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La vita più meglio assai in dieci mosse (strepitose).

Juanita de Paola

Qualche anno fa ho incontrato una persona straordinaria: partito come pizzaiolo ha costruito un impero con la sola intelligenza, di nascosto finanzia restauri, recuperi, amici, nemici. Non si è comprato un macchinone, non ha il cabana al mare, non ha detto più di una decina di bugie in casa sua – non è l’amico cui chiedere come mi vedi, perchè si rischia una risposta sincera. Piuttosto vive una vita calvinista, in cui comprare un Picasso può essere un’opzione, tenerlo in terra, in corridoio, a disposizione di chi lo va a trovare nel suo appartamento, è una naturale conseguenza.

Ha trasformato il modo in cui vivo e penso, infilandosi prepotente là, dove avevo lasciato aree grigie. Mi ha insegnato a dire la verità, anche quando fa schifo, e mi ha fatto piangere come mai nessuno prima quando ci siamo scontrati, inchiodandomi su una miriade di cappellate che ho combinato. Mi ha messo su una strada, senza volerlo, di assoluto pregio, in cui tutti stanno nudi, crudi, come sono: la via che porta lontano da sè, alla scoperta degli altri così come sono. Soprattutto, mi ha insegnato la tecnica del ribaltamento: “pensa a rovescio”, mi diceva, analizza quello che fai e riducilo in piccoli segmenti, fallo semplice, perchè quello che è complicato è incompreso anche a chi lo esprime.

Ho iniziato a fare le pulizie e vari altri lavori umili a pagamento come alternativa alla palestra un poco di tempo fa. Ho pensato che a tirare via un tappeto e dare l’aspirapolvere si fa un sacco di fatica, più dello step, e lucidare i vetri in alto è più efficace dei pesi. Non si paga, anzi ti pagano – se uno si libera del pregiudizio che è cosa da servi, certo – è come andare in palestra sponsorizzati da qualcunaltro. Ho anche imparato che per pulire un piatto prima bisogna strofinare il lavello e l’acquaio, se no è inutile. Certo, la tentazione di dire ma come ti permetti brutta bestia, non sai che io sono di qui e di là, è forte, ma tanto le parole non hanno mai cambiato le persone.

Mi sono poi iscritta a ripetizioni di matematica, perchè da piccina ho avuto un’insegnante grafomane e poco incline alla mia persona che mi ha demoralizzato, dicendomi che non la capivo. Matematica è libera come solo la pittura di un matto, e mi aiuta ad analizzare le statistiche nel mio lavoro. Sono agli integrali, ho due buoni insegnanti, e certi giorni mi sembra che i numeri possano parlare di Dio – che cerco.

Ho preso la mia agendina e ho scritto a tutti quelli con cui avevo/ho un conto in sospeso: tutte le persone che amo e che hanno fatto qualcosa di deleterio, tipo una scelta obbligata o castrante, hanno ricevuto un piccolo pensiero da me, perchè certe cose è meglio averle fuori che dentro. Qualcuno ha capito, qualcunaltro no: poco importa, meglio tagliare le fronde prima che caschino in testa a qualcuno. Spero anche che con me facciano lo stesso.

Ho iniziato a darmi lo smalto colorato. Come le bambine di sei anni ogni giorno cambio colore, sbafo sulla pelle e uso un litro di acetone: non importa, è bellissimo. Ho anche indossato quattro rossetti diversi nella stessa giornata. Ho smesso di vestirmi per le occasioni e iniziato a farlo solo per l’umore. Oggi, ad esempio, mi sento francese, quindi ho una grande fascia in testa, i capelli lasciati lì così, una tutina lunga e larga e tutto l’argento africano addosso. Mi faccio i pediluvi con la radio classica e i libri, che leggo solo durante i pediluvi. Appunto.

Ho rinunciato alla macchina, ai quadri – li ho regalati, anche se gli ultimi li lascio per E – a tutto quello che mi invischia in un posto preciso, ho dato via quasi tutti i vestiti rimanendo con un cambio a settimana per un mese. Ho imparato orari e costi di treni, autobus e shuttle bus. Ho chiesto ai miei amici di regalarmi i loro migliori libri usati, e me la sto spassando molto, con questa quantità di tomi. Ho fatto pace con la televisione, con il governo, con l’opposizione, con la dirimpettaia e persino con quella santa donna di mia madre, ho alzato bandiera bianca: non sarò una rockstar, non sarò famosa, nessuno si ricorderà di me, quando morirò tornerò ad essere polvere. Ho iniziato ad ascoltare Lady Gaga e rispolverato Frank Sinatra, convenuto che Norah Jones è inascoltabile e terrorizzato tutti gli scaricatori di musica a sbafo: non si fa! Meglio Radio Azur su iTunes, come mi ha insegnato B.

Quindi, ho tirato su le quattro bottiglie di vino più care che abbia mai comprato e le ho “sdraiate” a poco a poco, per non morire eventualmente lasciandole ai ratti. Ho abbandonato le mie opinioni, e perso ogni velleità didascalica. Ho anche perso qualche chilo, perchè alla mia età bisogna cominciare a stare attenti alla schiena. Ho ricominciato a suonare, a cantare, a guardare il sedere dei maschi che rimane una poesia universale e ho rivalutato la possibilità di avere dieci figli, se ci fosse l’occasione, o aprire una libreria multimediale dove si serve cioccolata calda e vin brulè. Ho deciso di trasferirmi a Londra, perchè qui sto così bene che ho paura di svegliarmi fra trentanni. Oggi, dicembre 2010, sono una persona felice – e penso che non ci sia nulla di male a dire “felice” invece che “serena”, visto che i novantaquattro anni sono ancora lontani. E invece di “ma anche no”, è proprio tanto meglio “perchè no?”.

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Intanto l’Inglese

INGLESE
L'Inglese e una delle sue clienti, credo.

Amò, ricordati che tieni famiglia eh.

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Le notti del Cabiria.

juanitaececilia

Torno al Cabiria per respirare aria umana dopo un pomeriggio a discorrere di affari nell’ennesimo bar lounge di un hotel. La proprietaria con i capelli lunghi e la voce alta non c’è più, ora ce n’è una rasata che è più gentile anche se non ride. E’ pieno di sudicioni che fanno il pieno al buffet aperitivo: per 4 euro si può partecipare alla fiera del carboidrato e ascoltare la musica triste con l’eco.

Portano via un motorino e un disgraziato che è collassato davanti alla Chiesa. Mi manca mia figlia, è da stamani che non la vedo. Mi sono addormentata sul sagrato della chiesa dopo una contrattazione difficile, non ho le palle e alla fine si portano sempre via un pezzetto di me. Così se ne sono andati il motorino, un disgraziato e una briciolina della sottoscritta.

