Cecilia mi cammina dieci metri avanti, per punirmi: sono una mamma cattiva. Le ho detto mangia guardando quello che hai in mano, se no da grande ti danno un piatto di fango coi vermi e tu te lo inghiotti senza nemmeno accorgertene.

Cecilia mi cammina dieci metri avanti, per punirmi: sono una mamma cattiva. Le ho detto mangia guardando quello che hai in mano, se no da grande ti danno un piatto di fango coi vermi e tu te lo inghiotti senza nemmeno accorgertene.
“Abbracciali tutti, tutto il giorno, raccattane i panni, lavane lo sputo nel lavandino, benedici le loro tracce terrene e l’odore dei panni sporchi, fallo in silenzio e con gratitudine: potrebbero portarti tutto via” (C.J.H).
Non hanno uno sviluppo facile quelle relazioni che iniziano come la mia, simile a molte altre; una storia che è stata una scommessa allegra, un rimbalzo da un’altra molto più lunga e all’epoca più verosimile, forse una rivalsa. Prima una grande attrazione, la convinzione che tutto si accomoda per noi giusti. Poi una bruciatura che scarnifica, un rifiuto fisico dell’altro, un ribrezzo come da una sorsata assetata e generosa di latte rancido. Infine la solitudine vera, quella che si vive in mezzo a persone di cui non sappiamo niente, aldilà di quelle poche cose che costituiscono un’unione felice come una infelice.
Ho iniziato a lavarmi la faccia prima di andare a letto perché fra una settimana ho quarant’anni. Metto anche una crema che leva il rossore dal mezzo delle guance, ma non ci spero più di tanto perché bevo vino e pare che quella sia la causa – dice mia sorella. Metto un unguento alla rosa che profuma come il giardino davanti casa quando ero piccola, vado a letto e sogno la carezza della mamma che sussurra va tutto bene, con quella mano ruvida e corta che è identica alla mia.
La piccina non ci fa litigare.
Arriva in camera, anche quando ci massacriamo sotto voce, e dice me l’avevate promesso. Allora io smetto subito, lui continua, io vorrei avere una pistola, lui continua, io dico bestialità che arrivano da luoghi neri, ma sempre con educazione, con la voce bassa. Smettiamo e tutti ci addormentiamo con il torcistomaco.
Ad un certo punto abbiamo affittato una casa enorme.
A me piaceva perché avevo spazio per nascondermi, la stanza della servitù dietro l’acquaio in cucina con il suo bagno rosa acceso e la porta nascosta, e una dispensa dove rinchiudersi in caso di assassinio imminente.
Quello che mi interessa sono le storie che ruotano attorno alle storie. Ad esempio. Per una superstella che entra al Ritz, c’è una persona addetta alla sua vestizione che ci passerà una decina di ore assieme. Con questa, spesso, ce n’è un’altra che salta da un temp (lavoro a tempo molto determinato) ad un altro e che quella giornata deve semplicemente caricarsi dieci vestiti di scena in spalla portandoli, incellofanati, in camera di qualcuno. Che poi è la superstella.
Stap. Glup glup glup.
Così il vino ancora stranamente bianco a Ottobre, ma qui fa caldo, fluisce dalla bottiglia nel mio bicchiere a fine giornata – nove, dieci, undici ore di immersione totale nel mio mondo: lavoro come un cane, di solito, per non lasciare molto tempo al vacare. Il nonno mi diceva che siccome era stato svogliato gli era toccato studiare tutta la vita, e io penso di essere di quella specie lì, ma anche per il lavoro.
Il primo bicchiere per lavare via la giornata, il secondo per fare posto ai pensieri che durante il giorno mettiamo nei cassetti delle persone perbene, il terzo non si può anche se si vorrebbe.
Lavoro parecchio, oltre il limite della concentrazione, oltre l’educazione di essere in una famiglia di esseri umani che desiderano parlare, fare confusione, buttare imprevisti nel mezzo: io li odio, gli imprevisti, dai tempi del Monopoli. Parlo pochissimo. Odio le vacanze: mi è rimasta la forca, quella sì, dare buca ad un appuntamento mi dà ancora un piacere così acuto.
