, cassetti, avrei potuto trovare ricordi tagliagambe e ho seguito le loro tracce. Ho anche letto il quotidiano del giorno prima, cosa che mi trovo sempre più spesso a fare per mancanza cronica di tempo e incapacità di girare le pagine del giornale senza sembrare una povera infelice quando sono in un luogo pubblico.
Verso le tre ho visto l’orologio per l’ultima volta. Verso le sette meno dieci ho sentito la manina di mia figlia sul naso e la sua vocina delicata, come quella di una cinese che ti sta per strappare un lembo di pelle con le tenaglie: mamma, è gionno, azziamoci, facciamo merenda coi biscotti accioccolato. Poi una pausa di due secondi, in cui ho chiesto al Signore di fulminarmi lì. Gesù, ho detto, mi sento di avere già dato molto e ricevuto tantissimo, non credo di essere più necessaria, penso che la mia presenza in questa valle di lacrime sia pleonastica, ecco.
Purtroppo non sono stata colpita da un infarto, nè ho perso vista ed udito assieme, ergo non mi è rimasto altro che aprire gli occhi piastricciati di nero – perchè ieri sera mi sono anche truccata, e parecchio, per non darmi l’impressione di essere ad una cena triste. La puella ha aggiunto una serie di motivazioni credo ragionevoli affinchè il mio pachidermico corpo morto si sarebbe dovuto alzare. Ho cominciato a dondolare le membra in attesa di una spinta centrifuga, non prima di avere verificato che fosse disponibile un argano industriale: mamma, c’è la luce, bisogna azzassi. Vedi? Bisogna azzassi.
Mi consola avere nemici in questi momenti, in particolare penso alle mamme blogger di mamma vera, mamma ma moglie, mamma e mammella, e altri portali dove i risultati della selezione genetica nazista hanno finalmente trovato rifugio: donne multitasking, magre eppure mangione, madri eppuri moglie affettuose, impegnate eppure positive, con piccole tristezze da esternare per rendere le altre partecipi delle piccole disavventure quotidiane che, hey, capitano a tutte. Cazzate. Queste sono macchine da guerra, e le altre donne le odiano: se no, perchè scriverebbero quelle paginate celebrative dell’esperienza in realtà più triviale dell’umanità, ovvero il diventare genitori prima dei sessantanni?
Io penso a loro, penso alla mammina che felice vede il faccino del suo prolungamento emotivo, la sua unica gioia, e felice si alza di slancio per preparare la colazione. Ammetto di tirare dei moccoli fra me e me che poco hanno da invidiare alla creatività dei portuali livornesi. Penso a queste campionesse della polo rosa e gli tiro tutti gli accidenti che riesco a formulare, e gli auguro di avere il mio sonno e cascare narcolettiche alla prossima cenetta a base di avanzi e ciglia di cane che sono riuscite a preparare senza fare la spesa – of course. Mi concentro sul loro bucato multicolore con dentro un pezzo di stoffa per assorbire il disavanzo di colore e voglio intensamente che lo straccetto diventi un tubetto di vernice. Oppure che la torta cui hanno aggiunto il bicarbonato gonfi fino a riempire la cucina, poi la casa e poi il giardino, soffocandoli tutti come The Stuff.
Confortata dal pensiero della dipartita violenta riesco finalmente a trovare la forza di trascinare le chiappe alla cucina, salutare il cane grattandomi la faccia, mettere su la macchinetta del caffè e addentare qualcosa, qualunque cosa, prima di allestire il tavolino per la piccola Cecilia, che sa di non dovermi rivolgere la parola in maniera eclatante per almeno dieci minuti – e non lo fa. Mi manda un bacino, io ricambio non rompendole una padella in testa, e ci ignoriamo per circa trenta minuti, come è giusto che gli esseri umani facciano quando abbandonano la dimensione onirica.
Il sabato mattina ci sono i cartoni animati e persone apparentemente adulte vestite da poveri idioti dovunque, quindi basta accendere un canale a caso per intercettare un amico, un distrattore di bambini, che prolunghi il momento di distacco dalla realtà che precede la messa in circolo della caffeina. In questi momenti ti viene da ripensare a prima, a quando tuo marito, o compagno, era ancora un uomo e tu eri ancora una donna. Ora lui è il pupazzo del Big Banana Show (stessa credibilità, stesso look) e esce molto. Tu invece puzzi – di vomitino, di taleggio, di Cif. Tu fai schifo a guardarti. E fai bene a vergognarti, perchè l’essere in quella condizione è colpa tua: sei tu che hai allargato le gambe (o ascoltato l’orologio biologico, raccontatela come ti pare) e ora vai, guarda che capelli: sembri Jermaine Jackson nel 1973. Se ti guardi sotto i talloni stai mettendo la muffa: si chiama Castratio Maternitatis, è un fungo che si sviluppa dopo due mesi consecutivi senza bere alcolici e mangiare patatine fritte.
E’ allora, che nel tugurio di te stessa, capisci che non avrai mai più un pensiero che non sia anche il suo, dico della prole. Sei passata, sei roba da conservare con gentilezza, ma è il turno suo: a lei andranno le cose buone e quelle cattive, le cose, mentre a te pian piano inizieranno a scappare di mano. A lei apriranno i portoni, a te faranno la vertenza condominiale. A lei chiederanno di rinunciare al suo lavoro per allevare figli e tu, che le avrai applicato elettrodi psico influenti ogni notte da quando aveva due giorni, riderai senza denti e con un buzzo che sfiora i due metri di diametro mentre lei risponde ma nemmeno se mi tagli i piedi con un trincetto. Oppure dirà ma certo amore, voglio fare la tua segretaria, chi lo sa – e chi se ne frega. Basta che sia felice.
“Buongiorno rompicoglioni“.
“Buongionno mamma“.
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