Ho paura di questo, del tempo a mia disposizione: non credo che sarei più in grado di lasciarmi attraversare, così, senza opporre resistenza. O forse mi manca, più di tutto, di accovacciarmi sulla spalla di un uomo mai visto per chiedergli conforto gratuito: quelli che mi si legano mi chiedono così tanto, deve essere colpa mia.

Arrivano gli studenti a infilare le mani nel buffet, posso solo bere un bicchiere di vino e perdermi nella loro beata imbecillità, augurandomi di diventare giovane anche io quando sono vecchia.

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Le cose che rimarranno.

Ho comprato ribes, more, uva nera e lamponi. Per celebrarne i sapori ho intonato la spesa intera ai loro colori, mi sono divertita a non comprare nulla che potesse stonare – come gusto e come tono – da quelle quattro vaschette. Ho pensato che era un gioco, che correre sul carrello appoggiandocisi sopra per fare vari metri facendosi portare dall’inerzia fosse una buona cosa, che mi avrebbe dato gioia.

Sono passata davanti ai vini del supermercato, messi sempre così male da non sapere se sono di buona qualità o se costano troppo per costare tre euro. L’unico che mi ha fatto venire l’acquolina è stato Livio Felluga, quello con l’etichetta chiara, che mi ricorda di una cena seduta  con il viso appena fuori dall’acqua, in piscina, e quaranta gradi fuori e dentro. C’era anche un sigaro e mi imbarazza non ricordare se avevo in mano un portacenere  o no.

Alla cassa i bambini degli altri mi sembrano tutti delle rane orrende, incredibile che dopo una figlia abbia maturato un istinto materno, di tigre, certo, ma solo per lei. La cassiera si è fatta male le sopracciglia, ma ha le mani screpolate così come accade alle persone buone, e le dita cicciotte ma magre nel mezzo: non le dirò cose sgradevoli, mi farò maltrattare senza dire pio. Mi dice che ho messo male i cartoni.

Un ragazzo mi offre un corso di danza sapendo che non accetterò, piuttosto mi dirigo al bar e mi faccio fare un caffè macchiato da portare via: mi piace maneggiarlo in auto, avere qualcosa di cui godere anche mentre qualcunaltro guida. Bisognerebbe che nel cruscotto ci fosse un piccolo Forno Harbert, per poterci mettere pane e michette. All’incrocio vedo una coppia stramba, si abbracciano le lonze. Mi fanno tenerezza, ricordo com’era quando la gente invecchiando si beava della propria bruttezza crescente. Ieri notte ho dormito 12 ore. Un Lunedì straordinario.

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Non parto, preferisco così.

Juanita

Lavoro ad Agosto da sempre, dove lo spiegare (quando richiesto) perché lo faccio è la parte più difficile. Qualcuno crede che sia perchè non oso mettermi in bikini, e quel qualcuno ha (una parte di) ragione: ho troppa stima di me stessa per allinearmi a bambine di sedici o venti anni, camminando nuda vicino a loro. Altri dicono che sono la socia meno ricca, quindi mi tocca la stagione estiva in sede – anche loro avrebbero forse un pochino di ragione, ma solo sul fatto che sono la meno ricca. Agosto, per me, è semplicemente il mese in cui fermarsi come Caronte alla sponda per vedere chi va e chi si ferma. Non ho punto voglia di farla, la vacanza: pensare che la mia vita ideale si trovi lontano da quella che faccio mi butterebbe nello sconforto. Amo le trattorie che non ho ancora scoperto, questo è l’unico viaggio che mi interessa: quello che sta fra il cuore e l’intestino.

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Chissà dove sei.

Juanita de Paola

Fuori batte un mondo caldo, è la giornata ideale per rimanere sul divano, con il ventilatore acceso ed un documentario su animali selvaggi, se possibile che si squarciano a vicenda. Inizia il contro-esodo, che lascia impassibile chi non ha praticato l’esodo, chi è rimasto a tenere in piedi un ufficio, un sogno, una protesta: perchè devo andare ora, se so già che a marzo starò una ciofega e avrò bisogno di partire? Perchè non godersi le ultime due di settembre, quando i pantaloncini si accoppiano al maglioncino di lana e i capelli rimangono al loro posto?

Odio l’estate, con la sua imbecille pratica della vacanza, ma mi fa sentire fortunata: soffro lontano dal lavoro, perchè non è un impiego, ma quello che volevo essere da grande. Invitata a casa di amici mi sento struggere, ogni parola mi riporta alla letteratura della bellezza del territorio, delle case, delle mura, dell’idraulica, dell’orto. La sera cerco un tavolino isolato dove, con la mia agendina, posso rimettere a posto i pensieri del giorno, ma gli amici si avvicinano e c’è da sparecchiare la tavola. Le donne si avvicinano alle donne e si instupidiscono, gli uomini si avvicinano agli uomini e si incattiviscono: è il dopo cena, baby.

Fuori è afoso ed umido, mi ricorda di quando sei arrivato da lontano e ci siamo incontrati, per disperazione. Mi ricordo i pranzi a base di pane, olio e vino. Mi ricordo un pomeriggio sul prato con quel prurito che l’erba tagliata provoca, e il desiderio impellente di un bagno fresco, di asciugamani appena stirati: di candore. Avresti potuto essere altri mille, avrei potuto essere una ballerina polacca con i capelli rossi: non importa, eravamo lì per diventare qualcosa assieme, perchè eravamo pronti. Mi manchi, chissà dove sei – è domenica, dovremmo essere al bar a prendere in giro i figli degli altri.

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Almeno non provoca scorie.

Juanita

Indosso le mutande dei miei fidanzati, perche’ si trovano con facilita’ al mercato in puro cotone in pacchi da venti a cinquanta centesimi  e, come tutte le cose brutte, tendono ad essere ritrovate nel solito posto in numero maggiore a quello originale. Indossavo anche quelle di mio padre (prima ) perche’ giacevano in un cassetto alto stirate e riposte da mamma, ed erano sicuramente piu’ allettanti delle mie, appallottolate in qualche angolo dell’armadio.  Oltretutto io e mio padre abbiamo condiviso a lungo lo stesso punto vita.

Invidiavo (prima) la liberta’ dei maschi, che possono indossare biancheria orripilante senza che nessuno ne faccia un dramma, e me la sono accaparrata.  Come pure ho copiato la tecnica di mandare mia madre alla guerra con l’ordine “va e trovami qualcosa che mi stia bene, qualunque cosa, ho una cena di lavoro”.

La mia povera mamma e’ quindi diventata stylist suo malgrado, peraltro con pochissima soddisfazione povera santa –  il solo provarmi un abito mi da’ la nausea tipo visita ginecologica. Mamma mi ha riempito di un-pezzo-non-si-deve-stirare in tutti i toni che stanno fra il nero e il tortora, giacche’ i colori artificiali mi danno l’ansia.