Ho le cuffie nuove ad alta fedeltà, così la mattina, dopo avere accompagnato la piccola creatura che è il sole dei miei giorni, posso camminare sul fiume ascoltando le cazoni al volume esagerato con i bassi a palla. Pensare che io i bambini li sopporto poco, ma quella lì, la Cecilia, è tutta un’altra storia.
Ho preparato due liste di canzoni per sfondarmi le orecchie, una si chiama “sul fiume nei giorni di pioggia” e una si chiama “sole”. Perchè io abito su un’isola, e tutto cambia se piove o no.
Chi non sta in Inghilterra pensa che il problema sia la pioggia, ma non è così, anzi: qui, quando piove, si può uscire senza ombrello. E’ un’acquetta educata e fine fine, che manco ti bagna. Non è come quando il trenta di agosto ti piglia la pioggia in Toscana, che ti devi mettere davanti al fon, alla stufa e sotto un calorifero per riprendere colore. No, non è l’acqua, ma la luce: è storta. E’ più bassa. Hai presente quando con il tuo fidanzatino le prime sere ti ritrovi ad ascoltare la musica in camera e tieni accesa solo l’abatjour? Ecco, la stessa cosa, ma tutta desaturata.
Domani c’è un playdate dopo la scuola, cioè la bimba deve andare a casa di qualcuno perchè così dicono a scuola, per socializzare. Io ho individuato la casa dove va e anche una panca lì davanti, dove aspettare – senza destare sospetto – per tutta l’ora.
Forse domani ricomincio a fumare.
L’aspetto del mio lavoro che mi ha colpito di più in questi anni è quel desiderio di ritorno alla cava che è il leit motiv di The Croods, ad esempio: tutti gli uomini e le donne di grande successo che ho incontrato, con quelle vite che noi sognamo ad occhi aperti quando guardiamo la televisione, quando vengono in Italia non desiderano altro che tornare in un luogo confortevole, materno e protetto.
Correvano gli anni incredibili, quelli in cui oggi preparo And if i say to you tomorrow al pianoforte, andiamo in scooter all’Abetone, gita alla Macchia con i panini (gli altri) e un budget per il pranzo nel ristorante (io). Mi piace quel ragazzo Deutch, dice Chiara che non si può, che lui ci prova un pò con tutte – a me piacciono quelli che ci provano un pò con tutte perchè in genere io vinco la partita, la guerra e il piatto. Non succede. Non succede mai quando ci penso, accade solo se sto facendo qualcosaltro: non è strano? Dubitare della res amorosa, è come il bus a Firenze: passa solo se non ci credi.
Passeggiamo su questa linea montana in direzione del lago, con noi questi ragazzini che oggi sono uomini – uno mi ha mandato una lettera esplicita, come dire, ora che siamo grandi possiamo stare assieme: no che non possiamo, tu sei il bambino della cordata lasca e la tua mamma mi sta parecchio simpatica. Ma che fai? Cosa sei diventato? Ti piaccio davvero? Io non credo. Avrai speso un sacco in Sky, macchine, quella roba lì.
Avevamo promesso di no.
Camminiamo nella notte che sembra una fragola nera, con i puntini e l’odore fragrante, rumore di cinghiali – Lei dov’è, mi chiedi? Che ne so io, sei diventata suora nel frattempo, chiedilo tu a Gesù, c’hai più confidenza. Dal cespuglio rumori tremendi, forse moriremo: smettila stupida! Ridere. Forte. C’abbiamo confidenza in due cara, io ancora faccio le preghiere la sera. Accendo candele.
Da qui a ventanni saremo tutti diversi. Tutti dicono che è bene così, invece non è vero niente: falliti. Arresi. Sarete diversi voi.
Ha trovato la pace con la sua cameriera slovacca. Si è tinto i capelli. Ha la barba bianca. Ha iniziato la danza dopo cena. Fa pilates. Piccoli espedienti. Non mi funziona Spotify, a proposito, è rimasto interdetto del fatto che vivo in due posti: cattiva!
