Martellate in testa

JUANITA DE PAOLA

La maniera con cui la nonna Gemma squartava gli animali a mani nude, ed il fatto che io la chiamassi nonna nonostante non mi fosse parente nemmeno alla lontana, segnano il mio odierno rapporto con la natura e con le persone. La nonna avvertiva le galline, come i maiali, che si stava avvicinando. Poi, con con grande serenità, o tirava il collo alle galline con un urlo secco, o pigliava a martellate il maiale in testa finchè, finiti gli schizzi di sangue dovunque, questo stramazzava. Noi bambini eravamo eccitati come lupi e qualche volta, ai più fortunati, toccava uno schizzo di roba addosso – “guarda! è il cervello!.

Per imitare la Gemma andavo spesso dietro al fienile, accanto alla stanza dell’odoraccio – il ricovero per le botti – e strizzavo qualche pulcino a morte. Gli rompevo il collo. Questo finchè lei non mi beccò e prese a schiaffi sull’orecchio: e se lo dici a tu madre vedi che fine ti faccio fare. Mai detto. Per capire la stoffa della signora, quando uscivano i biacchi (i serpentoni innocui ma pur sempre schifosi) dal fosso davanti alle case lei li prendeva con le mani, li attorcigliava come un cavo da palcoscenico per non farseli scappare e poi li inforcava, letteralmente, a morte.

Oppure. Se arrivava uno sciame di api e lei stava infiascando il vino, continuava imperterrita anche con centinaia di creature ignobili tutte attorno, al punto che per non lasciare cadere nulla si fece pinzare da un calabrone grande così, su un occhio, e solo dopo che aveva finito andò all’ospedale. Nel frattempo ci si mise una chiave, e bestemmiò così forte e così tanto che noi bambini si andò a casa mogi mogi, sperando che non ci venisse ad ammazzare senza motivo durante la notte.

Ovviamente i sagrati della Gemma non erano normali, erano delle opere di grossolana demolizione dell’altissimo, dove la parola cane risultava essere la più leggera, la più raffinata. Si andava dall’impalatore allo sdraiato a culo ritto con una veemenza che ci faceva chiedere se questo Dio esistesse davvero – e se sì, se c’era, doveva comunque essere anche lui terrorizzato da quel donnone di un metro e ottanta. Forse non era così alta, ma io avevo cinque anni e mi sembrava infinita, sterminata.

Il grasso superfluo è nato dopo la sua morte, per rispetto. Le sue dita erano grandi come paletti, le braccia coperte di vene, le spalle così larghe che nessuno dei fidanzati che ho avuto potrebbe fare a gara, nemmeno con la sua ombra. Le gambe, una a Trieste e una a Venezia, erano arcuate come quelle di un calciatore, e le ginocchia erano tonde, senza carne attorno: un fascio di muscoli e potenza, che rideva per un niente, con un milione di rughe in faccia.

Mi è venuto questo in mente ieri sera mentre, con un affetto che mi scoppiava in cuore, ci vedevo noi ragazzini arrivati qui, a questo punto che non è un punto in assoluto, ma è per noi un segmento per domande: cosa abbiamo fatto, dove siamo stati, ne valeva la pena, e ora cosa succede, cosa dobbiamo fare per essere felici. Domande che ci lasciano esausti, molto più che ammazzare un suino, eppure assai più fragili della nonna Gemma, morta a novantasei anni che sembrava ne avesse ancora quaranta – il problema è che a trenta sembrava che ne avesse già sessanta.

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