Per qualcuno l’essere moda-repellenti e’ un pregio, io me ne vergogno. Al punto che qualche volta azzardo qualche accostamento speranzoso che mi sembra azzeccato, col risultato che mia sorella mi pone un maglione sulle spalle a coprire i risultati o il mio fidanzato mi porta in un cocktail bar per prostitute, dove non si fa molto caso allo stile. Tutti mi regalano vestiti e spazzole per lisciarsi i capelli, col risultato che quando ho due cose addosso che vanno d’accordo tutti mi fanno brava Juany, guarda come stai bene quando ti vesti a modino.

Io leggo le rubriche sui giornali che mi piacciono tanto, ad esempio 24, e non mi capacito di essere stata condannata all’essere donna, con tutti questi ciondoli da coordinare alle unghie e ai foulards, con il senso dello stile che cambia ogni due minuti e io sto ancora lavorando sul mio senso estetico della seconda media. Ho lo stesso bikini verde bottiglia da circa quindici anni, ma solo perche’ se entro in un negozio di costumi mi confondo e finisco per comprarne uno col sospensorio.

Forse ho una sola speranza, che e’ quella di declinarmi all’eco compatibile: con 2 nuovi capi d’abbigliamento l’anno, 1 paio di scarpe a stagione e una spesa media procapite giornaliera di 5 euro (caffe’, giornale, toast e gottino di vino al circolo arci alle 19), senza macchina perche’ l’idea di un bollo e di un’assicurazione a intervalli regolari mi fanno venire le bolle e in co-housing da quando ho diciotto anni, posso sperare di morire non avendo gravato questa terra di un grande peso.

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I risultati mi deprimono.

Juanita

Le cose che si vogliono con forza a dieci anni diventano superflue a venti, così come i sogni dei trentanni si trasformano in ovvietà, volgarità, quando si arriva a quaranta – e così via. Tenersi aggiornati con sogni che non ci facciano male o trasformino in creature quiete, futili, è tanto difficile. La tentazione di diventare quello che i genitori si aspettano, di assecondare il sogno demente della propria moglie che vuole una posizione o quello stravolto del proprio marito che vuole Doris Day, sta diventando un’emergenza: quando non assecondata, si trasforma in carneficina.

Questo pensavo, in più riprese, correndo a piedi nudi, gonfia come un papero dalla degustazione di amari della sera prima, da Montecatini Alto a Montecatini, sotto il sole delle otto e mezzo, le scarpe coi tacchi in mano e la borsa in collo.

Il risultato strategico di questa decisione, quella di fare 4 chilometri a corsa senza essere vestita da ginnastica, una di quelle cui non so e non posso resistere, iniziata con “vediamo se mi riesce di correre come faccio nei sogni”, sono due gallozze piene di acqua sotto i talloni, che la podologa o estetista consiglia di non toccare, altrimenti vedrai che non cammini. Per toccare intendeva sgonfiare con un ago, così come facevo da piccina. Il vantaggio non atteso, invece, è un rinnovato innamoramento per le cose senza senso compiuto.

Chissà perchè tutto mi sembra più macchinoso di prima. Chissà se Cecilia mi vorrà bene. Chissà se anche lui pensa di me quello che penso io di lui, e allora, perchè le persone stanno insieme se dopo tanto tempo non si sa cosa dirsi, certe volte? E mi dovrei sentire in colpa per essere sempre così lontana, così distaccata?

All’altezza della Casina Rossa sono stata recuperata da una macchina di un’amica, che non poteva credere che io fossi in quelle condizioni: paonazza, sudata, con le gote a macchie rosse, e gli occhi esaltati di chi ha appena schivato una cacca di cane. Ho bevuto due litri di acqua, ovvero il quantitativo che trangugio in due o tre giorni, e perso le chiavi di casa. Quindi ho raggiunto il mio ufficio, dove mi sono lavata piedi, denti e qualcosaltro a caso in quel bagnetto di servizio tutto piccolo e con un abbaino piccinissimo.

Ma sei sicura che è questo che vuoi fare? Sei sicura di volere essere qui? Sei sicura che quando arriverai a settantanni approverai la vita che ti sei costruita? Fanculo, ho voglia di leggerezza, dov’è la leggerezza? Ho sognato nonna che mi dava i numeri del superenalotto: 2-9-11-22-78-80. Io non gioco al superenalotto. Nonna, che cazzo.

Ho vomitato, ho rilavato i denti e mi sono messa alla scrivania, indicendo la riunione mattutina sui temi, gli obiettivi e i risultati. Abbiamo confabulato fino all’appuntamento, che è durato due ore e passa, con un cliente.

Sono felice, piena di nulla, e non so nemmeno cosa devo ringraziare.

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Trova l’intruso

juanita

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Certo, e Personal Jesus l’ha scritta Hillary Duff.

Houston, abbiamo un problemino: non mi interessa se questo titolo è omonimo, questo incipit mi ha fatto cascare tutte le ciglia. Qui.

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Viaggio, eppur non mi muovo.

juandpaola

C’è qualcosa di divino nelle commedie americane che finiscono bene, dove tutti i tentativi di riscossa vanno a buon fine e c’è sempre qualcuno che si trova con un sacco di soldi in tasca – che per gli americani è il vero vissero felici e contenti. La cake al cioccolata, le ciambelle, il caffè lungo nelle tazzone che ti puoi portare dietro tutto il giorno, (quelle col cappuccio, la cannuccia e un rivestimento ignifugo) fanno parte del mio passato come tutte le vite che non ho vissuto in una mansarda parigina, ma che ricordo alla perfezione nei sensi tutti.

Daltronde se dovessi scegliere fra una cittadina (più chiesa di culto inventato pret-a-preghér) e New York non avrei dubbio: meglio la follia della provincia, delle case di un piano con il giardinetto quadrato, con il parrucchiere che divide il negozio con un travel agent, dell’ansiogeno avere tutto a portata di mano. A dire il vero quando parlo con un imbecille a caso, non è raro che dica che ha viaggiato molto. In genere la vita rilassata lo annulla, non si sente cittadino di alcun luogo “E non c’è niente come New York”…

Poi mi prende il legittimo dubbio di far parte di quegli imbecillotti che non capiscono nulla, che si ritrovano in cucina per ottanta anni di fila a dire le stesse cose, che criticano i cittadini solo perchè non gli riesce di coordinarsi in una metropolitana: difatti io giro la mappa finchè non è orientata con la direzione dei miei piedi ed il verso della mia camminata. Che ci devo fare se entrare in una stanza piena di gente che non conosco mi fa sudare le mani, sentire un mostro e bruciare la pancia? C’è qualcosa di divino nella faccia di Robert Downey Junior, anche.