E’ una notte londinese dopo il sole – questa è un’isola, la luce o ti ammazza o non c’è.
Quando in presenza di orso infuriato, sdraiarsi a pancia in su e fare le moine. Quando in presenza di Londra assolata, ugualmente, chiudere le veneziane tappandosi in un buco e attendere che il popolo bianco rientri in casa: così come allo straniero non è dato vedere un italiano composto sotto la pioggia torrenziale, così a noialtri immigrati non deve essere inflitta la punizione tardiva dell’estate londinese, una benedizione solo per chi ha abbracciato la religione delle flip-flops e delle callosità dure ma un disastro estetico per chi è appena ritornato (dalla Toscana) con l’aspettativa di un pò di pioggia leggera e cielo plumbeo: è tempo di lavorare. E’ tempo di stare dentro.
Talloni induriti ciabattano con dita ciccione lungo il fiume, smalti con colori da bambine, happy hours che si protraggono fino alle dieci di sera quando la piscia diventa incontenibile e le donne cominciano a cacciare il maschio stordito, l’unico disponibile alla concione fisica da queste parti.
Mi hanno cambiato il ragazzo della birra, che non bevo, ma era carino e faceva sempre l’occhietto a Cecilia. Al suo posto due parameci di parecchi metri l’uno e senza tratti somatici. Per fortuna una volta al mese arriva una squadra di rugby. Il mio amico Henry, di cui non ricordavo l’esistenza – e credo nemmeno lui la mia, ma tant’è – ieri sera mi ha comprato una bottiglia di bianco francese molto buonino, welcome back, grazie, ma chi sei? Scherzi a parte: chi sei?
La ragazza con i capelli rossi che non indossa mutande e porta i vestitini leggeri a pois si è chinata anche ieri per mettersi al sedere: nessuno vuole guardare sotto quel gonnellino, a parte me che covo la speranza di vederci un bel paio di spantex. Macchè. La chiamano la signorina allenamento (Ms Training) perchè a lei si deve lo svezzamento di qualcheduno di questi carciofi. E sai non si direbbe: secchina, bellina a quella maniera, senza trucco, coi capellini pettinati – queste cose te l’aspetti dalle golosacce.
Stasera esco. Ho scaricato l’applicazione che ti permette di inserire la tua partenza e la destinazione e ti guida dove devi arrivare con semplici indicazioni adatte alle femmine: “prendi il bus numero 12, conta dieci minuti, scendi, girati, cammina alla fermata, monta sul tube giallo e scendi dopo 8 fermate”: una pacchia, perchè il mio problema più grande – non solo in questo dipartimento, non solo qui – è che scambio i numeri e le lettere, per cui il treno numero sette delle due e mezzo diretto a Ladbroke diventa automaticamente l’autobus numero due che alle sette e mezzo arriva a Landott. Mi perdo. Piango. L’anno scorso sono andata a prendere la Barbarina all’aeroporto il giorno prima: arrivava il 19 alle 18, sono andata il 18 alle 19.
Stasera gli amici mi danno il benvenuto e mi hanno cucinato il ragù, che poi c’è da spiegargli che io è da quattro anni che non ceno, ma non importa, mi infilerò gli spaghetti nelle maniche o dentro le tasche come al solito. Spero che ci sia il vino rosso. Mi ricordo quando ho infilato due piatti di cioncia nella borsa, e l’agenda che ha puzzato di maiale per un anno.
Si riparte.
My name’s Juanita but everybody calls me Jo cause it’s easier – and I love it. My job is spotting villas that are differently magnificent, complete them with butlers, chefs, cooking mammas, nannies, cleaners, gardeners to create a place where agencies send their clients from all over the world. My company is a business to business one, this means we speak to the professionals and not to the travelers, which makes my life so much easier I can’t believe nobody else does it in Europe. I have met presidents, models, rock singers, divas and football club owners, always in disguise – as Jo. I have learnt many things, the most important being money doesn’t buy happiness but gets you in incredible houses – we talk ten, twenty, forty, seventy, hundred thousand euros per week.
