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Senza pretese

La stagione degli affetti, dei regali appuntati di nascosto nelle note del cellulare e poi consegnati con un senso di vero trionfo, ti ricordi quando hai detto che ti si era bucata la maglia verde, eccone una nuova uguale, che bella la tua faccia sorpresa, dell’albero che ho lasciato nel corridoio, dei capelli tirati in code sempre più unte, della cioccolata raschiata via dalla torta con zampe di tasso, ma anche delle diete rigorosissime, cui mi sottopongo per purificarmi l’animo da ogni desiderio non ortodosso.

Il rito di passaggio fra due anni, quello che finisce e quello che arriva con la sua valigia di speranze sempre meno profumate, così catartico e così deludente, perché di feste ganze ne capita una ogni trent’anni, comunque pieno di significati antichi come un genitore che ti sgrida, impattanti, che tu lo voglia o no. Il tempo dilatato, come un gas senza contenitore, in cui affaticarsi per arrivare in fondo al respiro senza lasciare andare la mandibola. Sorridi. Il momento delle domande ficcanti a sorpresa, cosa hai fatto quest’anno, cosa farai il prossimo, non ti manca qualcuno accanto?

Il tempo della mancanza viscerale, perché a cinquant’anni la vita ti ha già separato da alcuni affetti straordinari. Mi mancano quel like su Facebook che appariva solo sulle boiate più poderose, come succede fra veri amici, i fantasmi di una foto che è un relitto fantastico, qualcuno da mandare di nuovo in cucina a prendermi il fruttino gelato: sono come buchi profondi nell’anima riempiti con punture di resina a tenuta stagna. Per me questo è anche il tempo del compleanno, in cui sentire la piena frequenza del suono muto ma spacca-timpano dell’attenzione, una piccola morte ad ogni augurio, cui vorrei rispondere mi sento sola quando c’è festa attorno, lasciami stare.

Allora Netflix, Prime, allora correre, allora un altro centinaio di pagine digerite – quante nozioni si possono accumulare mai? Uno, due, dieci oroscopi, a caccia di un segnale, un pianeta che si posizioni come Dio comanda per dirmi che passerà tutto, come sempre, e che a breve sarò sommersa di lavoro stagionale, l’antidoto potente, la routine sacra per chi, come me, litiga spesso con sé stesso. Forse faccio quella famosa maratona, o forse mi iscrivo a Pilates, che toccarmi i piedi mi è più difficile che correre quattro ore. Faccio un selfie.

Il senso di essere stata sconfitta in una battaglia mai iniziata, certi giorni, arriva per rimanere. Mi metto in silenzio e aspetto che gli spiriti della tristezza abbiano finito la loro parata, che è più sguaiata nei momenti in cui si suppone ci siano gioia e secchiate di affetto gratuito. Quando il carnevale nero si è allontanato, rimane il vuoto, nel quale sono a mio agio da sempre. Apro Quora. Poi conto le mie benedizioni, un esercizio di umiltà nei confronti del dolore, e cerco di pareggiare i conti: nel male ho trovato sempre il bene, nel bene sono rimasta spesso sconcertata della mia fortuna, che accolgo con sospetto. Pensa a questo, mi dico, pensa a quest’altro, quella roba lì si che è pesante, altro che questo senso di pioggia che non bagna, brutta ingrata che non sei altro.

Apro Facebook. Seguo il mio sentiero conosciuto, i commenti, le foto, gli amici, i profili di chi un tempo era nel mio raggio esistenziale e poi è uscito come una tangente, le foto di chi mi incuriosisce ma non ha mai colto una verdura nel mio campo. Leggo gli altri: che fanno loro quando il cane arrabbiato gli morde la mano? Non si capisce bene, ma qualcuno scrive la cosa giusta al momento opportuno, ho la presunzione di intenderne i significati dietro le parole, e allora ricomincio a respirare. Che scema che è questa, penso qualche volta, ma subito l’arbitro che mi vive dentro corre ad ammonirmi, a fischiarmi in faccia, a ricordarmi che le (mie) foto più belle le ho scattate negli anni in cui sono stata disperata.

Come ho fatto? Penso. Forse qualche credito lo devo aggiungere alla colonna dei più, quella in cui tengo il mio punteggio esistenziale. Posso essere soddisfatta, certo; non ne scrivo per rispetto a chi rimane, ma mi sono tuffata in una palude che era una fogna e, come in Shawshank Redemption, ne sono uscita in un’isola felice. Ci ho piantato le palme, ci ho dipinto la barca, ci ho costruito la casa, ci ho allevato cuccioli, senza concedermi molto oltre alla disciplina di titanio di cui mi sono armata.