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Sexual Lasagne.

Juanita de Paola

Modigliani era solo, ubriaco sul marciapiede davanti al bistrot a Montparnasse, appena girava l’angolo era saggio e disciplinato: era un grande attore,  dice tale Parisot nell’ultimo numero de Il Toscano. Così siamo noi, che riserviamo al nostro vero io solo gli ultimi due giorni delle vacanze al mare o la fortuita permanenza coatta in aeroporto causa vulcano, che giriamo angoli di continuo per vendere qualcosa a qualcuno – ci vuole un cingomma alla menta doppia per levarsi l’olezzo di bocca quando si parla da alticci ma non si vuole dare a vedere, specialmente se si sta cercando di rifilare un prodotto, un servizio, qualcosa. Non ho da lamentarmi del gioco del placare bisogni altrui, perchè é un’arena dove combatto con gioia infinita, il punto è che abbiamo poco da stare spontanei, non si può abbassare la guardia mentre si vende, perchè se no ti fregano.

Quando mi invitano a vedere una casa cerco di non pensare a cosa avrei messo io, in quale modo, in quella stanza, ma a cosa pensavano i proprietari che l’hanno tirata su. Sono abbastanza veloce a capire quando vale ogni metro quadro sul mercato, quale mercato?, ogni mercato, tanto non esistono più i popoli ma solo le popolazioni, e oggi tutti assomigliano a tutti. Ad esempio i russi, appena usciti dalle file del pane ma con una grande letteratura, forse la più magnifica, hanno deciso di prendere ad esempio gli americani che gli americani emarginano, quelli ignoranti con la macchina enorme e gli stecchini fra i denti che viaggiano a Paris e Rome come se andassero a Orlando, ora che anche loro si possono permettere soggiorni da decine di migliaia di euro. Per intendersi, i miei clienti spendono in una settimana quello che le persone normali impiegano quattro anni, nel migliore dei casi, a pagare con un mutuo.

Negli occhi di chi viaggia potendosi permettersi ogni cosa vedo la stessa espressione svuotata dei proprietari seriali, quelli che si ritrovano con ville e case in ogni dove e decidono di metterle a reddito senza avere un vero e proprio spirito di ospitalità, ma solo per ripagare le spese di mantenimento e i contributi, quando versati, dei vari indiani, filippini, turchi, italiani che popolano le loro case secondarie per la servitù. Non c’è gioia, spesso, non c’è cerimonia, gratitudine. Pochi capiscono il gesto dei fiori freschi, pochissimi sanno cosa far trovare nel frigo a un pellegrino: certi giorni mi auguro che si torni alle carrozze, alle cose poche, alla distanza, poi mi tiro un paccone nella testa per sotterrare questo mélo da Candido. Ci sono poi le eccezioni, e queste rappresentano il motivo per cui faccio il mio lavoro con la stessa foga dei vecchini che giocano al poker nei bar: il piacere, estremo, fisico, di vedere vecchi atti declinati in chiave ricettiva rifarsi vivi, tornare alla vita in una delle mie ville, per uno dei miei clienti.

Nel sesto mistero gaudioso si contemplano i pezzettini di pera “coscia” che si rifrangono nei ripieni di pecorino delle gote e le lasagne debordanti di Federica Francese, di cui violo volentieri la privacy perchè, come per i Brangelina dopo che si sono messi assieme, la sua vita non è più privata da quando mi ha messo a tavola. La lingua, ancora acerbata dalle fave verdi e dallo champagne, ritrova il gusto dolce della vita e si prepara ai frutti di bosco (caldi) con gelato (freddo), un effetto giocoso come quando un uomo che ti piace ti fa una snasatina sul collo. L’inglese mi guarda come se stessi parlando troppo ma si mangia le lasagne, e aggredisce la mozzarella burrata, ovvero la riprova che l’entropia è un dettaglio rispetto ai piani dell’universo per farci felici. Zucchero di canna che sembra biscotto pestato, ci vorrebbe un diversivo per poterci infilare un mestolo e mangiarselo. Trangugiare è il verbo a cui penso di più. Segue sbavare.

Ripenso ai pomodori di nonna Elena, pieni di sapore, olio e origano, mangiati nella terrazza della casetta sul porto di Punta Ala: ecco cosa mi ricordano questi sapori, e rientro mentalmente al tavolo solo quando mi accorgo dei fagioli con la broda che cantano lo jodler; sono stati fortunati, sarebbero potuti finire in un’altra casa, ma sono arrivati qui. Mi torna in testa di quando veniva Loretta Goggi a mangiare e si facevano le foto che poi finivano nelle cornici, perchè erano le polaroid importanti, le più popolari presso gli ospiti. Era simpatica Loretta, e magrissima, ma non riusciva a fermarsi davanti ai pomodori ripieni di riso di nonna, alla sua insalata russa con la gelatina, alla sua omelette croccante, obesa di formaggio ed erba cipollina. Abbracciavo nonna con le sue puppe enormi e lei sapeva di aglio, di basilico, di mamma all’ennesima potenza.

Questa casa sa di buono, sa di Leopardi che ce la fa a cuccare Silvia e vissero felici e contenti far edizioni limitate di libri con la copertina di pelle, di ricette per tenere l’argento vivo e splendido, come i ricordi della famiglia quando siamo piccini. Se è vero che una casa si vede dal bagno, questa allora è ricca, con una schiera di profumo da bon vivants che mi accendono il desiderio di chiudermi qui dentro e spruzzarmi fino alla nausea, perchè sì, perchè tanto gentili come sono non mi direbbero nulla. Prossimamente teatro di cene a tema – a capotavola Amy Whinehouse, in camera, il suo manager che batte la testa nel muro, nel frantoio, con le mani unte di salsiccia, noialtri: benvenuti alla Locanda Vajani, Teatro Boroni, Scuola di Grande Cucina e Arte dell’Accoglienza di Donna Federica.

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Ma dove sono finiti gli americani?

Juanita de Paola, foto al gabinetto dell'ufficio

Rimangono male i milanesi quando vengono in Toscana: si aspettano trattorie dove per dieci euro si mangia allo sfinimento e si beve da gran signori, ma capitano immancabilmente in galere dove per cinquanta euro ti danno il vino da tavola in caraffa e ti fanno pagare il pane. Questa, diceva Fabiano, è la più grande virtù della Toscana: non cambia perchè rimane uguale a sè stessa, è resiliente al miglioramento, e quando l’autocertificazione per l’autostipendio sarà una realtà, qui ancora si spediranno le missive.

