Gli anglosassoni si sono raffinati parecchio. E’ difficile camminare in centro a Londra, ammesso e non concesso che la capitale sia in qualche modo rappresentativa del tutto, e incontrare una ragazza brutta, trascurata. Ci sono le bionde altissime e le more di pelle chiara, le rosse romantiche e le punk magrissime. In ogni caso ciglia finte, passatine, fiocchi, cappotti spaziali, scarpe altissime, piercing sensuali.
Categoria: aesthetic
La ricerca di un buon livello estetico è più di un percorso fisico.
Ho finito lo yogurt senza grassi, senza frutta, senza yogurt così come si conviene a chi effettua una lotta contro il proprio corpo per modellarlo come sui giornali. Contro ogni fisicità e corporatura, a un certo punto una persona si infila in questo percorso di controllo che porta sempre con sè conseguenze che vanno aldilà, e parecchio, della perdita di taglie: così ho fatto io tutta la vita. A tratti. Prima demolendo il mio corpo con alcol e trattorie, poi ricostruendolo – o abbacchiandolo ancora di più, chissà – negandogli (quasi) ogni piacere. Mi trovo bene in questi due estremi, per la gioia di chi non vede l’ora di darmi consigli sul metabolismo, e non so stare nel giusto mezzo. Per intendersi io, il giusto mezzo, non so nemmeno cosa sia. Dalla mia, una sola certezza: il tempo mi è favorevole, nella mia follia ho una costanza che non ho paura di definire rara.
Ho buttato la plastica leggera dello yogurt dentro il cestino della plastica con fare annoiato, in fin dei conti separare quello che non serve più e continuare a dargli una dignità mi pare un’infinita rottura di palle. Lo faccio, non sempre, ma ci provo. A dire la verità mi torna meglio la carta: non si impuzzolentisce e c’è un bidone qui sotto casa, vicino. Alla sensazione di fastidio mi fermo e mi tiro uno schiaffo da sola. Così. Pum. Nella guancia. Mi serve per svegliarmi quando metto in atto meccanismo ripetitivi e per non dimenticarmi: è la tecnica di addestramento dei delfini, pescetto quando sei bravo e schiaffetto quando sei cattivo. Funziona.
Bisogna che io trovi una goccia d’amore per quel gesto, il gettare la plastica nella plastica, altrimenti so che non durerà. Bisogna che mi ricordi che la forma segue il contenuto e che non si può bestemmiare mentre si pulisce una chiesa. Questo, per me, è il male supremo nella vita: il non avere un comportamento consistente con il proprio pensiero. Mi conosco abbastanza bene per sapere che non riesco a fare niente che non ami. Non solo. Che quando desidero ardentemente che qualcuno faccia qualcosa con me, il mio impegno deve essere quello di fargli amare quell’atto, le sue conseguenze, le sue premesse, il suo essere stesso in quella cosa, in quel fare – pensare. Altrimenti non ci riusciremo.
Ecco perchè, come tanti altri, non riesco a fare molte cose. Non sono capace di affezionarmi contemporaneamente al mio corpo e al cibo, oppure alla mia amica e al mio amico. Una cosa alla volta, finchè non si è toccato il nervo in basso e creato una reazione a catena intrisa di intenti, di volontà e amore. Una cosa alla volta. Finchè la conoscenza reciproca non ci permetterà di abbandonarci senza lasciarci mai più.
Dopo lo schiaffo prendo la scatolina dello yogurt e la tiro fuori. La metto sul tavolino. Allargo bene bene il sacchettino che prima era un pò chiuso, abortito nella sua funzione, e chiamo Mezza Pinta. Arriva di corsa, all’attenti come un piccolo generale. Che c’è mamma. Guarda amore, voglio che tu veda questa cosa. Quando c’hai una cosina di plastica, questa roba duretta che non è trasparente, la devi mettere qui. Perchè se non la metti qui, quando sarai grande sarà lei a metterti qui. Hai capito? Si mamma. E’ importante, Cecilia, che tu significhi ogni gesto. Che tu ci trovi la felicità. Altrimenti diventerai uno di quegli storpi che sono felici solo quando fanno certe cose o stanno in certi posti.