I have set up my first company because my curriculum vitae didn’t fit any job offer, that’s why I encourage anybody who gets rejected to start their own business and never surrender: if you are insistent to the point of noxious you will make it. That very first company failed and I got a video camera out of it – the one we bought with the company money. The second one got funded by the european community for a total amount of thirty thousand euros, which – I discovered after – me and my sister had to spend in advance. So, with barely a hundred euros in our pocket, we found ourselves compelled to expenses such as computers, printers, an office, software, hardware, assistance, taxes and all of that.
I didn’t have an idea of how you file your taxes return so I hired the least expensive fiscal advisor in the market, and this move provoked a series of penalties that I would after be found responsible for. I was like, so, I pay somebody to do a job, they do it crap and I am responsible for it: how can that happen? So that would be my first lesson in business: if you are an entrepreneur of any sort, even one with ninety euros as an entire capital (and an outstanding power mac that your father gave you together with a screen of 42′), you are responsible for every minutia. Basically you have to check everything or somebody, somehow, will screw you.
I probably should say that when starting a company you need to hire the best possible advisors in order to know what’s best for your company, however that’s bullshit: unless somebody gives you a present of a couple of hundred thousand euros to start with that you don’t have to return, you will have pennies in your pockets and will need to spend the least that you can, covering every possible job in your company. I have also noticed that those with dad and mum on their back rarely get to anything, really. Yes, they make some money, but that’s absolutely no point to being an entrepreneur, really: of course you need to pile cash in the bank, somehow, but what makes you fly is the heat, the itinerary that leads you from point zero up to the sky. To become important to your own very eyes. To prove to yourself that ideas count more than anything else and there’s no fiscal administration, State, person that can stop you. So my second lesson would be do not spend money you do not have and believe in your ideas, defend them, make them happen.
During my life and work experience I have met some amazing people who didn’t make it and some really atrocious human being who had a big car. I only work and hang out with people that are worth sharing something with as I cannot stand those who show each step of their career, they are to me the equivalent of a wig compared to natural hair. I also signed a contract with myself after the first big booking I have received that says I can not buy myself a BMW. I love BMWs. I think they are sleek wonderful machines and would love to own one. So I am still driving the old family ford car, named Carlotta, and sharing it with my little sister eventually. I feel tempted any now and then to get somewhere and buy me a great car and I am not sure I will keep with my promise, but I giggle every time one of my friends shake their heads in desperation talking about their kids very expensive education, their wives love for luxury items and, yes, their car yearly outstanding costs: they are miserable in their own richness.
I think a lot of humans build their cages day by day, while I want to be free to relocate in 24 hours, with nothing attached to my travel than my new project, life. So my third hint is be free, because life is wonderful and worth living per se. If you are not free, if you are pushing hard so you can buy better and bigger things, I doubt you will ever be an entrepreneur that really counts in this world. I am not either. Yet.
Mi ha messo la catenella. Quindi alle due ho iniziato a chiamarlo come un ossesso e sono sicura che almeno in dieci case mi hanno sentito. Qualcuno ha urlato ‘chiamo i carabinieri’ e io ho pensato fai bene, perché ora io lo ammazzo. Ho urlato dalle due alle due e trenta, pensando che fosse lì dietro il portone a ridacchiare, invece no. Dormiva proprio. E’ scesa la piccola e mi ha aperto la catenella un pochino spaventata ma insomma tutto bene. Le ho dato la buonanotte e ho richiuso la porta dietro di me. Avevo l’alone di Okuto.
Ho atteso. Ho letto. Ho atteso. Ho letto.
Poi ho riempito un secchio di acqua gelida, ho salito le scale con leggerezza e l’ho rovesciato addosso alla mia dolce metà, provocando un di lui salto da fermo che, c’è da dire, ricorderò per sempre con allegria. Sono andata a letto, un altro letto, pensando a cosa avrei fatto l’indomani per vendicarmi più approfonditamente – la mia colpa quella di essere andata a cena da sola con la mia amica Bionda, per festeggiare il di lei compleanno. L’Inglese non ama essere trascurato. Lui è come un lavoro a tempo pieno non pagato (ma) in un resort di lusso, il figlio spurio di uno sceicco convertito al pauperismo, una dicotomia vivente che meriterebbe un’analisi profonda o un analista a cottimo.