Con la Toscana si ha lo stesso rapporto che un uomo ha con una donna brutta che sa cucinare bene: la si sposa rimpiangendo le svedesi e la si impara ad amare nonostante le sue gambe corte. Passati gli anni, quando le rughe si sono fatte strada e i seni si sono interessati sempre di più all’ombelico, quando lo spacco sul seno non sortisce più quell’effetto di prima (anzi), la moglie che ti mette l’arrosto in tavola e fa le lasagne a mano si conferma la scelta giusta, rispetto alle ragazzine che stavano proprio bene in bikini, e ora non sanno come sfangare l’artrite.

Si può tradire, questa moglie bruttina, con qualche stangona americana in vacanza, ma nei momenti seri – la malinconia, la fame, l’arrivo dei figli, la fine di un amore importante –  si torna da lei. Così per la Toscana, terra di domande e nessuna risposta. Il dramma è volerla trasformare in qualcosaltro: una donna raffinata, che si veste bene, che parla le lingue. Questa è una creatura antica, che nemmeno si depila, e ritiene il massimo dell’ospitalità il non mandare affanculo i suoi avventori quando varcano la soglia di casa. Di certo non si spreca in sorrisi torinesi. Sicuramente non sa dove mettere le posate e cosa farne dei vini francesi. Non cambia mai, questo è vero, e ti dà l’impressione che nemmeno tu sia cambiato.

Gli amici milanesi, dunque, arrivano carichi di pornobucolicheismo, in attesa di tramonti rossi in cui violinisti ubriachi camminano sui crinali dei colli, Bocelli canta le canzoni napoletane dietro le siepi e la rugiada sta sulle viti twentyfourseven; si aspettano i manicaretti, ma al ristorante sotto casa (affittata ad un prezzo esorbitante) hanno solo pane secco non salato con sopra sugo di crostini pure un pò rancido, zuppa di avanzi e carne dura. Al cliente “straniero”, poi, viene riservato il fondo delle bottiglie di vino, così che possa decidere di non tornare mai più – il toscano pensa: non ho bisogno di te, ma so che tornerai. Oppure: ma dove sono finiti gli americani.

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Vedrai che ce la fai.

Juanita de Paola

Quando Mark arrivò in Piazza Santo Spirito aveva la faccia spiritata di chi non mangia da giorni e i muscoli di chi ha appena attraverato l’Europa in bicicletta – e infatti. Seduto sulle scale della chiesa più bella di Firenze aveva i segni del sudore su tutta la maglietta, la borraccia aperta e gli occhi azzurri fuori dalle orbite. Era in viaggio pagato dall’università di non ricordo cosa, era uno scienziato della fissione nucleare e aveva ventisei anni, ma questo lo scoprii a breve, dopo averlo invitato ad abitare a casa mia, nostra, in Via Maggio a Firenze, a tempo indeterminato.

Era vegetariano, e ascoltava musica ska che venne tollerata per soli due giorni, poi buttai via il suo dischino facendo finta di essere alticcia. Era una presenza piacevole in casa, mangiava pochissimo ed era innamorato di Firenze e della fisica. Ad una a una mi rispiegò tutti i teoremi che si leggono nelle definizioni delle parole incrociate, compreso quello della relatività, ed era talmente bravo e buffo che quasi riuscivamo a capirne il senso generale. Si perdeva con me fino alle sei del mattino, spiegandomi il paradosso con cui certe particelle morivano prima di essere nate, o il contrario, oppure a disegnarmi con le braccia le forze.

Aveva un grande senso dell’umorismo e dell’equilibrio, sapeva portare la bicicletta su una ruota sola e saltava come un pidocchio. Ci era immensamente grato, perchè lo tenevamo lì, gli facevamo da mangiare; cucinava pure lui, molto meglio di noi. Ho sempre pensato che se avessi avuto un grammo di cervello lo avrei messo incinto e lo avrei sposato: aveva il sole nel cuore, e nessuna paura. Ma non era il tempo, non era la vita giusta, e ci siamo risentiti dopo qualche anno che era diventato insegnante di judo in Korea e stava per divorziare dalla sua prima moglie; non ci siamo più sentiti da allora, anche se credo che prima o poi sia tornato in Irlanda da suo padre.

Aveva un detto, Mark, che era un inno a resistere, go on ya will. Lo ricordo ancora. Partì e non ci demmo nemmeno un bacino, in compenso io decisi di lasciare la facoltà di matematica di cui decisi, dopo avere incontrato Mark, non ero degna. Ho ancora la sua maglietta verde, che gli ho levato dal sacco quando è ripartito. Ha ancora la mia agendina con le nostre foto, fatte con la kodak, che mi ha fregato dal salotto.

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Trombino, io vorrei che tu e Don Amerigo e io …

Juanita de Paola

La pizza, la vuole fatta con una palla o con due, insomma?”: aldilà del significato apparente, la domanda è pertinente se una (io) prima ha chiesto una pizza alta, e se la palla è di pasta di pizza – non sopporto quella toscana, fine, avara, preferisco la napoletana. Nella taverna di Trombino, figlio di Trombino, mi servono in pochi minuti; Don Amerigo reduce dalle fatiche domenicali si siede accanto a noi, assieme a Russell, l’Inglese e Donna Cecilia, che emana acuti.

Trombino, che poi si chiama Domenico, è proprietario di un luogo fisico eppure dello spirito, suddiviso in tre sale secondo lo schema dantesco: il sotto, l’inferno, cui hanno accesso i locali e le persone ganze; poi c’è la stanzina del purgatorio, piano mezzanino, lontano dal forno a legna, in cui stanno quelli hanno prenotato tardi o, orrore, non hanno chiamato proprio; all’ultimo piano, risiede l’altissimo ovvero l’alimentari, dove si può anche bere un caffè. Il piccolo spaccio, aperto tutti i giorni, ha pochissime cose ma non c’è verso di entrare e di chiedere qualcosa che non c’è.  Da pochi anni abbiamo anche la posta, ma covo il dubbio che ci fosse da sempre e io abbia cominciato a notarla da quando ho smesso di bere un litro di vino rosso al giorno. (Ora bevo due litri di Unicum).

C’è da dire che nei posti come Vellano è inutile fare finta: o c’hai il fisico, o ti pigliano tutti per il culo, nel senso che la ganzaggine beffarda qui non fa presa, anzi. Rispettato è chi sa fare qualcosa – i mestieri di una volta, con qualche eccezione per quelli che sanno “fare arrivare internet” o coordinare gli stranieri con i fornitori locali. Ben accetto può considerarsi anche chi se la cava alla prima visita al circolo ARCI senza mettersi a piangere alla vista di Publio Biagini, prolifico scrittore e storico residente che è alto circa sei metri e ha la barba, oltre a sopracciglia incurvate autoritarie. Autoritarissime.