Questa avventura di vivere non è cosa per i deboli di cuore, ancora meno per chi capta le emozioni altrui come un baracchino, ma vengono in aiuto le parole degli altri, che combattono guerre anonime, talvolta dolorosissime, fra un isee ed un caro da assistere, fra rinunce obbligate e cammini da intraprendere nonostante non ci sia nemmeno un metro di riparo. Ci riempiono di vita le persone attorno a noi, che ci rimangono accanto nonostante il mostriciattolo che ci abita dentro, che ci scusano e accolgono a modo loro, anche se questo non sempre ci è congeniale, che si inventano cose da fare assieme pur di lasciare una traccia in questa nostra piccola galassia magnifica quanto entropica.

Apro TikTok. È da non molto che ho scoperto che non ho nulla di esorbitante da dire, non ho contenuti interessanti da condividere, o in genere concetti che non siano una foto della mia faccia, o una canzone col mio amato gruppo. La mia vita è un libro senza indice, o una storia senza eroi, come molte, e alla fine quello che mi rimette al mondo è una risata o una passeggiata nel bosco. Non ho storie mirabolanti, o gambe lunghe da bikini, ho me e bisogna che me lo faccia bastare nei giorni come questi, in cui mi casca l’universo in testa e, miracolosamente, non mi schiaccia come una piattola. Il pensiero, stasera, va a quelli che capitano qui e che durante le feste si fanno mordere dal cane nero; che stanno affrontando mari ingestibili ma silenziosi, per aspettare assieme che la parata si allontani e il tempo ci renda la calma di una giornata normale, senza pretese.

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La vertigine

Tornando dal mercato con il salmone e il cartoccio di tartara nello zaino rido da sola: mi mancano i croccantini e ci siamo, sono un siamese. Supero il cane cieco che punta la strada per abbaiare a chi passa, ma tanto non vede nemmeno le ombre e forse è il mio animale preferito di sempre. La famiglia di hoarders tiene il neon di cucina sempre acceso, con i portatili sintonizzati su canali diversi, un apprezzabile effetto di vivacità metropolitana accompagnato dall’odore che sfiata dalle finestre, un’essenza rancida e calda di lasagna dimenticata in forno. Stanno bene, anche se ogni tanto ne rianimano uno: hanno diametri stupefacenti.

Prendo la via che va alla fabbrica abbandonata, dove in ogni appartamento vivono troppe persone di cui non si sente mai un rumore: chi ha paura vive in punta di piedi, circondato da segnalatori anonimi, razzisti, beghine. L’assenza della chiesa in strada è assordante, la mancanza di umanità un batterio che ci ammazzerà tutti. Qui non c’è nessuna integrazione, solo qualche sorriso a sottolineare che sappiamo essere amabili, che ci dispiace, che davvero non capiamo cosa sia successo.

Passo davanti alla casa dei drogati che ululano e fanno a botte, e quando arriva la polizia continuano a sparare boiate, nonostante l’ora, l’eroina, il freddo abissale. Non li condanno, anche io senza routine sono materiale da bidone, ma, a parte il subwoofer, tengo in considerazione le orecchie dei vicini. Due li conoscevo da ragazza: una ormai è gonfia come un cadavere di orca, l’altro è un povero ebete, qualche volta mi chiede di prendere un caffè e mi dispiace di essere diventata così intollerante. D’altro canto, devo difendermi dalla calamita per casi umani che sta qui, dentro il mio cuore di bambina grassa. Ti voglio presentare uno, mi dicono, e io già lo vedo sotto casa, con la foto del cane a brandelli e il braccialetto con le nostre iniziali, che sniffa i miei vestiti lasciati alla Caritas. Un ottimismo che sta dando i suoi frutti: un altro anno e posso dare un contributo cruciale alla dottrina talebana dell’astensione.

