Connessi, attivi sulle piattaforme e sui social dove stanno amici e conoscenti, mascherati con nomi atroci sulle piattaforme di incontri, siamo oggi più soli di quei matti che un tempo si rifugiavano sui monti per allontanarsi dall’inquinamento morale del progresso – ma in bella vista e circondati da molti. Per fare contento mio cognato, che anela a reciprocare le mie battutacce durante i pranzi a coppie, e per curiosità, ho scaricato un’applicazione per incontri e, per ben quattro minuti, mi sono immersa dentro il mondo del dialogo erotico contemporaneo.
Al quinto minuto avevo già cancellato il profilo ed eliminato l’applicazione, dopo una scorsa veloce di figure mitologiche con la coda, esseri viventi con duecento denti, donne senza mutande sullo scaleo e uomini con il pacco al mare. Più della vivace bruttezza, persino sana e vitale, delle foto salaci di chi vuole essere ammiccante, che fin da piccina mi fanno l’effetto dei culi rossi dei babbuini, mi ha colpito il mio senso di vuoto, la mia dolorosa incapacità di capire cosa avrei dovuto farci, lì dentro. Una volta, da ragazza, mi sono messa a leggere in un’oliveta in collina e ho desiderato con tutte le forze che quel ragazzo che mi piaceva tanto arrivasse: giuro che dopo mezz’ora quel ragazzo era lì, in moto, ci eravamo incontrati sulle mura. Questa cosa, la coincidenza, il desiderio che è preghiera, la capivo.
Non sono nuova all’argomento alienazione sociale, nel senso che persino nelle feste in spiaggia ero capace di individuare immediatamente la sdraio, la cabina lasciata aperta per sbaglio, il luogo deputato alla mia dormita, che mi avrebbe salvato dall’obbligo di parlare di nulla, con nessuno. Ma lì avevo vent’anni e qui ne ho cinquanta. Comunque. Dopo una serie di gag telefoniche con gli amici ed i soliti commenti sguaiati, mi sono chiesta come e cosa possano fare quelli che oggi hanno i figli abbastanza grandi ma non possono migrare, che non hanno una linea di demarcazione vera fra la domenica ed il lunedì perché hanno la partita iva, che non vanno a Zumba perché il nome è intollerabile, o al mare perché la domenica sera tornare in città è un anticlimax che è quasi suicidio assistito.
Dove si trovano, e di cosa parlano, le persone che non hanno ancora il femore di titanio ma che all’idea di dovere andare in un bar dopo le dieci di sera sentono che un altro pezzo di sé sta scivolando via come un calcolo renale? Dove stanno quelli che piuttosto che bere un cocktail in un bicchiere di plastica assumerebbero litri di pombe? Dove si conoscono le persone in profondità, senza doversi affiliare ad un culto?
Ho come l’impressione di avere serrato il mio portone talmente bene che nemmeno un escavatore della Kocurek potrebbe farci qualcosa, ma non credo che la mia domanda sia nuova, né originale, solo che non ho trovato alcuna risposta soddisfacente, né nel mondo reale né in quello parallelo, eugenetico, dei social. Gli amici dicono che la fase brutale in cui una persona affronta posti orribili per incontrare un numero di umani utile ad incontrarne almeno uno interessante, sia necessaria e persino catartica. Ma questa è semplicemente la tecnica di chi si mette le scarpe piccole e, quando le leva, sente un grande beneficio.
No, non credo che questa sia la via. D’altronde, nemmeno abbracciare una vita di gatti, cani e parrocchia potrebbe essere una risposta plausibile alla domanda delle domande: cosa ci facciamo, qui, se non riusciamo a connetterci in maniera profonda l’uno con l’altro?
Ed anche il problema del linguaggio non è cosa da poco: non parlo solo degli idiomi, ma anche del numero di parole che ci vogliono per dire una cosa, e come siamo più simili per quante parole conosciamo che per colore o stato sociale. Quindi, salvo il miracolo straordinario e sempre più raro di corpi che si riconoscono prima ancora di parlare, siamo destinati a sempiterne ripetizioni di ascendenti, diete e meteorologia, o a pubblicare su Facebook quanti libri siamo riusciti a leggere?
Ho ancora qualche anno prima di terminare il mio lavoro, e potermi ritirare con decoro. Viaggerò, allora. Forse per la strada, o di nuovo in mezzo ai campi, c’è qualcuno che sta sperando che io arrivi – non in moto. E se no, comunque vada, sempre meglio di Tinder.