All’alimentari di Vinicio si trovano scarpe col tacco e pane fatto a legna, vestitini e la Serena, una creatura che naviga leggera le acqua londinesi come l’appennino tosco emiliano. Abbiamo anche il dentista, il mercoledì, e la parrucchiera, tutti i giorni fuorchè dal 12 al 14 di Aprile perchè c’ha un corso di aggiornamento. Sta per aprire una nuova locanda ristorante, con pizzeria al forno, internet wi-fi e ristorante toscano. E’ tutto rosso, rosa salmone e piccino, fa venire un attacco di felicità compulsiva solo a entrarci dentro –  un pò come Megan Fox.

Per le feste cattoliche comandate ci sono le processioni per il paese che partono dalla chiesa, Don Amerigo in testa e Trombino come sventolatore di incenso. Io le seguo sempre perchè secondo me, se Dio esiste, c’ha un occhio di riguardo per la gente di Vellano e soprattutto per la congrega parrocchiale, che sembra uscita da un libro di De Amicis. Davanti al sagrato, la prima settimana di Agosto, ci fanno la festa dei dolci; tutto il resto dell’estate i ragazzini ci fanno delle pomiciate tremende.

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Salvate il soldato Ryan da sua madre.

Juanita de Paola

La giovane moglie del grande Artista arriva circondata da vestiti grigi e pochi chili di carne. Ha al seguito un bambino splendido, che non saluta. Il piccolo mordicchia una copertina, e se non avesse dieci anni ci sarebbe da pensare che va tutto bene cosi’. Inizia una settimana in cui l’ospitante, la sottoscritta, e’ infinitamente piu’ povera degli ospitati; ma dotata di classe e generosita’, questo si’, di categoria superiore.

Il grande artista presenta tutte le compulsioni gia’ riscontrate in passato: fuma di nascosto, beve di nascosto, non interviene nelle discussioni a meno che non si parli di lui, non interagisce con il (suo) bambino. Il piccolo ha frequenti disturbi di stomaco, mangia solo riso in bianco e non si siede sull’erba. La mamma gli porge un astuccio colorato ogni due minuti, lo ossessiona con un tono mellifluo e cantalenante: vuoi fare questo, vuoi fare quest’altro, ma perche’ stai cosi’ male, ma vuoi mangiare almeno un pochino, credi che domani starai meglio.

Viene da prenderla a botte, letteralmente, e liberare il pargolo da tanta sofferenza. Ma questo lavoro, quello di smembrare le famiglie per ricomporne la salute, provocando danni senza limite e’ un lavoro che fanno gli assistenti sociali, non io. Il bambino si esprime con piccoli gesti del mento: ora annuisce, ora nega. E’ di una bellezza straordinaria, non ha niente di suo padre, il grande Artista.

La mia piccina, due anni e mezzo, si avvicina al bambino e gli chiede a gesti una matitina. Arriva la mamma e gliela nega, poi si scusa con me, e mi dice scusa sai, ma se non ritrova tutti i colori diventa matto. Lui? Il Grande Artista assiste alla scena muto, non reagisce. E’ a sua volta figlio di un Grandissimo Artista. Anche lui e’ stato, quindi, piagato dalla vita.

La gente va a Haiti a fare del bene, ma se ci fosse del buon senso si farebbero adozioni a distanza per i figli delle persone famose: non c’e n’e’ uno che ne venga fuori sano di mente.

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Pasqua criogenica.

 

Tommy Sturlini e Juanita de Paola

Il critico d’Arte che guardava la rassegna di video installazioni aveva il fiato tipico che contraddistingue le persone che digeriscono male; d’altronde il suo borsello marsupio raccontava una storia. Con un riportino modesto e gli occhi a cinese aveva la faccia unta di chi si e’ trovato per sbaglio al posto giusto, nel momento giusto. Camminava con il potere che gli era stato conferito, di riuscire a dire questo e’ bello, questo e’ brutto.

L’artista che aveva fatto pipi’ davanti a qualche vecchina per fare scandalo si era dimenticato che qui, a Vellano, per fare un polverone basta ordinare la cernia o dire di votare Berlusconi: avrebbe potuto raggiungere risultati assai piu’ importanti senza tirarselo fuori. Mi aveva regalato una cartolina con lui nudo con delle donne nude. L’artista aspettava il commento del commentatore, che fu spietato e poi benevolo. Il giudizio si basava infatti sulle facce degli astanti, e quindi era variabile in maniera direttamente proporzionale al gradimento del popolo minuto (inclusa la sottoscritta).

Il critico si fermava poi a prendere una birra e la beveva alzando il mignolo, una di quelle colpe che non mi stimolano perdono per nulla per nulla. Seduto con una farda bionda di Prato che se non stava attenta a tenere le gambe chiuse arrivava l’anticlone delle Azzorre, sorrideva sornione, come uno Sgarbi di montagna, e si segnava su un taccuino ora un “bene” ora un “male”. L’itinerario si fermava alla base di Vellano, vicino al negozietto del “pane & cose vitali” , passando per la nostra casa, qui chiamata “La Villa di Rossi”, perche’ apparteneva ad un gioielliere matto sfasciato (forse era la moglie, forse era lui, forse tutti e due) che si chiamava, appunto, Rossi.

C’e’ una gioia fantozziana nell’essere in vacanza in montagna: l’entusiasmo che deriva dal lavarsi i denti a meno venti gradi, l’emicrania causata dal camino bruciante un quintale di legna all’ora eppure ancor tiepido, le brioches che dopo dieci minuti hanno la consistenza del nucleo di Urano, le ascelle pezzate perche’ fare la doccia e’ impossibile se uno prima non ha bevuto due litri di scotch e pericoloso dopo averlo fatto, i sogni d’oro sotto la coperta elettrica con il cursore posizionato su Modo Cortocircuito sono quanto di meglio la vita mi possa offrire.

Il percorso che va dal bidet alla doccia e’ facile come l’Eroica per chi non e’ mai andato in bicicletta; gli asciugamani sono coperti da un sottile strato di brina, la temperatura del water la notte ha un effetto criogenico sul sedere, che si risvegliera’ fra cento anni. Saluto il ragno Maurizio e mi dirigo verso la cucina, sperando che un’auotocombustione mi bruci viva, per sentire almeno un po’ di caldo prima di morire.

Questa casa e’ a tema: Portofino & Positano. Essendo a venti minuti dalle piste dell’Abetone non abbiamo resistito, e non abbiamo rimosso ne’ il trittico incastonato nel muro sulla Piazzetta, ne’ le lampade della Madonna Fosforescente con i finti zampilli di acqua, ne’ le conchiglie finte appese al muro del giardino pensile (con il discobolo in miniatura, piazzato davanti ad una luce che a notte ne proietta l’ombra sul Borgo premedievale, cosi’, a presa di giro).  Quando il critico passo’, vedendo il nostro amatissimo discobolo, disse ad alta voce “ma che cafoni, ma guarda te, lo vedi questi montanini, persino il discobolo hanno messo… che vergogna, che orrore”.