Cammino per la via dei panni odorosi, con la faccia verso l’altro e le narici spalancate, attraverso la piazzetta col bar trucido e faccio finta di non sentire i commenti di quella milionata di euro di pensioni che ci si accampano davanti. Tanto, fra qualche anno, nessuno ti dirà più niente – mi dicono le amiche – vedrai te, i commenti, lo sguardo abbassato e la tensione scompaiono, si diventa trasparenti. Io a questa storia mortifera non c’ho mai creduto e rimango team-Picasso, per una vita piena di strafalcioni o amori non vissuti con petty-points sulla lavagna, con ex che si mettono con donne più brutte e io lo vengo a sapere. Tifo per la speranza senza appiglio eppure forte come l’energia dei bambini piccoli quando hai sonno, insomma, mi piace pensare alla vita, persino la mia, come ad un’epica.

La nostra anima diventa lentamente la sommatoria delle nostre paure, e una delle mie è proprio quella di avere vissuto una sola dimensione, senza mai entrare in contatto con me distanti e possibili. Forse per questo mi piace tanto guardare dentro le case, per immaginare come sarebbe stato se, o scrollare i video delle persone di ogni forma, età e colore che ballano: mi piace la gioia incontenuta, la vertigine di quando per qualche attimo,  e facendo gli scongiuri, va tutto così bene che la gola si strozza.

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Le buone notizie che non ti ho dato

Ho dormito in ragnaia, l’annesso della casa di Vellano che fa rima col panorama, popolato da insetti ma soprattutto aracnidi di ogni forma e grandezza. Dormo spesso qui ultimamente; la verità è che pur di stare sola passerei la notte in una valigia, o dentro il frigo, o sopra la legna in garage. I neon color limone acido e violetto sono rimasti accesi fino a che il rumore delle bestie rare che popolano (anche) il giardino è sparito, oppure sono crollata e amen.

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Più a lungo possibile

Io adoro l’inverno per la sua atmosfera sospesa. È la stagione che custodisce tutti i corpi nei maglioni di lana, i fiori e i frutti nella terra, i paesaggi nella nebbia. Ci permette di stare, senza nessuna frenesia di azione. In inverno è lecito non avere niente a cui aspirare e non accorgersene nemmeno. D’inverno il mio mondo finisce dove il mio sguardo miope mi permette di vedere. Spero che duri più a lungo possibile.

Eva Meshia Bendinelli,  nata e residente a Pistoia da 35 anni, dove fa con passione l’odontoiatra, ma vorrebbe fare la danzatrice orientale. Vive con 4 gatti e 1 fidanzato paziente. Non potrebbe vivere senza poesia, sesso e musica, odia avere scadenze e la tovaglia storta – Suo il post su Facebook, Mercoledì 30 Dicembre 2015 –  Il Ministero delle Dispari Opportunità ospita donne (e uomini che parlano di donne) in gamba, illuminate, buffe, arrabbiate, sulla via del miracolo che è oggi una vita piena vissuta da donna. Qualche volta ospita anche i pensieri personali di Juanita.

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Un amore meno bello

Questo sia l’anno in cui ci amiamo meglio gli ho scritto nel biglietto di Natale, noi che non abbiamo passatempi in comune ma non sappiamo fare nulla da soli, noi che ci siamo incontrati ed era inevitabile, ma non abbiamo ancora preso le misure.

Il nostro amore, così diverso rispetto a quello di alcuni amici o a quello che mi ero immaginata, è  profondo e radicato come una malattia ereditaria che non guarisce, stracciato come un panno per vetri dal benzinaio e forte e vile come il filo da pesca. Guardami, sono io dico spesso, quando abbiamo perso la barca, il timone e anche il mare – e lui mi trapassa, non ricorda, e nemmeno io.

Ci si ritrova per sfinimento, siamo nello stesso esercito, abbiamo fatto noi due imbecilli senza testa una cosa così grossa come un figlio, e ci stiamo ancora riprendendo. Apparecchiamo allo stesso modo, beviamo e mangiamo le solite cose, siamo due pinguini reali che seguono l’istinto e rimangono assieme, con un cervello piccolo così. Pensiamo lo stesso pensiero, poi decidiamo sempre per due strade diverse, poi ci ritroviamo alla sosta, per un bicchiere di vino.

Leggiamo sui giornali che l’intimità è importante, due volte a settimana, io non mi ricordo quando siamo stati assieme l’ultima volta e di queste cose non si parla. Ti vorrei baciare, dico, ti puoi  lavare i denti che hai il fiato di un cane? Dice di si, chiede se mi posso cambiare, sono due settimane che mi metto il solito maglione. Già. Accendi la tivù, vai.

