Certe ragazze sono predestinate alla sofferenza. Si accoppiano in genere con uomini in mocassino, con i denti all’indentro – come le balene, i gemelli e l’aria di chi ascolta le canzoni di Frank Sinatra senza poterselo permettere: insomma, My Way poco si adatta ai ragazzini o agli ometti. Bisogna avere combinato dei pastrocchi terribili, avere dormito con anatre e maiali, reggere litri di champagne senza sentirsi in colpa, per potere ascoltare e cantare quella canzone a squarciagola. Conosco questi splendidi istrici con cui escono mediante le loro parole, e quindi non è che mi fidi molto – il diavolo riposa nei pensieri attorcigliati delle donne e si crogiola nelle azioni dissennate degli uomini. La camicina a righe, il piccolo sigaro, la giacchetta con lo stemma di famiglia – inventato, nella quasi totalità dei casi, la macchinona: questi ragazzi sono in cerca della puledra da corsa fin dalla tenera età, e indossano qualunque cosa aiuti a trovare l’agnello, quella da cui tornare religiosamente dopo ogni tradimento.
Altre ragazze sono dedite alla sofferenza, che è diverso. Il cercare bersagli impossibili, uomini interrotti, ragazzi emotivamente bloccati ai sedici anni o ad un ideale di donna inesistente, fumettistico, è la loro specialità. Non è lo spirito da crocerossina, come in genere scrivono i giovani psicologi sui giornali femminili – nella rubrichina la posta del cuore, bensì un feticcio. Una gioia. L’infinito piacere di rimandare a mai la concretizzazione di un amore. Il desiderio del ricomincio. La forca. Il dimenticarsi di ieri per potersi scordare di domani. L’idolatria della vita come somma di attimi gustosi che si susseguono. L’uomo che fa soffrire, in questo caso, è un uomo specchio: non conta nulla. Quello che importa è non poterlo avere, possedere, per sentirsi vive. Ogni donna eterosessuale passa da questa boutade, che credo si traduca anche come puttanata, verso i venti – e poi abbandona la nave boho-chic.
Poi ci sono tutte le altre. Quelle che guardiamo il babbo e la mamma per vedere come funziona ‘sta cosa della coppia, mescoliamo con vento di Passioni (ma dov’è lui biondo indianizzato?), aggiungiamo Beautiful e sottraiamo la sindrome premestruale. Radice quadrata di impegno, in logaritmo naturale di “farei anche più sesso amore, se solo amassi vedermi nuda”. Queste, noi, ci troviamo appaiate con uomini che fanno parte della categoria paritetica – ma non dovevamo uscire a giocare a subbuteo? Ma dov’è la tuta da Uomo Ragno? Tempo indeterminato cosa?! Chi sono questi nani che mi somigliano? Perchè lei è così larga ora? Perchè lei urla sempre? – e assieme, campioni di improvvisazione, si procede a vista. In questo pellegrinaggio è importante ricordare la massima “Amore, ogni giorno che passa ti trovo meno interessante. E ti scelgo di nuovo, perchè tu scegli me. Nonostante ogni giorno che passa tu mi trovi sempre meno interessante”.
Sembra sempre, mi dicono sempre che suono come una vecchia senza cuore, senza amore. Ma io amo profondamente, cercando di non farmene accorgere. E la prima parte del conoscersi, quando ci si raccontano le storie della vita passata e si inventa a piene mani la persona che vogliamo ricordare di essere state, mi annoia a morte. Mi piace il dopo, quando ricomincia la tempesta, quando la sfida diventa insopportabile, quando siamo due tipi che affrontano un tifone dopo avere prenotato un soggiorno in un villaggio vacanza con l’animazione: cos’è questa cosa terribile, cos’è questa angoscia che mi attanaglia sul pianerottolo? Ah, sei tu amore. Vedo che hai preparato tu la cena stasera, che gentile. Grazie di avere usato tutte e sessantaquattro le mie pentole per bollire i sofficini e riscaldare i fagioli surgelati. Grazie di esistere, altrimenti non saprei proprio di cosa scrivere.
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