Facciamo canestro assieme, il barattolo casca e lei lo riprende. Poi va a pigliare non so quante cose nuove e cerca di buttarle lì dentro – la spiegazione riparte, ma il concetto, credo, ha piantato un piccolo seme. La guardo sperando di avere appreso la sua lezione: oggi mi ha insegnato lo stupore, faccia numero quattro, la gioia del comprendere, faccia preferita, la soddisfazione di avere eseguito un ordine. In fin dei conti nella vita ci sono solo due strade: amare, infinitamente, ogni attimo come se fosse un dono oppure vivere il tempo che ci è dato. La prima tesi si trascina dietro un corollario difficile, la verità – non c’è altra via. Purtroppo l’ho scoperto un pochino tardi, ma ci stiamo attrezzando per amare anche quella.
La mia amica.
La mia amica si è invecchiata e non se n’è accorta. Non c’è nulla di male ad invecchiare a meno che tu non te ne accorga. E’ convinta di essere ancora un oggetto di desiderio e mi intristisce con tenerezza al punto che quando siamo assieme le dico guarda che quello ti spia, solo per vederla sorridere un pochino – ma non è vero, sono le ragazzine, la frangia corposa di lato, che stanno finendo l’università a prendersi tutta la scena. Era bionda come il grano, oggi è arancione. Aveva le lentiggini, oggi probabilmente ha un cancro alla pelle, data la mole di lampade. Va spesso al bagno per vedere, forzando l’occhio di lato, quanti la guardano e quanto a lungo: e meno male che nella distorsione tutto diventa quello che si vuole vedere, perchè nessuno si gira a vedere quel culo che una volta parlava sei lingue e ora si è adagiato sulle anche.
Oggi le scuole hanno nomi strani, come sociologia del turismo o metempsicosi della ragioneria futile. E anche le materie non si chiamano più italiano, matematica, scienze: hanno nomi assai più complessi, che portano con sè analfabetismo di ritorno. Infatti quando un nome comune comincia ad essere travisato, la civiltà che lo rompe inizia il suo declino. Quando lo spazzino diventa operatore ecologico, la merda diventa humus e questo è un (mio) grande problema: prima di mettere una virgola bisognerebbe capire se la pausa c’è e ci può stare, figurarsi che tempo dovremmo impiegare a scegliere l’aggettivo perfetto, la costruzione meno scontata.
Nelle scuole non ci insegnano più l’educazione civica ma nemmeno il contegno. (Mica perchè sono cattivi: non glielo permettono, gli alunni sono diventati clienti – che strano). Quindi non c’è un luogo dove possiamo capire il momento in cui tagliare i capelli. O dismettere le magliette cenciose. O infilare un tailleur. Il vecchismo ci terrorizza, e invece di diventare saggi diventiamo macchiette. Come quell’altro mio amico, che si veste di jeans (alto) per rimanere in pista col lavoro.
Oggi mi hai mandato questa foto, con te vestita carina e le codine. Lo sguardo è sempre quello, e per questo sono felice per te. Ma quelle cosine, quel fiocchetto in fondo a richiamare maliziosità perdute, mi fa ancora più tenerezza delle scarpe colorate da ginnastica: una donna, alla nostra età, dovrebbe essere contenta di potersi infilare un bel paio di scarpe. Dopotutto i tempi triviali della disco e delle cene in casa con pasta e studenti sono finiti. E posso dire seddiovuole?
Però sei proprio carina. E sai che c’è? Se sei felice così, allora è ochei. Allora sono io che devo mandare a te una foto e chiederti che cosa posso fare per recuperare quella faccia lì, quella che si monta su quando ci sono i maschi attorno – per il campo estivo dove i genitori non ci sono e Settembre incombe gigante, come un tempo infinito che tornerà per sempre. Ti invidio, come ti invidiavo quando tu andavi in discoteca e io dormivo in macchina aspettando che voi usciste – i soldi che ho risparmiato.
Alzati di corsa, preferisci dormire trenta minuti in più e allora alzare le chiappe sergente Juanita: corri a servire a Mezza Pinta una bella merendina pronta impacchettata, con succo di frutta e trionfo di cartoni animati su rai due. Perchè ci puoi anche avere sedicimila canali di satellite, ma la mattina deve essere condivisa con più bambini possibile, con il popolo, (noi siamo il popolo amore): e rai sia. Metto la caffettiera da dieci, su, per me, tanto ci ritorno tutto il giorno – con l’acqua calda, come le zie viziose che non possono appiccicarsi all’idraulico, e allora giù di purghe e di caffè. Mentre il caffè viene su corro al bagno, ho cinque minuti cinque per fare tutto – lavarmi il ciuffo davanti, oppure depilare le gambe, sicuramente strinarmi i denti con quella pastina tedesca al sale.