Ti ho comprato le mutande nuove. Ascoltami, sono uscita, ho pensato a te che cammini in stanza così magro, ti ho immaginato da dietro, nero dal collo in su, bianco come una lastra di marmo sotto la camicia e i pantaloni, un samurai da autoabbronzante, ti ho visto con le mutande mezze rotte e mi sono fermata in un posto, te le ho prese nuove, mi sembra un pensiero fantastico, così stai più comodo.

Che cosa è l’amore?

Ti devo parlare, ma non vorrei  tu usassi quel che ti sto per dire contro di me al prossimo litigio. Allora non me lo dire.

Non abbiamo avuto un’epifania ad un certo punto, non abbiamo scoperto qualcosa di talmente grosso che poi tutto è cambiato, non abbiamo mai sotterrato nemmeno un’ora del nostro passato facendo finta che non esistesse, che ci fosse stato un disguido. Non abbiamo un’arma segreta con un colpo in canna, non stiamo mettendo via per la pensione perché tutti e due abbiamo sempre pensato di morire presto, sai com’è.

Non ci siamo sposati, perché io vorrei farlo di nascosto nel bosco e lui scendere da un elicottero, perché io sono tirchia e lui è generoso, e lui ha bisogno di me per mangiare e io ho bisogno di lui per vivere. Io lo chiamo mio marito, lui mi chiama la mia ragazza. È l’idea delle bomboniere, per me, insormontabile. Io non sono trombata per queste cose, non ti offendere, ti supplico.

Preghiamo di nascosto uno dall’altra. Preghiamo uno per l’altra. Sono tutti migliori di noi, pensiamo, e abbiamo sempre ragione. Noi siamo quelli che a cena servono a rinsaldare le altre coppie, che quando vanno a casa parlano di noi e ringraziano il Signore di non essere a questa maniera, poi si abbracciano e fanno il quarto figlio. Siamo i meno affiatati. Siamo due generi, specie, elementi diversi. Siamo ridicoli.

Non corriamo assieme. Non giochiamo a tennis. Siamo fuori sincrono ma ci difendiamo come due pecore circondate da un branco di lupi, controlliamo gli scontrini per vedere che non ci freghino; io gli compro il formaggio verde, lui mi compra il pollo lesso e poi io gli mangio il formaggio verde di nascosto perché non voglio ingrassare.

Io pulisco: la casa, la gente, il casino, tutto. Lui apparecchia la casa per la festa, c’è sempre tempo per un festeggiamento, basta non andare a letto, baby, la vita è così corta, per favore non andare a letto. Non siamo vecchi.

Sono un peso per te dice. Si, enorme. Ma sei veramente un bel ragazzo, sempre così elegante, mi riempi l’occhio, ridi con il fischio e quello mi fa schiantare dal ridere. Mi piaci ragazzo vecchio che non è diventato un uomo, sei come me, una ragazza che non cresce e non invecchia, Peter Pan, solo che io sono più maschia.

Siamo due creature deformi che hanno trovato un lavoro, assieme, al circo.

Ho parlato stanotte? Si, tutta la notte, come sempre. Vorrei tanto dormire. Ma hai dormito, hai russato come una vecchia balorda. Oddio! Mi dispiace, davvero? Tutte le notti. Non solo moderatamente grassa, anche sguaiata: che tragedia.

Che sia un anno pieno di questa roba, e poi molti anni, che ci assistano lassù, che ci facciano invecchiare odiandoci e amandoci, probabilmente bevendo troppo ma molto meno di quel che potremmo se non avessimo figliato, ballando sui tavoli come due idioti appena possibile, ritrovandoci mogi nel taxi nero perché domani sarà un giorno di malditesta e perché abbiamo speso troppo, nell’uber che ci riporta da lei, l’unica ragione che abbiamo trovato.

Come mi sta? Sembro finocchio? Come sempre.

Io come sto? Sembri la Navratilova.

Proteggici, sempre.

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Non succede più nulla

Pensavo all’amore.

Passata la fase in cui ci sono da scoprire cose, persone, aspetti del proprio compagno o compagna, si entra nella dimensione di lotta senza quartiere che è un rapporto di coppia esclusivo (o ritenuto tale da almeno uno dei due). Cosa ci accade, infatti, quando non succede più nulla?

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Amore e la distruzione

“Abbracciali tutti, tutto il giorno, raccattane i panni, lavane lo sputo nel lavandino, benedici le loro tracce terrene e l’odore dei panni sporchi, fallo in silenzio e con gratitudine: potrebbero portarti tutto via” (C.J.H). 

