Il mio primo ricordo è un corridoio tipo ospedale, e una sensazione di disagio. Il mio primo bel ricordo, invece, è il vento che entra fra i rami del piccolo olivo e mi liscia la faccia, i capelli, l’animo grandemente felice che una bambina che vive in campagna può avere. E’ il mio giardino, la mia casetta sull’albero, il mio mondo fatto di bambini e galline: nulla mi dà più gioia che spiare dentro le bocche di leone, accarezzare l’erba, ciucciare i gambi di quei fiorellini pieni di acqua e limone, mangiare frutti senza nemmeno lavarli, accarezzare i pulcini di nascosto dalla mamma chioccia. Va ricordato bene, questo particolare: già a quattro anni capivo perfettamente, ed abbracciavo, la novella del topino di campagna e quello di città.
Arriviamo a Milano, sono trascorsi venticinque anni da quell’albero, e porto con me due piccoli: uno è la mia sorellina, l’altro è il suo amico Cesena. Andiamo – non mi ricordo perchè – a una sfilata, poi a una festa con Fifty Cent e un disperato ancorato a un divanetto che mi diranno poi essere Matteo Cambi. E’ circondato da persone strane, da ragazze belle e orrende assieme, la gente è sovraeccitata, sono quasi sicura che non abbiano mai visto un piscialletto. Il musicista fa confusione, sono tesa tutto il tempo e mi dò della cretina per avere portato la mia sorellina in questo stanzone rosa, chiamo l’autista e ci leviamo di torno.
E’ tardissimo, sono stanchissima: odio, detesto, fare tardi senza una bottiglia di vino e musica che mi piace attorno. Prendo i ragazzi e ci dirigiamo verso la casa di questo amico, questo fotografo: arriviamo dopo mezzora, Dio solo sa dove siamo, in questo stabile. Suoniamo. Ci apre una persona allampanata. Non è l’uomo che ricordo, insomma, si agita come una tigre in gabbia, non credo che sia sobrio o in condizioni regolari. Inizia a farfugliare cose terribili: puoi restare, ma il tuo amante va via. Non è il mio amante, non vedi che è un bambino? Amante, poi, ma che cazzo di parola, mia sorella piccina mi guarda con aria spaventata. Provo a riportare la calma, dico, il ragazzo è un amico di mia sorella, non lo posso buttare in strada alle quattro del mattino. Si mette a urlare come una scimmia. Vaffanculo, gli dico – la mattina non volevano farlo entrare allo show, mi aveva visto, mi si era accodato per entrare dentro. Andiamo via.
Camminiamo per ore, per fare arrivare il giorno, finchè il direttore di un hotel prova pena e ci fa accomodare su dei divanetti: Milano è piena. Piena. Non c’è una camera, nemmeno nei cinque stelle. E’ tardi. Ho sonno. Ci accasciamo sui divanetti e dormiamo due orette. Dimenticherò questa storia finchè mi verrà rinfacciata da un altro campione, che mi dice “la storia che racconti è diversa da quella vera”. Certo. E’ sicuramente più sano credere ad un uomo che si porta dietro un’urna cineraria e ci parla che a me e a due ragazzini. Il fatto è questo: quando avevo raccontato la mia storia, nessuno si era preso la briga di difendermi, di credermi, di verificare. Addirittura mi era toccato fare un pranzetto con questa persona, e essere dileggiata dai suoi amici, ma come, ma cosa dici, lui. Ecco, ci ripensavo questi giorni, leggendo le storie assai più gravi, di bambine di campagna, finite male.
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