Espletato il dovere estetico torno a vedere che Mezza Pinta non sia affogata in seguito a briciola perchè io temo le disgrazie casalinghe più di ogni altra cosa. No, è salva per ora. Corro al bagno, il caffè è uscito dalla macchina e ha distrutto la stufa da un milione di dollari, assolutamente sprecata nelle mie mani. Ieri sera ho bollito i fagiolini. Alzo lo schermo del mac, un amore nato ai tempi in cui l’iPhone stramaledetto non esisteva: facebook, poi wordpress, poi il times, poi l’ansa, e il Times, certo, mi piacciono le figure e la grafica. Messaggino all’Inglese, sempre il solito da anni, “buongiorno, dovunque tu sia, ricordati di riportare a casa tutti i vestiti”. Mi risponde sempre buongiorno scemina. Sì, ridi ridi. Ci sono già passata, sai? Sono la donna più cornuta d’Italia, io. Che fatica fidarsi di nuovo, ma che ci posso fare, il controllo non mi appartiene. Insomma, cerca di farmi meno male possibile.
L’Inglese mi ha fatto arrabbiare come una scimmia ieri sera, questa storia della scuola per pargoli esclusivi mi sta facendo cascare i capelli, sognare draghi, venire le rughe. Non voglio che cresca insieme a quei depravati che fanno il Natale alle Maldive coi genitori, con le ghirlande di fiori. Quelli che vanno a cavallo, le bambine di quattordici anni già predisposte per certe cose perchè hanno il fisico e la camicetta bianca. E poi tutti quei soldi, che potrebbero andare in vino. Devo andare in inter-rail con B, gliel’ho promesso, a trovare tutti gli amici: come faccio se dobbiamo spendere quelle cifre.
Oggi è un giorno importante, perchè sono viva e non mi fa male il collo, devo levarmi i pensieri nefasti dalla testa – la scuola per bambini chic, l’Inghilterra, le pulizie da fare dopo che torno da lavoro, le assicurazioni, il business rallentato rispetto all’anno scorso. Devo mettere una canzone di speranza e correre, perchè sono in ritardo – daltronde la mattina trenta minuti in più nel letto, con il caldo che è una carezza, con il freddo “là fuori”. Devo indossare il vestito della gioia, e ascoltare Into the wild, per ricordarmi che c’è sempre una via di fuga che mi somiglia.
Tazze di caffè vuote, radio sintonizzata su una emittente parigina che manda suoni melò, così come dovrebbe essere, faccia tumefatta di chi ha dormito ore, e ore, e ore. Verrà il giorno in cui sarò messa davanti a quel tribunale che temo molto, in cui mi chiederanno se ho fatto di tutto per vivere e io annuirò, non alla domanda, ma alla risposta implicita che loro – ed io – abbiamo nella testa: no. E’ vero. Tutto mi parla di baguettes, di mansarde, di io che aspetta che ora accompagno la bambina e poi torno qui e mi metto a posare per te. Con un fiore in bocca.
Avessi detto a uno dei miei fidanzati cosa mi sfrullava per la testa mi avrebbero probabilmente lasciato con denunzia. Avessero saputo che andavo di nascosto all’Accademia dell’Arte di Firenze con il desiderio di diventare modella nuda, tanto per vedere la reazione degli astanti a quel corpo che ho odiato – così rotondo, così compatto – mi avrebbero sputato nell’occhio. Non lo sono diventata, modella-baco, perchè al solito non se ne è presentata l’occasione: io sono persona virtuosa per mancanza di occasioni, come molte altre suffragette, solo che questo non mi ha invelenito.
La coperta di piume arrotolata sul divano, dove mi addormento da anni, mi ricorda che nemmeno stanotte ce l’ho fatta a dormire nel talamo – il mio incubo: ma perchè esiste una camera dove devi dormire, con un letto che devi condividere, con una persona che ti deve stare accanto. Ma sarò libera la notte io di infilarmi i calzini, il cappotto e andare a camminare? E perchè la mattina lo devo sentire andare a sgrollare il tutto nel bagno a pochi metri? Ma nemmeno per sogno. Io dormo in salotto, e se l’Inglese si presenta deve essere per qualcosa di più interessante di NatGeo Wild. E ci mancherebbe altro.
