Maternità e di altre aberrazioni.

Juanita de Paola

L’esperienza del parto è africana, nel senso di ritorno ad una natura che non ci fa rilassare, anzi, ci fa mangiare da un leone. Per capire l’esperienza, chi non avesse avuto la fortuna di provare, potrebbe farsi un clistere via l’altro fino a raggiungere dieci litri di liquido caldo nel sedere e poi occludersi con un tappo di sughero per ventiquattro ore: quei dolori addominali sarebbero allora un riflesso ottimista rispetto all’uscita vera, quella col pargolo. Al corso preparto ti insegnano a respirare per benino e a cambiare il pannolino, quello che non ti dicono è la verità: sta per iniziare un’esperienza triviale, figlia mia, per te e per i tuoi capezzoli. Ti consigliano il parto naturale perchè un’operazione è sempre un’operazione, e allora bisognerebbe che ci fosse una nei paraggi che ha già sgravato a ricordare che anche uno squartamento è uno squartamento.

Le infermiere che ti assistono nel parto sono cattive dentro, le selezionano come durante il terzo reich, in base al livello di ferocia naturale. Si vendicano perchè anche loro hanno dovuto patire quella cosa lì, e allora è giusto che tocchi anche a te. L’anestesista, ho scoperto, lo scelgono solo se vive a dieci comuni di distanza, di modo da potere arrivare sempre a partita finita. Poi, dopo ore, giorni, di questi dolori lancinanti, esce quel coso lì e tu pensi: e questo chi è? L’altro pensiero va subito al fatto che il tuo corpo è dilaniato, che se starnutisci per sbaglio bisogna che tu sfoghi l’ondata di forza su un cuscino, che tu morda qualcosa o qualcuno, se no il dolore è lo stesso di un’impalatura.

In queste belle condizioni fisiche inizia l’avventura con quel micro nazista che proverà immediatamente a metterti sotto nonostante tu lo ami come nulla, mai prima; mangerà e cagherà a più non posso, e tu ricorderai con rimpianto quei giorni in cui potevi uscire senza portarti dietro un ruksak. Poi ti fanno male le tette. Poi spruzzi latte dal reggiseno e puzzi di ricotta vomitata. Poi ti cascano i capelli e si indeboliscono i denti. Poi le tue amiche spariscono – e hanno ragione, come si fa a stare vicino a una che odora di acido e sembra uscita da una lavatrice industriale? Poi il tuo compagno riprende il calcetto dopo due settimane, poi le serate di poker, poi i viaggi di lavoro, e tu sei lì come una nave da crociera: immensa, orrenda e immota.

Ti aiutano le commesse dei negozi dove andavi prima, che quando rientri ti guardano come se tu avessi fatto un incidente sfigurante e ti portano della roba che dici, ma Dio mio, ma qui dentro ci ballo. E poi ti sta stretta, e loro ti sorridono. Ti si apre invece un nuovo fronte di amicizie dentro la Farmacia, dove entri ed esali un “emorroidi” con la stessa scioltezza con cui prima chiedevi le goccioline per gli occhi o la cremina struccante al tymus costosissimus; non c’è bisogno di aggiungere altro, sanno chi sei, sanno perchè sei lì, e ti mettono nel sacchettino un pacchettino di caramelline di zucchero, tanto sanno che per un bel pò di tempo quella sarà l’unica cosa che ti sarà dato di ciucciare.

4 Comments

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    Juanita hai proprio ragione!!!