Non hanno uno sviluppo facile quelle relazioni che iniziano come la mia, simile a molte altre; una storia che è stata una scommessa allegra, un rimbalzo da un’altra molto più lunga e all’epoca più verosimile, forse una rivalsa. Prima una grande attrazione, la convinzione che tutto si accomoda per noi giusti. Poi una bruciatura che scarnifica, un rifiuto fisico dell’altro, un ribrezzo come da una sorsata assetata e generosa di latte rancido. Infine la solitudine vera, quella che si vive in mezzo a persone di cui non sappiamo niente, aldilà di quelle poche cose che costituiscono un’unione felice come una infelice.

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Un passato di tisane

Ho iniziato a lavarmi la faccia prima di andare a letto perché fra una settimana ho quarant’anni. Metto anche una crema che leva il rossore dal mezzo delle guance, ma non ci spero più di tanto perché bevo vino e pare che quella sia la causa – dice mia sorella. Metto un unguento alla rosa che profuma come il giardino davanti casa quando ero piccola, vado a letto e sogno la carezza della mamma che sussurra va tutto bene, con quella mano ruvida e corta che è identica alla mia.

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Che ti aspettavi da me?

La piccina non ci fa litigare.

Arriva in camera, anche quando ci massacriamo sotto voce, e dice me l’avevate promesso. Allora io smetto subito, lui continua, io vorrei avere una pistola, lui continua, io dico bestialità che arrivano da luoghi neri, ma sempre con educazione, con la voce bassa. Smettiamo e tutti ci addormentiamo con il torcistomaco. 

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Sulla panca che scotta

Stap. Glup glup glup.

Così il vino ancora stranamente bianco a Ottobre, ma qui fa caldo, fluisce dalla bottiglia nel mio bicchiere a fine giornata – nove, dieci, undici ore di immersione totale nel mio mondo: lavoro come un cane, di solito, per non lasciare molto tempo al vacare. Il nonno mi diceva che siccome era stato svogliato gli era toccato studiare tutta la vita, e io penso di essere di quella specie lì, ma anche per il lavoro.

Il primo bicchiere per lavare via la giornata, il secondo per fare posto ai pensieri che durante il giorno mettiamo nei cassetti delle persone perbene, il terzo non si può anche se si vorrebbe.

Lavoro parecchio, oltre il limite della concentrazione, oltre l’educazione di essere in una famiglia di esseri umani che desiderano parlare, fare confusione, buttare imprevisti nel mezzo: io li odio, gli imprevisti, dai tempi del Monopoli. Parlo pochissimo. Odio le vacanze: mi è rimasta la forca, quella sì, dare buca ad un appuntamento mi dà ancora un piacere così acuto.

Ho le cuffie nuove ad alta fedeltà, così la mattina, dopo avere accompagnato la piccola creatura che è il sole dei miei giorni, posso camminare sul fiume ascoltando le cazoni al volume esagerato con i bassi a palla. Pensare che io i bambini li sopporto poco, ma quella lì, la Cecilia, è tutta un’altra storia.

Ho preparato due liste di canzoni per sfondarmi le orecchie, una si chiama “sul fiume nei giorni di pioggia” e una si chiama “sole”. Perchè io abito su un’isola, e tutto cambia se piove o no.

Chi non sta in Inghilterra pensa che il problema sia la pioggia, ma non è così, anzi: qui, quando piove, si può uscire senza ombrello. E’ un’acquetta educata e fine fine, che manco ti bagna. Non è come quando il trenta di agosto ti piglia la pioggia in Toscana, che ti devi mettere davanti al fon, alla stufa e sotto un calorifero per riprendere colore. No, non è l’acqua, ma la luce: è storta. E’ più bassa. Hai presente quando con il tuo fidanzatino le prime sere ti ritrovi ad ascoltare la musica in camera e tieni accesa solo l’abatjour? Ecco, la stessa cosa, ma tutta desaturata.

Domani c’è un playdate dopo la scuola, cioè la bimba deve andare a casa di qualcuno perchè così dicono a scuola, per socializzare. Io ho individuato la casa dove va e anche una panca lì davanti, dove aspettare – senza destare sospetto – per tutta l’ora.

Forse domani ricomincio a fumare.

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Astinenza e lasagne

Sono stata ad una premiere a vedere il film The Croods, la storia della mia famiglia nella versione che va a finire bene.