Mi sono scusata ieri con la mia ospite, le ho detto in inglese mi spiace, non sono domestica. In realtà ho detto che non sono addomesticata, ma è lo stesso. Mi guardava con l’occhio perduto quando mi chiedeva e io non le sapevo rispondere su quesiti facili facili. La guardavo io con espressione attonita quando mi diceva cosa avrebbe fatto fra trentanni, felice. E felice lo era, sinceramente, mentre lo diceva. Più equilibrata, più serena. Quando ti sposerai, le dico. Lei risponde Sì, anche se non sono ancora promessa. Culture diverse, per non sapere cosa mettere alla televisione ho infilato Al Jazeera – poi ho sperato di non averla offesa. Questi imbarazzi orrendi, mi verrebbe da urlare Guarda che io sono tranquilla. Bacia mia figlia con amore, penso a come sarà fortunato il marito: mi ha appena impippiato di cose buonissime, e come mi giro mi sorride. Da ieri sono ingrassata un chilo, strafogandomi felice di cipolle e pollo e riso e uvetta, altro che posare nuda.
Finchè gli uomini immagineranno le streghe come donne belle capaci di stordire i loro sensi con le loro forme e morbide e disarmanti sorrisi, non ce ne sarà mai uno che non desidererà di dannarsi l’anima con le moine sorridenti della prima che gliela chiederà.
By Antonella
All’ufficio della Polizia Postale mi presento con un fascicolo che, se non fosse tragico, sarebbe ridereccio. Mettiamola così, se esiste un contrappasso io ne sono vittima – tanto in vita parlò di donne in maniera benevola (circa), quanto in vita virtuale da esse fu sputtanata. Se questo è un crimine – e lo è, sono più capi di imputazione – questo si dovrebbe chiamare “fare ad un altro essere umano una cosa grottesca”. Il capo mi mette tranquilla, è un uomo che profuma di buono e di famiglia come era la mia. Mi viene da chiudere la porta una volta accomodata nel suo ufficio, non ho molta voglia che mi si senta pronunciare queste parole, fare vedere questi riferimenti. Usi parole semplici, mi riprende all’ennessimo inglesismo, se no il magistrato non capisce cosa vuole dire. Non esiste una parola per blogger, dico scrittrice e mi vergogno. Nono sono lassù, non ancora.
Non sono una bacchettona e ho il terrore di essere vestita da signorina tutta moralità che, oh umana cattiveria, si è ritrovata con foto in luoghi virtuali compromettenti. Io non sono questa. Ma non sono nemmeno quella. “Quella” è una donna che pratica incontri casuali di matrice, mettiamola così, umiliante. “Quella” si presenta ai suoi amici con la mia foto, la usa per annunci, per profili finti su facebook e chissà quali altri gazzettini stampati. Mata Hari. Poi Simona DeMedici. Poi Nadia Fiumidoro. Poi Cristina Maffei.
Capo mi chiede se può andare a pescare sospettati in qualche storia extraconiugale, nell’insieme chiuso degli antichi amanti feriti. Dico di no, grata a me stessa per essere una codarda, per una volta. Capo, meno male che non puoi leggere i miei ricordi, i pensieri che ho avuto. Forse me lo merito, se l’intenzione conta qualcosa. Ecco, il pensiero che fa più male è questo: forse, se invece di scrivere su un blog io facessi decoupage, accudissi due gatti, fossi una brava donna che non sa usare le emails e rifugge la tecnologia, queste cose non mi succederebbero. Certa, risponde Capo, quando gli chiedo qual è la percentuale di successo nella ricerca di questa persona. E’ pronta a procedere contro conoscenti, dico sì pregando che sia una domanda rituale, e di non trovarmi davanti qualcuno che fa parte della mia vita normale davanti al magistrato. O, ti immagini, una minorenne. Che faccia hai? Perchè io, la mia foto? Non mi escono dalla testa queste due domande. E’ questo che comunico con quelle gote pazzesche? Ricerca di umiliazione sessuale?
