Painkiller.

C’è bisogno di una tromba. Calda. Di una vetrata new-yorkese. Di luci fuori e candele dentro, sebbene la cera mi irriti e così pure quelli che spandono lumi per tutta la casa: non c’è nulla di più tragico di un tentativo di creare un’atmosfera sensuale. Mi hanno sempre fatto girare la testa gli impedimenti, invece: quando non si può, quando non si deve, quando è quello sbagliato. Ci vuole lo swing, lasciamo Diana Krall a chi pensa che basti essere molto intonati per fare un disco.

C’è bisogno di amiche, di quelle che dicono la verità. Di giornali vacui e pieni di figure, zeppi di personaggi che non hanno mai contato o detto nulla, e anche quello è importante. Di una vista, qualunque, su una grande città: a forza di vivere in piccole cittadine si diventa matti, conoscere tutte le strade è come avere duecento anni. Bisognerebbe avere anche un cane di proporzioni colossali, cui confidare le proprie nefandezze.

Cerco sotto il letto, ho nascosto pillole che levino il dolore – dolcetti alle mandorle direttamente dalla Sicilia – da gustare al buio, sentendosi sgranocchiare. C’è bisogno di mangiare, che cos’è questa specie di palla di pelo nello stomaco? Che poi non siamo mica gatti, che si guariscono da soli. Ci vuole In My Arms, di Jeff Buckley.

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