
Mi dice se voglio ordinare giapponese o cinese, mi chiede se vogliamo il vino o la Diet Coke – non c’è ancora la Zero, parlo di dieci anni fa, tondi. Scelgo dal menù, convenientemente con i prezzi accanto: esorbitanti. Lei sceglie zuppette e alghe, io ripiego per quello che costa meno, sperando di fare una media ponderata aldisotto delle trenta sterline a testa: non ho i soldi, hai capito o no che io non ho i soldi? Non dico una parola, tiro fuori la carta di credito con le scritte rotonde, così come si confà ai poveri – il Palatino è per i ricchi, l’Arial per quegli altri. Lei tira fuori una carta customizzata, d’altronde è il boss dei boss, e ordina. Dividiamo? Mi chiede. Of course, rispondo, sapendo che dovrei essere in un mac donald, con un cappellino in testa e un grembiale.
Mi ha dato la stanza degli ospiti finchè voglio, pensavo fosse un gesto d’amicizia in realtà il tutto era manovrato dall’altra, quella che poi avrebbe figliato col mio amico; mi voleva (giustamente) fuori di casa, e la bionda si era prestata alla disinfestazione. Mi porta spesso a prendere il tea, o un aperitivo con la gomma in bocca, per mantenere l’alito buono – così fanno gli americani che ce l’hanno fatta, si fanno i denti fosforescenti e masticano cose per l’alito, sempre. C’è insofferenza nei suoi gesti, mi parla delle sue cose di casa con distacco, sperando che io non risponda – e io non cito aneddoti. Usufruisco del suo autista, ma spesso mi lascia a casa. Andiamo assieme a vedere i musical, ma quando si tratta di andare all’Hakkasan io rimango a cuccia nella villetta di Notting Hill coi tetti altissimi e i mobili belli, fatti su misura.
Al mio arrivo c’è anche un accappatoio e un set con spazzolino nuovo e pettine incellofanato per me. Nel frigo un piccolo scomparto mi è dedicato, lo sa bene la peruviana che ci fa le pulizie tutti i giorni, molte ore, pagata dalla Universal. Anche quella che ci fa le unghie delle mani e dei piedi è pagata dalla Universal. Anche le cene cui non vengo invitata lo sono, e gli aperitivi nelle salette private di Londra. Non mi lasciano a casa all’inizio, anzi, da principio mi chiamano con entusiasmo, ma io mi incupisco: amo molto le cose difficili da conquistare, quasi solo mie, ma le briciole dal tavolo del re non mi hanno mai interessato. Sono pesante. Dico le mie solite battute che offendono tutti e tutti, semplicemente, mi lasciano a casa.
Parte la campagna per V, io sono l’addetta al web & idee balsane. Chiamo M tutti i pomeriggi, lui sì che sa queste cose, io no davvero. Finiamo sulla chat regolarmente a parlare di argomenti poco buoni, è un pò lo stipendio che devo versare per avere disponibili, veloci, i trucchi del mestiere: no, io non so usare flash. “M e io” siamo nulla, ma in quel vuoto asettico londinese siamo tutto: ho bisogno di contatto, di sentirmi importante per qualcuno. Chiunque. Alla cena di inaugurazione per il film di G passo la sera a mandare messaggini a M, dopo venti minuti mi si è scaricato il credito. Lo ricarico con la carta bianca dalle scritte rotonde. Un’altra ora di messaggi e ho finito. Non posso ricaricare, mi dice la signorina metallica, ho finito il credito. Spallata provo a socializzare, la tedesca che mi fa i vestiti a fette con le forbici a casa, là fuori pare carina, mi presenta a dei tipi che poi ridono: chissà che ha detto prima di portarmi lì quella strega.
Al ritorno qualcuno entra nella Porche, qualcuno nella Volvo, qualcuno nella Duetto. Io mi dileguo, vorrei sparire, e mi prendo un biglietto della metropolitana che la notte sa di olio stanco. Arrivo alla stazione vicino casa del boss, intorno ceffi neri che magari sono brave persone, ma io ho paura. Sono molti, sono confusa: autobus, forse, o minicab. Ma la mia amica polacca ci è quasi rimasta incinta una sera, la voleva violentare uno di questi drivers dei taxi di serie b, quelli dove dietro e davanti si può pure fumare. Meglio l’autobus. Sbaglio la linea. Le lacrime mi rigano le guance, sono calde come la rabbia. Non ce l’ho i soldi per un taxi vero, scendo. Entro in un pub pieno di gente bianchiccia e sudata, chiedo dove sta il negozino dove vendono le guide di viaggio anche usate. Di là. Vado di là. Mi levo le scarpe. Arrivo a casa e prendo le chiavi dal vaso, entro, mi lavo i piedi e vado a letto sentendomi uno scarto genetico.
Ecco la mia Londra, fino a che non ho scoperto il quartiere brasiliano e il mercato dei turchi, abbracciato la cultura polacca londinese e conosciuto l’inglese, che si muove come una biscia. Ecco il mio ricordo vivido, fino a che non ho scoperto il fiume, il bar dove tutto è cattivo a parte le uova con la salsiccia, ma c’è la conduzione familiare e G si ricorda il mio nome. Fondamentale, per noi di questi paesini, creare una microtoscanità all’estero e non farsi influenzare dai mollicci, da quelli che bestemmiano fra una metro e un autobus. Importante trovare una taverna, una trattoria dove si può andare ogni giorno, un amico silente, un’amica più brutta o meno ricca, un percorso che sembri aggraziato a farlo alle sette del mattino. Per ora passo in mezzo agli olivi qui dietro casa, dopo si vedrà.