Segnalo di notte a Zuckerberg, ieri notte, gli altri profili finti della mia doppleganger, mi ha detto Capo che se lo faccio si annullano prima che se ci si mettono loro. Mentre scelgo la fotografia per il prossimo post e lo faccio naturalmente nella cartellina “escursioni”, per non vedere la mia faccia, non usarla – non si sa mai che mi pigli anche questa, mi viene una rabbia enorme: la mia faccia è la mia faccia. E’ mia. Tutti i giorni da dieci anni a questa parte la passo davanti alla telecamera del computer e registro il cambiamento dal giorno prima. Poi la piazzo sul post. Io non ho paura di avere la mia faccia, perchè è mia, brutta scema che non sei altro. Sei te che devi avere paura e vergognare, stavolta, non io.
Ho molto goduto.
Confesso che ho molto goduto. Da un punto di vista musicale ad esempio ho ecceduto in ogni modo possibile, accordando anche tre concertini di fila nella stessa giornata, acquistando un sistema con subwoofer a perdere solo per il gusto di ascoltare canzoni come si deve, un pomeriggio, in una casa non mia. Ho suonato canzoni che non avevo studiato, improvvisato parole con sonorità evidentemente inglese – è uno dei vantaggi inattesi del maritarsi ad anglosassoni – privandole di ogni senso.
Ho elargito consigli e sono intervenuta in una discussione musicale a gamba tesa, come mai non avrei avuto l’ardire di fare prima, quando pensavo che le cose seguissero un certo ordine. Non è vero nulla, invece: finchè non c’è nulla di male, finchè il corpo regge e la mente veglia, finchè i miracoli della salute e della vita si rinnovano giornalmente, i migliori tuffi sono quelli di pancia. Ho acquistato compulsivamente dischi. Ho guidato per ore e ore solo per guardare la Manolo Strimpelli Band. Ho cancellato la libreria della musica, quasi diecimila canzoni, per ricominciare da capo a mettere via, segnare sull’agendina quello che mi piace: cos’è questa? Quella che fa così la la la: ho conosciuto almeno dieci persone quest’estate, con questa domanda.
(foto di Matteo Rovella)
Le bisnonne per essere belle piacenti mangiavano all’ingrasso ma al punto vita ci tenevano, almeno per qualche ora della giornata, strizzandosi dentro a corsetti allacciati stretti. Il risultato era piacevole a vedersi perchè la floridezza delle carni non era imbruttita da stomaci e ventri prominenti e sgraziati come si vedono oggigiorno. Insomma bastava aver un viso carino, neanche bello, e la figurona era garantita. Le gambe? i sederi? quando si scoprivano ormai era cosa fatta.
(By Antonella)
Se portassi questo studio di glutei di Vallotton ad un chirurgo estetico e gli domandassi quanto li valuta, mi risponderebbe dai 7 ai diecimila in day hospital, di meno senza la fattura.
(Felix Vallotton 1865-1925, a study of buttocks) by Antonella
Da piccola non perdevo una puntata della saga fumettistica di Dago, una creazione di Robin Wood e Alberto Salinas che è titanica per contenuti e disegno. Dago è l’uomo ideale, con la sua bellezza ruvida, l’onestà brutale e soprattutto la sua evanescenza: una sera ti guarda da dietro una candela come se non ci fosse domani, il giorno dopo guida le truppe nel deserto – perchè lui quello fa, è un eroe condottiero .
Come una volta il ventaglio aveva un suo linguaggio, ce l’ha la sigaretta nel momento in cui la stai accendendo fino alla seconda boccata. Riesce a dire: ‘mi piaci’; ‘ma stai zitto che non hai capito niente’; ‘finita questa io me ne vado’. . E’ quel gesto calmo accompagnato da uno sguardo intenso, se devi dire qualcosa di seducente. Ancora più calmo e con sguardo perso nel vuoto, se intendi esattamente il contrario.
(John George Brown, A liberate woman) by Antonella Fabriani Rojas
Giorno sedicesimo.
Della poesia artigianale, quella in rima baciata che parla di tramonto e altre parole romantiche, più di tutto mi turba il passato remoto: sognai, sperai, volli. La pleonastica pesantezza. Mi piace il presente, invece, come punto di contatto fra passato e futuro, come specchio in cui guardarsi – possibilmente di buon umore, con soddisfazione. Il nostro oggi qui alla redazione è come lo spogliatoio prima della corsa campestre.