Così siamo andati in un ristorante a festeggiare il giorno dopo, perché la vita è corta e le mie gambe pure. Ho selezionato i piatti più costosi e li ho ordinati tutti. Il ristorante è di Igles Corelli che non conosco ma dai piatti direi un rivoluzionario e un riottoso. Il melograno mi ha curato, il vino mi ha guarito, il pesce crudo mi ha riportato alla ragione. La famiglia è di nuovo compatta. L’Inglese è cascato e si è aperto un pezzo di testa. Ti sta bene, ho pensato. Poi però mi sono pentita. E’ che quando mando gli accidenti arrivano bene e subito.
Pesce crudo. Otto tipi. Morbido, fresco, sensuale. Menù dispettoso. Non ho capito la foglia d’oro ma ci stava bene, e siccome non sono un critico ma una che mangerebbe sempre, se potesse, ho deciso che ci stava bene anche quella e l’ho mangiata. Ho divorato i fiorellini colorati. Ho fatto scarpetta. Ho mangiato il pane di nascosto da me stessa – come sempre.
E il settimo giorno Dio creò la domenica assieme ad un dossier di scuse per non avere saputo cosa infilarci. Questo sarà il giorno della messa, anzi no, del riposo, anzi no, della famiglia, anzi no del pic nic. ‘Ma fate un pò quel che vi pare, purchè almeno oggi non veniate a turbarmi con le vostre richieste senza fine e i vostri lamenti’. E così si fanno cose per placare il demente iperattivo dentro di noi che ci vuole camminanti, sportivi, a contatto con la natura e con una curiosità (che chiamano sana) da museo civico.
Sono stata ad una premiere a vedere il film The Croods, la storia della mia famiglia nella versione che va a finire bene.
Naturalmente ho finito tutti i pacchi di popcorn ricoperti di miele offerti dalla Disney & Co a noi persone importanti che si va agli eventi per fare clamore. Ho terminato il mio, quello della bambina e anche quello dell’Inglese, la mia dolce metà, che mangia e veste solo cose raffinate, di certo non un pacco di questi. Ogni boccone mi ha reso più triste di quello precedente: il mio cervello, così lasco in ogni dipartimento, è invece un contatore automatico di calorie ad altissima precisione e un erogatore di sensi di colpa allo stesso tempo.
Mi alzo prima di tutti. Se non lo faccio vuole dire che c’è qualcosa di triste che mi blocca nel letto e che sto cercando un buco all’interno del materasso in cui svanire come il bianconiglio. Poi si alza lei, la regina della casa, il buco nero del mio tempo, la fine del sesso droga and rock n’roll e l’inizio dell’amore che è una banca di ossigeno.
La dolce Cara mi viene a trovare a sorpresa con il suo bagaglio di problemi irrisolvibili. Certo è strano, ti chiedi ad un certo punto della vita, che ci siano persone – donne – cui va sempre tutto storto, i cui parenti siano atroci profittatori, tagliagole, cattivi dentro nel profondo. Donne incomprese, eppure omnicomprensive e onniscenti, come lei. Guai a passare al vaglio della Cara, non se ne esce vivi: ha giudizi implacabili su chiunque, in particolare sulle povere donne ‘normali’, banali. Cretine. Grasse. Vestite male. Avevo già detto banali?
Ho dimenticato di mettere su il montone nel percorso dalla cabina all’ingresso dell’aeroporto. Non è proprio freddo, ma ero abbastanza accaldata e stanca da pregiudicare gravemente la mia gola da sempre fragilissima. Mi punge tutto, mi sembra di avere una manata di chiodi nel collo e cerco di sputare invece che deglutire per non dovere sopportare quel dolore così noioso. Questo succede a noi cattolici quando andiamo in vacanza: Dio ci punisce. Questo succede a noi fumatori occasionali: Dio si prende i nostri polmoni e le nostre trachee.
