Quando ero piccolina e la professoressa mi chiese se volevo il mio pen pal maschio o femmina non ebbi dubbi: femmina, dissi, esprimendo l’esatto contrario del mio desiderio. Avrei dato qualunque cosa perchè almeno uno degli adulti che avevo attorno mi affidasse un maschio, in qualche maniera, nonostante io fossi una palla, contro la mia estetica ma soprattutto la mia volontà, così avrei dovuto accettare. Mi toccò tale Maria Kele, capelli rossi, la nostra corrispondenza si esaurì in due lettere, giacchè anche lei probabilmente desiderava un ragazzino italiano focoso che la facesse sentire bella solo con lo scrivere il suo nome sulla busta. Mi mandava le lettere profumate.
Dopo poco tempo chiesi al mio compagno di classe siciliano se potevamo fare a scambio: a lui era toccato in sorte un surfista australiano in erba, quanto di meglio un’adolescente potesse sognare: a lui detti Maria, io mi tenni Stephen. Dopo una sorpresa iniziale piacevole per tutti, e grazie al mio nome di battesimo che fa tanto escort, ottenni la foto del mio amico di penna: uno schianto. Chiesi aiuto alla mamma per realizzare una foto che facesse innamorare il mio corrispondente, così come io avevo perso la trebisonda per lui, e per modernizzarmi mi portò dal parrucchiere Marzio, quello col salone più grande. Erano gli anni ottanta, ed io uscii dal portone del coiffeur con un ananas di peli in testa: da lunghi, lisci e grossi erano diventati corti sulla cima della testa, crespi e disordinati.
Avevamo creato i presupposti per cui il mio amico non solo non mi avrebbe risposto, ma avrebbe fatto vedere a tutti la foto della sua amichetta italiana, la figlia della Bestia della novella. Trascurai la vita reale, le risa dei compagni quando videro questa specie di Joey Tempest corvino rientrare in classe il giorno dopo, e mi dedicai al mio futuro marito in erba, andando in cantina a cercare le foto più carine che avevo per attaccarne una sulla lettera. Volevo sembrare magra, ma trovavo solo le foto fatte da nonno Luigi, con il flash rigorosamente e da vicino, nelle quali parevo una povera infelice. Non avevo nemmeno gli stickers a cuori, perchè mi facevano ribrezzo fin dai cinque anni.
Decisi allora di usare la foto della gita di Bressanone, avevo in testa il cappellino di Bruce Springsteen, e tre anni di meno. Compilai la mia lettera con contenuti interessanti, inventai tutto, inclusa la statura e il peso, allegai la mia fotografia di quando avevo nove anni e spedii. Non tornò mai più nulla indietro. Imputai la colpa a mia mamma e a Marzio, mi dissi che l’avevano fatto apposta perchè in caso di amorosi sensi io sarei partita per Sidney subito, per sposarmi e dopo fare all’amore, come dice il vangelo. Invece stetti a casa, e ci vollero altri quattro anni prima che cominciassi a giocare alle lingue umide.
Man mano che crescevo mi raccontavo questa storia in maniera sempre diversa: non mi ha scritto perchè sembravo una bambina di otto anni, oppure perchè si è trasferito. Oppure perchè era gay. La versione finale fu che ero stata troppo cauta, non avrei dovuto chiedere a mamma di aiutarmi e avrei dovuto mandare una foto con la spalla fuori dal maglione, come le mie amiche. E avrei anche dovuto dubitare di uno come Marzio, un uomo che taglia i capelli alle donne e dice di essere etero, difatti non ho mai, ma dico, mai più rimesso piedi in un salone: ho la mia donna di fiducia che, una volta ogni cinque o sei anni, mi spunta la chioma e mi mette il relax, sapendo che non mi deve rivolgere parola e che se taglia troppo mi vendicherò fisicamente.
Mia madre non si ricorda l’episodio e dice che con i capelli scalati (in che senso scalati? Come a Tirana?) stavo un amore. Il punto è che la storia non esiste, perchè ci ricordiamo le cose come vogliamo: enfatizziamo lati del nostro carattere a posteriori, non teniamo conto delle attenuanti (soprattutto se parliamo di altri), non sappiamo mettere le cose in un contesto o in prospettiva. Quello che per altri è vitale per noi, in quell’istante, è un dettaglio di importanza secondaria – e viceversa.
C’è oltretutto un destino tremendo per chi comincia a domandarsi cosa ha detto, perchè, e quali conseguenze avranno le sue parole, i suoi atti: il silenzio. Spesso crediamo che dietro ad un grande ascoltatore ci sia una persona generosa, attenta, quando in realtà è un povero disgraziato che sta ancora cercando di scusarsi per le parole vuote che ha blaterato, le cose senza senso che ha fatto o gli sono capitate, e non vuole mettere altra carne al fuoco. Ascoltare è come dire: vai tu, io mi giustifico a questo giro.