Fu allora che sentii affiorare il mio spirito livornese e, con tutta la grazia possibile, mi affacciai dal balconcino, e sussurrai oh Benito Oliva di Fucecchio , ma ti levi da’coglioni, provocando imbarazzo generale e un accenno di tumulto. Vinse la gara quell’anno la coppia di Mantova, che parlava le lingue mentre si avvolgeva nel cellophane.

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La fede e le beghine.

Juanita de Paola

Quando ad Atene mi si presentarono tre ragazzini brufolosi alla porta verso le tre di notte capii di avere cambiato casta: non ero più la sfigata che dormiva in gita alle nove e trenta di sera ed era fresca a colazione. No. Ero diventata una di loro, che doveva indossare gli occhiali da sole il giorno dopo. Dissi l’Angelo di Dio, la mia preghiera preferita, e pensai ai miei genitori, scusandomi mentalmente in anticipo del sesso selvaggio che quella notte, finalmente, avrei compiuto. Stavo pensando a come stordirmi per raggiungere l’obiettivo quando uno di loro urlò: Chiara! Chiara!

Chiara era una delle mie compagne di stanza. Chiara era la più bellina della scuola e garbava anche ai professori. Buona come il pane e simpatica come poche rappresentava uno di quei rarissimi esemplari di strabonazza che sta simpatica anche alle ragazze, perchè era una teppa. Più di tutto, Chiara aveva capelli biondi e lisci fino al sedere, spettacoloso, vitino di vespa e una quinta abbondante. Si vestiva alla moda, con i jeans e le scarpe giuste, e aveva dei gioielli bellissimi. Non so per quale mistero gaudioso io ero riuscita a stare in stanza sia con lei che con la Lisa, altro pezzo da novanta che gli amici di nascosto chiamavano Natassia Kinski. Grande.

I brufolosi mi avevano svegliato per scoprire dove era Chiara, che era alla discoteca Goà con un moro che sdraiava, e niente altro. Mi rivestii con i pantaloni color cachi di una taglia inferiore alla mia e il maglione bianco di cotone con il coniglio rosso cucito sopra. Misi il fondotinta di due nuances più chiaro della mia pelle e non trovai il mascara: Nosferatu va a ballare, peraltro con i capelli crespi e unti. Arrivammo al Goà dove Chiara stava superbamente ignorando il moro e accettando di buon grado la corte di altri due o trecento ragazzi. Era circondata da bicchierini pieni – non beveva, non beve – che le erano stati offerti dagli astanti ma anche dai baristi.

Indicai Chiara ai brufolosi come Giuda indicò Cristo, stessa leggerezza, e mi rincamminai verso l’hotel, un condominio alto un milione di piani, con camerette innocue, da sola. Nessun rapinatore mi attaccò, nessun violentatore cercò di aprirmi la porta e buttarmi dietro un ascensore dismesso, nemmeno un brufoloso si offrì di scortarmi con secondi fini: niente. Ero la vergine illibata che l’indomani, alle otto e venti, sarebbe stata giù alle colazioni con la faccia fresca come una rosa. Sentii rientrare Chiara mentre ero al gabinetto a cercare di cancellarmi con il bianchetto, la salutai e mi misi a sedere sul letto mentre lei girellava nuda come un baco, riempiendo la stanza di gioia, vita, energia.

Giù al tavolino mi riunii a quelle come me, che stavano smalignando delle mie amiche bionde. Io ero solidale ad entrambi gli schieramenti, ero il famoso cesso bipartisan. Mentre parlavano infervorate di come era una cosa terribile, che puttane, diciamolo al professore, mi ribellai con veemenza, dissi, ma cosa ve ne frega. Mi chiesero perchè prendevo così a cuore la questione, dissi che erano le mie amiche, che bisogno c’era. “E poi te non l’hai mica fatto ancora, no?”. “No”, dissi, con l’entusiasmo di Moby Dick davanti ad Achab. “E allora sei a posto”.

La fede è un fuoco che ti brucia, specialmente quando la cerchi e non la trovi, oppure quando la scovi per un pò e poi sparisce di nuovo. La mia scivola meglio sulle canzoni di Nick Drake che sulle omelie di qualche squinternato frate coperto di forfora, ma è una mia debolezza, non è che ne vado fiera. Mi serve di sentirmi vicino a un nido di uccellini quando prego, e in genere lo faccio per ringraziare più che per chiedere; mi aiuta stare in una chiesetta senza affreschi, se possibile coperta di ragnatele, così mi posso sentire a mio agio.

Della fede mi fanno paura le cose legate alla terra, non quelle legate alla morte, e fra quelle che temo i fedeli rappresentano lo spigolo più acuto, il nucleo più pesante: mi lascia sempre secca la capacità con cui si rigirano attorno le cose, con cui il fatto di non essere indotti in tentazione rappresenti per loro un viatico per la santità. Palle. Palle umane.

Ripenso a quell’episodio della Grecia spesso, quando il mio curriculum sembra in regola per essere una brava donna, quando qualcuno mi si complimenta o mi guarda facendomi l’occhietto, come a dire, noi che resistiamo nella via retta eh. E’ vero, in Grecia non consumai, ma solo perchè nessuno mi voleva: è santità quella? E’ essere una brava persona desiderare di vincere al superenalotto e nel frattempo vivere alla meno? E così tante persone in cui mi imbatto, che passano da un mercatino della carità a una cena benefica, che hanno le carte in regola, che lavorano tanto, che sono carine a vedersi. Ma se le guardi bene, fanno schifo.

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Dalla parte del lurido.

Juanita de Paola con grande anello di serpente

Ricordo bene Bubi, il gigante del gelato che vi si faceva dentro le pugnette. Era la sua rivoluzione comunista contro i riccastri del Porticciolo, la sua vendetta personale. Gongolava quando le signore con il pareo trasparente e le zizze ritte nonostante i sessantanni entravano dentro il suo negozietto colorato e cominciavano a fare hmmmmmm. Rideva, e ridevamo pure noi che sapevamo. Noi erano i bambini, i locali, quelli che lavoravano al Porticciolo o ci passavano le vacanze senza deturpare l’estetica dell’universo con rossetti arancioni o liftings allacciati dietro l’osso sacro.

