Settantadue ore in una cucina con un solo intento: dimenticare il maldidenti. Difatti io credo che mia nonna dall’aldilà mi abbia mandato questo dolore per farmi dedicare coattamente a quello che ho scoperto essere il mio vero talento, ovvero fare ingozzare gli altri.
Mi torna anche, nel senso, ha un motivo di essere, perchè io godo del piacere altrui – è grossa parte del mio lavoro, pensare a come fare stare bene gli altri – e mediante uova, farina, sale, zucchero (di nascosto), lievito e altri coadiuvanti si ottengono risultati extra ordinari. La crosta della focaccia al rosmarino e molti formaggi, ad esempio, è una riprova dell’esistenza divina (che mi sono data per certa venerdì, svegliandomi da un incubo: c’è, ho esultato dentro di me).
Le mie mani impiastricciate di farina, ho anche fatto la pasta, ripulite prima di dedicarmi alla polpa di granchio, sapevano di roba buonissima, come quando fai all’amore col fidanzato la prima volta. E vorresti che quell’impiastriccio non se ne andasse mai, che il tempo vuoto dedicato al godimento rimanesse primario, che certe cose non mutassero mai: l’amore della mamma, del papà, i baci con il fidanzatino della quinta elementare, il primo libro piacevole dopo l’orrenda serie di quelli che si trovano a scuola, il virus della musica sotto forma della prima canzone che ti ha trapassato.
ig
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