Siamo a metà strada. Lo si evince dal fatto che i due staff di Miss Italia – Miren e Rai – hanno cominciato ad abbinare le scarpe alle borse sotto gli occhi. Gente che si trascina da una stanza all’altra chiedendo Io sono qui? Autoctoni aspettano che passi la Mirigliani per farsi benedire, donnine di duecento anni nascoste nei bagni del primo piano in attesa di incrociare Fabrizio Frizzi, che ri-arriva stasera, e baciarlo, probabilmente sul dorso della mano, giacchè è alto quattro metri.
Disinvoltamente
Ci vogliono anni di pratica per occupare da sole un posto in un ristorante o un bar e non far pensare che si cerchi compagnia, che non ci si nasconda da qualcuno, che non si aspetti nessuno. Chissà perchè tutte passiamo per queste forche caudine, ma nessuno mai che ci abbia insegnato a mostrarci disinvolte.
(Leon Bakst, donna in nero) – Post di Antonella fabriani Rojas
Lei è una donna molto bella, carismatica: ha l’aura di Okuto, come Ken Shiro, le dico. Infatti entrando dentro l’area lavoro di gruppo, in cui si ragiona di massimi sistemi ma non di psicoterapia – non sono malate, sono solo belle – spicca lei. La mia Miss Italia è Donna Maria Rita Parsi, tremila parole al minuto, seimila pensieri al secondo. Maria Rita, ovvero della mia speranza personale che esista un mondo migliore per le donne con gli uomini è qui, e me la fanno avvicinare nonostante l’occhio da faina nel pollaio mi abbia preso campo.
E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale qui su Montecatini Terme: raining cats n’ dogs màa, direbbe mia figlia Mezza Pinta che parla l’inglese come gli immigrati di Brooklyn. D’altronde suo padre viene dall’Ohio e io nacqui chez Livorno. Sarà che è Lunedì, sarà che ormai le Miss mi appaiono anche in sogno, sarà che l’arrivo di Hoara Borselli mi ha steso definitivamente – ma è vera, dico, è umana? io ho bisogno di un uomo – da scrutare, si intende. Cerco di intercettare Nicola, capo della web-tv e specialista in dribblamento della mia sottoscritta (bellissima) persona: ha un talento particolare, come io mi paleso in una stanza lui si smaterializza e mediante i bocchettoni dell’aria condizionata si ricompone a un miglio marino da qui. Ho assi nella manica e qualche conoscenza importante qui, per esempio la barista, quindi mi apposto tutta vestita di nero nel corridoio che porta alla stanza Rai, dove sta affisso il cartellone “a nana càa macchina fotografica nun entra” con la mia foto. Passa il direttore dei lavori e tocca la colonna di ferro. Passano le costumiste e incrociano le dita dietro la schiena. Finalmente passa anche Nicola e con un sorriso a denti spiegati, tutti e venti quelli che mi sono rimasti in bocca, lo fermo hai mica mezzora per me? Mi guarda atterrito, oltretutto c’è pochissima luce. Venti minuti? Dieci? Assolutamente, risponde. Quindi andiamo al bar, dove conto di fare ottima impressione chiamando la barista per nome.
Mi si deve spiegare perchè una volta esistevano donne magre, tanto da mostrare la muscolatura della schiena come le anoressiche, con un vitino come la Barbie, un seno tondo e pieno che stava su come col push up, e con tutte le morbidezze alle braccia, al sedere, alle cosce. Oggi se sei magra sei ossuta o malata, se hai i muscoli sei una culturista e sembri un trans, se hai qualcosa di tondo al petto è finto, e se hai un vitino di vespa è merito del chirurgo.
