Vedi, Filodemo, ora che non sei più mio amico, ora che non abiti più qui vicino, ti posso parlare finalmente con franchezza: ti ho voluto molto bene. Primo perchè eri bellissimo e questo, credimi, conta eccome. E poi perchè avevo l’impressione che la canzoni che ascoltavamo assieme avessero davvero il medesimo senso per tutti e due, capisci, credevo che un giorno ci saremmo ricordati tutti e due dello stesso particolare allo stesso momento, ascoltando quel motivo, il bridge in minore, come un cervello separato in due timpani; questo è quello che rimane alla fine di ogni storia: qualche profumo e molte cassette, prima, cd, ora. Questo, non ti illudere, è successo con ogni mio compagno di viaggio, fino a che mi è capitata una cosa strana: non ascolto più le canzoni. Me ne ricordo, ma non aggiungo nomi alle mie playlist, quasi impaurita del sapore che le note potrebbero di nuovo portare alle mie giornate, delle decisioni che si possono prendere dopo un pezzo di quelli che ti ammazzano, che ti arrivano al nervo puro. La colpa di un amore che va bene o male sta nella musica, per quelli di noi che l’ascoltano con i piedi in tensione.
Ad esempio, penso ai Radiohead e alla potenza del perdere a braccia aperte. O alle canzoncine leggere dell’estate, necessarie come il caldo, per rifocillare il bambino che ci sta dentro con suoni allegri e atmosfere positive – come la mamma e il papà che si danno un bacino, come gli amici che ti vengono a trovare a sorpresa, come il ghiacciolo con dentro il liquido di fragola. Oppure penso anche ai madrigali ascoltati nel silenzio, facendo finta di essere antichi. Succede che a un certo punto la playlist finale è finita, fatta, non c’è più l’emergenza di uscire e andare a comprare il disco e nemmeno quella di scaricarlo abusivamente, alla fine ci si contenta di quello che abbiamo lì, e si tira una linea: è finito il tempo del tutto è possibile, benvenuti nel senso del dovere e nelle riserve di rabbia.
C’è un prezzo da pagare, quindi, per ogni volta che Alan’s Psychedelic Breakfast è andato a 28 di volume in macchina, coi finestrini aperti, con il freddo fuori e la lava dentro, e si chiama essere grandi. C’è la contropartita di Both sides now, c’è il rovescio della medaglia per Sheryl Crow della piena maturità, arriva il conto dei Blind Melon e la canzone delle api, e non si divide alla romana. And I’m wasted and I cant find my way home. Oppure, e io propendo per questa ipotesi, c’è da farla finita di stare lì a menare il can per l’aia, di sorbirsi quell’orrendo personaggio che siamo diventati, e ritrovare la via del Superdisco, il negozietto con le bandierine di calcio e i dischi della classifica, le magliette dei Guns n’Roses e quelle dei Tokyo Hotel.
Filodemo, non sono ancora pronta a smettere, sono sbagliata, che ti devo dire, ma per invecchiare c’è ancora del tempo. Speriamo molto. Oggi ho comprato un lettore cd con le cuffiette, e sto uscendo, per riguardarmi il mondo con la musica sotto. Tra l’altro mi porto i Crowded House, questa.