Correva l’anno 1979 e mi ero già reincarnata svariate volte; Stevie Wonder era stato il corpo che mi aveva dato la maggiore soddisfazione, mentre la vita misera provata nell’animo di Billie Holiday aveva lasciato tracce orrende, al punto che ancora oggi fuggo lontano dall’amore a mille miglia orarie. Delle skills acquisite, guidare a destra è sempre quella che mi ha procurato più difficoltà. Degli antichi usi, il tea delle cinque è quello che mi rimarrà impressa. Mi ricordo all’epoca di una discussione con Jeff Buckley, quando si ammise che La Bamba e Isn’t she lovely erano due canzoni magnifiche, a patto che le cantassero i Los Lobos e Stevie Wonder rispettivamente – e solo loro. Tutti gli altri, in qualche maniera, le facevano diventare canzonette da giostra domenicale.
Il tea si serve con il colino, e non ci si sbagli: le foglie devono avere fatto il loro corso nell’acqua, sembrare cadute in una pozzanghera e raccattate. L’acqua non deve essere a bollore, e la porcellana deve essere almeno spessa, se non ottima. Davanti a me il vassoio a tre piani: al piano delle tazze i sandwiches di pane bianco, grandi come un palmo di mano. Salmone. Erbette. Formaggio fresco, acido. Al primo piano, biscotti freschi, spugnosi, pesanti. All’ultimo piano, piccole fette di torta sacher, torta al pistacchio, cheesecake. Che sia d’argento massiccio. Che venga riposto sul tavolo da un maitre in guanti bianchi. Io faccio precedere il tea delle cinque da un bicchiere di champagne Laurent-Perrier, e poi mi godo il sapore del latte nel tea a pulire la bocca e le membra.
Nei miei viaggi in camper, quando facevo parte del Full-Tilt Boogie Band, spesso si mettevano i 45 nel giradischi movibile i Pink Floyds, nostri coetanei. Erano i tempi della Sicilia e di New York. Già allora bevevo il tea.
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