(Bettie Page, nudo 1951, by Antonella Fabriani Rojas)
Il mio amico R vive appena fuori Montecatini Alto. A voi sembrerà notizia insignificante, ma per lui – che ha eretto un totem di ringraziamento, ritrovato la fede e fondato la Onlus “Io Ti Consolerò” per alleviare la delusione delle miss scartate dal 1964 a oggi – questo è il giorno della riprova: stasera gliele portano lassù. Ceneranno lì, nel borgo medievale dove Bob De Niro e Schwarzy amano ordinare crostine miste e Chianti. Le Miss saranno distribuite, un pò come il pane e il vino alle nozze di Cana, fra i ristoranti, caffè e enoteche che stanno sulla piazzetta principale, quella dove d’estate si emigra per catturare un pochino di fresco e parecchia atmosfera. R ha (giustamente) interpretato questo segnale come un chiaro intento divino di premiarlo, un benigno messaggio di incoraggiamento: fonderò un culto, è deciso. Oggi è anche il giorno in cui arriva Maria Rita Parsi, la creatrice del pantone Orangeade e psicoterapeuta, con numero quarantatre pubblicazioni all’attivo.
Dietro le quint(an)e.
Sto prendendo confidenza. Stamattina sono andata dai miei amici di Equitalia con il pass di Miss Italia per vedere se funziona anche qui come a Montecatini. Nulla. Da buona italiota ho utilizzato il mio tesserino dovunque e varcato ogni possibile blocco di polizia, carabinieri, stampa, guardia di finanza e spero che ci siano anche i pompieri. Non ha nessuna presa sulle farmaciste, questo è chiaro ormai. Tiro su la collanina con la schedina e tutti mi sorridono e mi fanno passare. Ho notato però che quelli che contano davvero se la tengono in tasca, o agganciata dove non si vede, allora sto studiando forme alternative con effetto sorpresa – et voilà, l’avevo qui, nel doppio fondo delle scarpe ortopediche, che ti credi. Ieri è stato il turno delle interviste senza domande: ho seguito le ragazze da una distanza ragionevole, un pò come un’epidemia di colera, e mi sono messa ad ascoltare i commenti degli addetti ai lavori come delle persone in strada. Foto istituzionali, vaglio degli sponsor, passaggi in centro. Il mio amico R, quello che ha eretto un totem di ringraziamento e fondato la onlus “Io Ti Consolerò” per le miss scartate, ha detto che se gli anticipo le mosse delle ragazze – quando non sono protette, capisci? – mi intesterà la casa dei suoi genitori. Ho declinato, più che altro perchè lui ci vive ancora con sua madre, suo padre si è offerto ostaggio di terroristi birmani anni fa, in un prestigioso appartamento zona quasi centrale con vista tipica (ovvero, due stanze a otto chilometri dal centro con finestre sul bagno dei vicini di casa, spacciatori).
C’è questo ristorante appena fuori Oxford con cento coperti e una brigata di cucina immane. Il pranzo diventa un’esperienza esistenziale-culinaria e la digestione accade in un salottino – ondeggiando rum, sorseggiando caffè, indulgendo in tortine fatte in casa. E’ un castello, ma per me è semplicemente il luogo dove voglio tornare nella prossima vita sotto forma di honesty-bar. La lista dei vini, seicentopagine a pergamena, mi è quasi del tutto sconosciuta – anche perchè la maggioranza delle etichette è francese. Al momento del conto un signore arriva e ti fa indossare un casco di alluminio, per attutire meglio la randellata del conto – Ecco a lei signora, spetepèng, sono ottocentoventidue sterline, le riporto il cappotto? Non importa, davvero.
Nel villaggio dove vado spesso a sciacquare i miei panni esistenziali – Vellano, appena sopra Pescia – c’è stato un terremoto attorno agli anni venti. Una sola persona è tragicamente morta, un uomo sposato rientrato in casa durante le scosse più potenti per recuperare le fedi, su richiesta di sua moglie. Un tempo, da queste parti, era uso infilare gli anelli in un’ampollina ripiena di acqua santa se la notte si faceva l’amore, allo scopo di mondare l’atto comunque impuro, sebbene fra marito e moglie. Quando il terremoto è arrivato gli abitanti ce l’hanno fatta a correre fuori dalle case in tempo, ma il nostro eroe è rientrato, perchè la moglie lo ha pregato di andare a riprendere i suggelli del loro matrimonio. Detto fatto – e fine dello sfortunato consorte, nel modo più romantico possibile. Me l’ha raccontato Publio e io ci credo, perchè lui sa tutto di questo posto, ha la barba ed è alto circa sei metri.
Ci sono dei lavori domestici faticosi che però danno grande soddisfazione. Poi, stanche ma compiaciute, ci sediamo ad ammirare il risultato.
[Pierre-Bonnaud, Salome, by Antonella Fabriani Rojas]