Morire? Non ne vale mai la pena.

juanita de paola

La paura, quella nera, mi è capitato di provarla poche volte per fortuna. Una volta sto portando la barca e questa scuffia, si ribalta, legandomi con un laccio sotto la vela: il salvagente arancione, potente, mi spinge la testa contro la vela, mentre quest’ultima mi spinge a sua volta sott’acqua. Non riesco a muovermi e mi manca l’aria, mi sento svenire. Recuperata la calma e riempita alla meno peggio la bocca di aria e acqua, ce la faccio a slacciarmi il giubbotto e a divincolarmi, esco da sotto la vela, faccio tutto quello che va fatto – con grande fatica – per riportare su quella bagnarola infame, compreso saltare sulla deriva con la poca forza rimasta, e riconquistare il posto al timone.

In questo frangente ricordo di avere detto ma cazzo, ma proprio in barca devo morire, senza piangere, senza urlare, ma sbuffando come se mi avessero levato di sotto mano un caffè non ancora finito. Andavo a scuola vela infatti obbligata dal mio nonno, comandante del porto di Punta Ala, sopravvissuto all’affondamento a Capo Matapan. Poi mi abituavo, che c’entra, ma mi dava noia l’idea che mi scrivessero un trafiletto su un giornale locale del tipo “giovane velista affronta il brutto tempo e ci lascia le penne”, quando non ero affatto una velista – i venti e i nodi mi urtano i nervi, ancora oggi – e soprattutto non è che affrontavo niente, mi avevano mandato a fare questa mini regata in cui, come al solito, sarei arrivata ultima. Dopo un’ora dal penultimo.

Da quel giorno mi offro al maestro di stare a terra e pulire le barche, gli chiedo di non dire nulla a nessuno, per piacere, ti supplico, mi fa schifo. Non si fa pregare il Tony, ma non mi fa sistemare nulla di nulla, sono semplicemente libera in spiaggia di fare tutto quello che mi pare, con un baretto nei paraggi; il patto è che io non combini nulla di strano, che rimanga attorno al casotto delle lezioni. Passo i giorni, un mese, a guardare l’insegnante di wind-surf, con un culo granitico che io intuisco non mi capiterà mai di avere. Quindi esco con un diploma di vela, nessuna cultura in termine di navigazione e ore su ore di sole sulla battigia, senza sviluppare nessun muscolo. Al solito.

Ogni anno lo strazio delle lezioni si ripresenta, dai dieci anni ai diciassette. Solo che l’ultimo anno, tornando dal mio dolce-non-velare del bagno Tartana, cavalcando la mia bicicletta  e tagliando nella pineta per tornare su al porto con una fame da cinghiale in astinenza, qualcuno prova anche a violentarmi. Mi ferma la bicicletta avvicinandosi cin un motorino, si spoglia, mi spoglia mentre ho ancora la bicicletta in mano e poi gli disastro i marroni con il manubrio: sangue, il suo, urla, le sue, mi ricordo la faccia come se me l’avessero tatuata nel cervello. Corro a casa, mezza vestita, mezza nuda, lasciandomelo dietro in terra con le mani conserte sui genitali. La figura diventa piccola, sempre meno feroce. Mi calmo prima  di entrare in casa. Vado da nonno, lo prendo da parte e gli dico: nonno, per fare questo corso di vela che mi fa schifo sono quasi morta soffocata e uno mi si è spogliato davanti nella pineta, pensi che mi possa dedicare ai castelli di sabbia nella spiaggetta libera da domattina? E lui mi risponde imbecille te che l’hai fatto finora. Fine delle regate. Amen.

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