Lo hai fatto apposta.

Juanita de Paola

Essere a favore del Tibet senza avere vagliato le ragioni di Stato della Cina è una delle caratteristiche principali di questa epoca in cui la critica emotiva ha preso campo sulla lettura della storia – ma anche sulla modestia dello stare zitti quando non si sa di cosa si sta parlando. Certo, non è che c’è tanto da interrogarsi: la violenza è violenza e la bruttura tende al peggioramento – e in un mondo civile la pena di morte e la soppressione dovrebbero rimanere nei sussidiari, nel capitoletto “quando eravamo idioti”. Così non è, e questo si suppone sia il mondo più civile possibile, perchè è quello che è resistito fino a stamattina. Avendo conosciuto lo sguardo di qualche militare delle forze speciali o di molti ragazzi in auto dubito che quel capitoletto nei libri di storia sarà mai scritto: l’uomo si diverte a combattere, e se l’umanità gliene fornisce la scusa eserciterà il suo diritto a farlo.

Comunque le kefie a caso, l’amore incondizionato per le minoranze, i partiti del bianco o nero, la coerenza d’acciaio, hanno incominciato a insospettirmi fin dalla tenera età: non per la causa in sè, ma per chi la sposava. Stesso effetto, più da grande, mi hanno fatto la chiesa, la moda, il liberismo, le assicurazioni e gli antidolorifici: tu hai mai visto una persona sana di mente abusare di anti dolorifici? O una persona uscire di chiesa senza maltrattare l’accattone, quello che puzza e c’ha la Bentley parcheggiata lì sotto? Embè, non si diceva la mano destra non sappia quello che fa la sinistra? Dare, senza chiedersi dove va l’obolo? Ma figurati: sono belve impellicciate, nella maggioranza dei casi. Detto questo ho amato il rito del bar dopo la messa, del cappuccino dopo la piccola pasqua che è la celebrazione domenicale, del vestirmi a modino per farmi vedere dal mio fidanzato, della passeggiata a braccetto con la nonna per andare a giocare al superenalotto.

Con lo stesso spirito amo i circoli arci: salto accuratamente le scritte dementi sul Chapas e la rivoluzione armata – chiedi a uno a caso all’ultima turnata di tasse quanto hanno versato, poi a un altro, poi un altro, poi un’altra, e vedrai come mai all’ospedale si dorme in corsia – e mi soffermo sul lato folcloristico della cena partecipata a quattro euro, cucinata egregiamente da qualche socio; oppure sull’aperitivo proletario, che è uguale a quello chic solo che costa meno ed è presentato peggio. Mi piacciono anche le serate musicali con sagra della bistecca, penso che potrei addirittura fare volontariato da vecchia. Poi nei circoli non si sente mai la musica del Buddah Bar, e questa mi pare una gran cosa. Non mi sono fatta mancare nemmeno ostriche e champagne – non vorrei farmi definire ontologicamente da un gestore di bar o da un altro, non vorrei farmi definire punto e basta. Ho seguito il consiglio della mamma, e mi sono adattata ad ogni ambiente, portando con me sempre i trucchi in borsa e una salvietta per profumare le ascelle.

Pensavo a (tutto) questo mentre mi spiegavi perchè non mi hai invitato alla cena dell’altra sera con la tua amica F. Hai, c’è da dire, un tono di flauto che rende accettabile qualunque cosa tu dica: mi arrendo senza combattere. C’era tutta la frangia estremista dell’università che avanza, dei duri e puri, avrei fatto una delle mie battutine lasciando poi intendere che non essendomi laureata posso sparlocchiare a caso. C’era anche la tua amica B, quella che legge un libro a settimana da quando ha dodici anni ed è in assoluto una delle persone più cretine che abbia mai conosciuto. C’era G, che viaggia come una palla da ping pong a destra e sinistra, tutti i fusi, a fare cosa diosololosa – anche lui un’incredibile creatura che avendo conosciuto più di venti civiltà continua a comprare maglioncini celesti di cachemire e calzini intonati come quando aveva sei anni. Ti chiedo, P: perchè non mi hai invitato? Con tutti i nervi che ho in questo periodo sarebbe stata la migliore cena del mese.

6 Comments

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