Porto la piccina a scuola. Scelgo il percorso lungo il fiume perchè quello dietro la casa è più corto ma non ha nessuna attrattiva, oltretutto c’è da attraversare il ponte della ferrovia e lassù ci sono sempre dieci gradi meno che in Svezia. Non parliamo, perchè io mi aspetto da lei una comunicazione di tenore adulto che lei non può conoscere e lei vorrebbe che io corressi e saltassi e facessi cose strane, come lei. Quindi ci diamo la mano e la strizziamo a intervalli abbastanza regolari, credo che entrambe pensiamo che ogni pressione vale un ti voglio bene, da parte sua, o un ti ringrazio, da parte mia.
La mia revisione mensile consiste nell’esercizio di immobilità: per due giorni almeno scelgo un angolo e mi ci infilo, come un gatto cieco, senza muovermi se non per bisogni di tipo elementare. Ci metto sessanta ore per mentalmente ripercorrerne seimila, dormo di continuo, mi lascio gonfiare gli occhi, dolere la schiena, brontolare la pancia e infilo spesso il naso nella maglia per sentire quell’aroma di bambino invecchiato che si piglia quando si sta a letto per molte ore: certe volte sembra di potere odorare il grembo della madre, la carezza del padre, la mano ruvida della nonna.
Il coraggio (cor habeo, da cor, cuore e habere, il verbo avere) è la virtù che non ci fa sbigottire davanti ai pericoli, ci fa affrontare i rischi senza stare tanto a pensare, non ci fa abbattere per dolori fisici o morali e, più in generale, ci fa affrontare a viso aperto la sofferenza, l’incertezza o l’intimidazione. Per quanto mi riguarda il coraggio ha più a che fare con i no che con i si, con l’entrare in una stanza piena di persone senza sentirmi un residuato bellico inesploso, stesso appeal – ma ognuno deve abbattere il suo drago.
Ho sempre considerato la musica da discoteca un segnale chiaro dell’impoverimento di una cultura, nel senso della sua implosione, del suo decadimento: così come al principio Essi danzavano sensualmente attorno al fuoco ritmi complessi e fisicamente difficili da sostenere, così alla fine Essi ciondolavano al battito di una sequenza quattro quarti (unz unz) re-sol-la minore, spostando il baricentro del corpo da un lato all’altro del suo asse, come oranghi dopo una canna.
Ne “L’amore ai tempi del colera” Fermina Daza, sposa appieno le convenzioni borghesi e accetta per marito il pacato, rassicurante, dottor Juvenal Urbino, invece dell’amato, timido ma tenace, Florentino con cui riuscirà a essere felice solo 53 anni dopo.
“Se qualcosa la mortificava era l’ergastolo dei pranzi quotidiani. Perché non solo dovevano essere all’ora convenuta, dovevano essere perfetti e dovevano essere proprio quello che lui voleva mangiare senza domandarglielo. Se lei qualche volta lo faceva, come una delle tante inutili cerimonie del rituale domestico, lui non alzava neppure gli occhi dal giornale per rispondere : “Qualsiasi cosa”. Lo diceva sul serio, con i suoi modi amabili, perché non ci si poteva aspettare un marito meno dispotico.
E ci siamo. Non allo scarto gioioso e feroce dei regalini da parte dei piccini, che mi ricorda il minuetto animale fra iene e carogne, ma alla fine vera della gioventù: la fine dell’attesa con sorpresa, decretata dal sapere con precisione cosa sta sotto l’albero e l’ordine esatto con cui tutto va aperto, al fine di ottenere quel climax disegnato mentalmente.
Non c’è traccia del tempo che è passato, caro Filodemo, nella mia faccia. Si è fermato il giorno che sei partito per Manila e a questo punto non farà danni fino al tuo ritorno – che ho sognato stanotte. Quando ti rivedrò mi cascheranno assieme faccia e collo, diventerò un chou-chou, perchè la natura toglie e la natura dà: tutta quella felicità deve pure avere un contraltare.