Naturalmente ho finito tutti i pacchi di popcorn ricoperti di miele offerti dalla Disney & Co a noi persone importanti che si va agli eventi per fare clamore. Ho terminato il mio, quello della bambina e anche quello dell’Inglese, la mia dolce metà, che mangia e veste solo cose raffinate, di certo non un pacco di questi. Ogni boccone mi ha reso più triste di quello precedente: il mio cervello, così lasco in ogni dipartimento, è invece un contatore automatico di calorie ad altissima precisione e un erogatore di sensi di colpa allo stesso tempo.  

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Forse vuole la maionese

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La dolce Cara mi viene a trovare a sorpresa con il suo bagaglio di problemi irrisolvibili. Certo è strano, ti chiedi ad un certo punto della vita, che ci siano persone – donne – cui va sempre tutto storto, i cui parenti siano atroci profittatori, tagliagole, cattivi dentro nel profondo. Donne incomprese, eppure omnicomprensive e onniscenti, come lei. Guai a passare al vaglio della Cara, non se ne esce vivi: ha giudizi implacabili su chiunque, in particolare sulle povere donne ‘normali’, banali. Cretine. Grasse. Vestite male. Avevo già detto banali? 

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Del coraggio

Il coraggio (cor habeo, da cor, cuore e habere, il verbo avere) è la virtù che non ci fa sbigottire davanti ai pericoli, ci fa affrontare i rischi senza stare tanto a pensare, non ci fa abbattere per dolori fisici o morali e, più in generale, ci fa affrontare a viso aperto la sofferenza, l’incertezza o l’intimidazione. Per quanto mi riguarda il coraggio ha più a che fare con i no che con i si, con l’entrare in una stanza piena di persone senza sentirmi un residuato bellico inesploso, stesso appeal – ma ognuno deve abbattere il suo drago.

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Ovaie, tube, isotopi

Juanita de Paola

Ho sempre considerato la musica da discoteca un segnale chiaro dell’impoverimento di una cultura, nel senso della sua implosione, del suo decadimento: così come al principio Essi danzavano sensualmente attorno al fuoco ritmi complessi e fisicamente difficili da sostenere, così alla fine Essi ciondolavano al battito di una sequenza quattro quarti (unz unz) re-sol-la minore, spostando il baricentro del corpo da un lato all’altro del suo asse, come oranghi dopo una canna.

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Cassis: è Natale

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E ci siamo. Non allo scarto gioioso e feroce dei regalini da parte dei piccini, che mi ricorda il minuetto animale fra iene e carogne, ma alla fine vera della gioventù: la fine dell’attesa con sorpresa, decretata dal sapere con precisione cosa sta sotto l’albero e l’ordine esatto con cui tutto va aperto, al fine di ottenere quel climax disegnato mentalmente. 

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A che ora arriva Natale?

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Non c’è traccia del tempo che è passato, caro Filodemo, nella mia faccia. Si è fermato il giorno che sei partito per Manila e a questo punto non farà danni fino al tuo ritorno – che ho sognato stanotte. Quando ti rivedrò mi cascheranno assieme faccia e collo, diventerò un chou-chou, perchè la natura toglie e la natura dà: tutta quella felicità deve pure avere un contraltare. 

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Alice (and me)

Juanita De Paola

Ci sono due modi di vedere Lucca. Uno è quello del popolo minuto: leggi la guida rossa del Touring, poi fai un confronto medio ponderato fra TripAdvisor e Altissimo Ceto, chiami un amico che c’è già stato di cui ti fidi per confermare talune intuizioni, inoltre scarichi il pdf della cronaca locale degli ultimi due anni per verificare ‘cose’, stampi la mappa del percorso più lungo o panoramico consigliato da Via Michelin e infine parcheggi a miglia dal centro perchè ti hanno spiegato che dentro le mura è impossibile, presuntuoso, cercare un posto macchina – che non comporti comunque una multa da trentordicimila euro.

L’altro modo è conoscere la signora Alice.

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Nella vecchia fattoria

Juanita de Paola

Nei miei piani del futuro prossimo c’è quello di aprire una fattoria, abitazione e scuola, con le galline e se mi piglia il coraggio qualche bel maiale. Una rete wi-fi così sostanziosa da potere alimentare i frigoriferi, certo, e attrezzature informatiche dure, soffici, volatili all’avanguardia. L’importante è che la musica esca con i bassi, amo i bassi che mi rimbalzano sulla pancia – tutto il resto arriva secondo.