Bubi era immenso, obeso, un vero lurido. Lasciava le brioches a respirare la notte nel retrobottega infestato dai topi, e giuro che l’odore di buono che veniva da quella bottega, sozza come i sogni dei vecchi, non l’ho mai più annusato. Noi bambini ci si nascondeva nell’anfratto delle scale che precedeva il laboratorio, ovvero il luogo dove i croissants surgelati sublimavano e si rendevano pronti per il fornetto. Ci metteva anche il burro col pennello, non gliel’abbiamo mai visto sciacquare per altro. Poi ci spruzzava qualcosa sopra, non si capiva, ed il mattino dopo  la gente correva.

Assumeva ragazze strane, molto curvacee, molto scollate, cui toccava regolarmente il culo. Rideva sempre, questo sì, e a noi piccoli regalava cialde, palette, di tutto. Il gelato non ce lo mangiavamo – e ci credo – anche se lui aveva il gusto Puffo, che pure attraeva i bambini irresistibilmente. Noi si mangiavano solo i gelati confezionati, in particolare io ero un’amante del cornetto all’amarena e del calippo all’arancio, mentre mia sorella non si muoveva dalla coppa mista. Nonno voleva la cassata, non credo che la facciano più – anche perchè oggi, uomini che mangiano i canditi non esistono. Perchè nella mia mente la cassata sia un dolce da maschio, non saprei dirlo.

Di rientro dal mare, con la pelle fresca dei dodici anni e tirata dal sole, con il profumo della doccia appena fatta, i capelli bagnati e la leggerezza assoluta, perfetta, si camminava per quasi un chilometro per tornare a casa, passando davanti alla bottega di Bubi e inspirando come se facesse bene. Il sole si sbatteva negli occhi con la grazia dell’abbellimento, si sentivano le barche fare tin, tin, tin, ormeggiate per benino. Io mi concentravo sui corpi morti, mi faceva schifo l’idea di una corda puzzolente e sfilacciata, oibò, e non capisco ancora oggi come faccia a non esistere un materiale diverso, meno marcescibile di quello. Pensavo a non cascare dal molo, ci facevo gli incubi. L’odore di pasta, nel senso di brioche, era come un corrinaso da seguire in silenzio.

Erano gli anni ottanta, due gemelle molto famose ricevevano in barca, e gli altri più piccini (me inclusa) le stavano a spiare. Ricevevano due ragazzi alla volta, ma poi avevano anche i fidanzati da un’altra parte. I più piccoli erano rapiti, era una cosa magica: non si capiva bene cosa facessero lì dentro, ogni tanto usciva qualcuno e rideva forte, poi andavano via, poi loro uscivano bellissime – ma prima si facevano i capelli. Una in particolare sembrava un angelo, e si piazzava un bigodino rosa in testa grande come una cuccia per cavie. Guardavo a questo mondo sudicio – del gelataio, delle gemelle, delle brioches coi topi, delle cose che non vanno fatte – con grande ammirazione: ero pavida, sentivo che io non ce l’avrei mai fatta, non sarei stata una dei loro. Purtroppo.

Per questo quando arrivai in Africa non furono i bambini che stavano male a colpirmi (anche perchè a parte due, stavano tutti molto bene), nè la presunta povertà che noi gli affibbiamo, quanto il ritorno alla natura delle cose. Ad esempio. La cerimonia di ingresso al villaggio con le intestina della capra spalmata in faccia. Oppure. Le mangiate di riso con le mani. Oppure. Le galline nel letto. Dicevo: eppure io sento che questo è giusto, questo è sano. Così come vedere ammazzare un animale è stato orrendo ma naturale, altrettanto avere visto la gente in treno con l’amuchina gel in treno, ieri, mi ha messo un’angoscia infinita. Io sto dalla parte dei luridi, anche perchè si ammalano meno.

Bibliografia: The Tourist

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C’è qualcosa di nuovo.

Juanita de Paola

Il mio arrivo a Madrid, la prima volta, fu straordinario. Avevo in tasca un pò di lire, il passaporto, e l’indirizzo per andare a trovare questo Roy, un canadese trasferitosi in Spagna che avevo conosciuto su ICQ, quando il mio account era “erode”. Aveva messo nel suo profilo una foto adorabile di lui quando aveva diciassette anni, tant’è vero che un pò mi ero peritata, io ne avevo dieci in più. Ci eravamo incontrati sotto il suo appartamento dove mi avrebbe ospitata, mi aveva fatto parlare con i suoi coinquilini e compagne di casa, quindi ero tranquilla. O quasi.

Dal suo terrazzino, quello che corrispondeva al numero civico che mi ero scritta sull’agendina rossa, c’era affacciato un uomo un pò storto, sulla trentacinquina, per cui chiesi in inglese se Roy abitava là: , disse. Indovinato. Con la morte nel cuore aprii il portone e inziai a salire le scale, per arrivare in questa meraviglia di open loft, eppure pieno di pianoforti, chitarre, bianco, aria di Spagna, felicità. Mi accolse quella che si chiama faccia da coglione, gli strinsi la mano e mi disse sei diversa da come credevo. Era tanto il suo disappunto che mi lasciò perdere immediatamente.

Il ragazzo era chiaramente frocio, e questo non perchè gli si leggeva in faccia il disprezzo per quel fiorellino di me stessa, ma perchè si faceva fotografare solo dopo le sei del pomeriggio, era vegetariano e portava i jeans a pinocchietto tutti su per il sedere. La notizia mi fu confermata poi dal ragazzo che suonava il piano, Damian, cileno con gli occhi di fuoco che aveva passato un pomeriggio a farmi un ritratto con i miei sandali di pitone rosa, (molto) alti, con il tacco a stiletto. Avevo addosso un vestitino bianco di ciniglia e molta giovinezza.

Il giovane Roy mi aveva preparato un materasso in una stanza ricavata con le tende bianche, che si agitavano sempre per causa del venticello madrileno. Le ragazze dell’appartamento cucinavano così bene che io mi siedevo al tavolo punto e basta. La città era calda, molto distante da me, che amo Barcellona. Il giovane Damian non mi toccò nemmeno, ma mi disse che suonava il piano come se fossi io, e a me all’epoca sembrò un complimento incredibile. Si fecero le sei ogni mattina, a ridere del povero maramaldo canadese e a bere litri, che dico, quintali di vino bianco fresco. Tutto finì lì, io ero fidanzata, lui pure. Con una tedesca.

Passano gli anni, una sera sono a Montecatini Alto a mangiare la focaccia, ricevo una chiamata, ma senti chi c’è Damian. Che ha aperto un giro di night clubs, è in Colombia. Che si era dimenticato di dirmi “addio” come si deve – e lo fa. Dicendomi che quel vestitino bianco con quelle scarpine rosa, lui non aveva mai visto nulla di così bello; in bocca al lupo. In bocca al lupo allora.