Mi dedicherò al marketing ma anche all’orto, non nel senso che tiro su i pomodori ma che li colgo e li affetto e li mangio. Magari posso anche innaffiare una o due volte al mese, ma l’atto pratico ripetitivo mi annoia a morte, quindi è bene che altri si dedichino al verde. Io, piuttosto, arrotolo i cavi.

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Col pareo e l’oro alle caviglie

Juanita de Paola

Bisogna proteggere la vita a costo di rubare le ampolle di acqua santa in chiesa o accollarsi figli di quegli altri. Non abbiamo molto tempo di leggere le manovre economiche una volta che si è aderito, mani e piedi pieni di gesso e poco altro, a questa parete orrida quanto panoramica; non abbiamo nemmeno la resistenza per potere stare fermi o addirittura notare l’altrui feticismo: ci fa allegria, piuttosto, sapere che esiste.

Mamma fa le prove del suo spettacolo teatrale in casa, la ascolto e cerco e i fagiolini da sbucciare per l’Inverno. Il lavabo è immenso, questa è la casa più bella che avremo: fuori ci sono le lucertole e dietro i maiali con le galline. C’è il caco in giardino e perde quei frutti che non mangio, che sembrano palle di moccolo. 

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Problema

Juanita de Paola

La piccina ha trovato la sua vittima privilegiata, un ragazzo che rientra da Londra – dall’inaugurazione del nuovo negozio di Prada. Mezza Pinta sapeva leggere Prada a tre anni, e così pure Cartier e Gucci: deve questo talento al sua daddy, che è un pierre  londinese per cui l’immagine conta e anche la marca. Si è messo con me, l’antimateria dello shopping, l’eretica della moda, il maschio con le puppe, per espiare le colpe di una vita vacua. Mi sono messa con lui per sapere sempre cosa pensa il nemico.

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Ciglia finte

Juanita de Paola

Gli anglosassoni si sono raffinati parecchio. E’ difficile camminare in centro a Londra, ammesso e non concesso che la capitale sia in qualche modo rappresentativa del tutto, e incontrare una ragazza brutta, trascurata. Ci sono le bionde altissime e le more di pelle chiara, le rosse romantiche e le punk magrissime. In ogni caso ciglia finte, passatine, fiocchi, cappotti spaziali, scarpe altissime, piercing sensuali.

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State mangiando la storia di Firenze (by Consuelo)

“1293. Le continue guerre, nelle quali i fiorentini per cotanti anni erano stati occupati, aveano in gran parte tenuto oppressi i semi delle civili discordie, ma poiché i nemici pian piano s’incominciarono a condurre in tal termine,  il popolo carico della preda dei suoi avversari incominciò a volgere in sé stessa quelle armi che soleva usar contro i nemici. Essendo divenuti i suoi cittadini per le molte ricchezze superbi e per l’uso della guerra feroci,e perciò molto pronti al ferro ed al sangue , continuamente sentivansi ferite e morti, senza che la giustizia sopraffatta dalla temerità e potenza dei grandi potesse esercitare il rigore delle leggi contro dei malfattori. Ma la stessa potenza de’grandi agevolmente con scambievoli omicidi adempiva in certo modo l’ufficio della legge, ingegnandosi ogni offeso, e colle ricchezze e co’parentadi e seguaci loro di non lasciare l’offensore senza vendetta. Quel che pareva oltremodo grave a potersi tollerare, erano gli oltraggi e le ingiurie, che i grandi e nobili facevano ogni giorno contro i popolari ed impotenti, soverchiandoli non solo nella persona, ma pure nell’avere”

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Portafogli aperto bocca chiusa

Juanita de Paola

Mi trovo a domandarmi con frequenza preoccupante cosa sara’ di mia figlia. Avessi avuto un quinto di questa furia interrogativa per me stessa sarei ministro, o fotomodella con pedigree di alimentazione vegana alle spalle – all right, magari fotomodella dei piedi.

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Caffè Amore

Juanita de Paola

L’amico con il balconcino privato al teatro ci ha offerto di andare come suoi ospiti e goderci una bella traviata. Lui vive con una micropersona di origini cinesi che gli prepara la colazione, stira le camice,  pulisce il giardino. Una specie di maggiordomo non pagato e con benefici, immagino, anche dopo le nove di sera, che chiama il suo fidanzato. Uno sembra la custodia dell’altro.