In macchina capisco le cose: mi metto la musica, penso, e da un cortocircuito e una canzone riesco a rinfilare il bandolo della matassa. Mi trovo in macchina sempre più spesso nelle tarde ore: questa è la stagione di stare fuori, questo è il tempo in cui il mio lavoro diventa me e viceversa; e finisco tardi. Attraversando la corta, la via piccina che collega Pieve a Nievole a Montecatini Alto, in mezzo agli olivi e con il caldo che soffia ancora sopra il braccio, rigorosamente fuori, con la mano che fa ciao ciao. Mi piace l’anello sul dito mentre suono un pianoforte che non c’è.
Guardo il quadro e guido piano, facendo attenzione a farmi superare dalle poche macchine che passano per queste viuzze odorose. Si illuminano le gabbie dei cascinali con dentro i cani maremmani e i meticci, allo stesso tempo si rinfrancano le convinzioni, si intrecciano le cose: lampi piccini mi attraversano il cervello e mi fanno capire. Ci arrivo piano, non sono un laser che taglia le cose – purtroppo. Anzi, sono lenta e incrocio i ricordi, scambio i numeri. Quella che soffre di dislessia esistenziale sono io. Quella che mentre guida sente di possedere ogni centimetro sotto le ruote, sono ancora io. Quella che pensa di essere un poco spostata, incapace di azioni oggettive, vedi sopra.
Mi sembra strano che quello che mi viene in mente di altre persone non sia sentito anche da loro: è tanto brutto dedicare una serata intera, magari, a pensare a qualcuno sapendo che sarà un’elaborazione sterile, non raccolta da quella persona. Bisognerebbe che ci fosse un posto dove una appende i pensieri e che, random, decide di consegnarli automaticamente quando vuole, quando capita, alla persona pensata. Bisognerebbe che ci fosse allegata una dichiarazione di infermità mentale unita a declinazione di ogni responsabilità: hey, ascolta, posso governare le azioni, e sempre meno, ma quello che esce lassù esce punto e basta. Questa, almeno, non è colpa mia.
Filodemo mi diceva che ogni pensiero storto è un feticcio che vogliamo adorare, quindi è colpa nostra. Ma a me questa cosa non mi ha mai convinto, anche se annuivo – io non riesco a offendere nemmeno le zàgare. Io penso invece che siamo come pentole di fagioli a bollore, che se ti dimentichi il tappo sopra lì per lì tutto cuoce bene, l’odore non si sparge, ma poi succede l’irreparabile e la broda sguiscia sulla cucina e si attacca come una colla, l’odore diventa fetore e la consistenza elegante e buffa del fagiolo diventa pappaccia, sfatta. Inutile provare a metterci il burro e farne purea, ho provato anche quella: fa schifo. Filodemo infatti a forza di evitare i ragionamenti spontanei è impazzito e si mette le havaianas a marzo, non si lava più.
Giro la macchina nel viale sbagliato, quello con le radici che sono affiorate e che non ti fanno procedere a più di un chilometro all’ora. Mi guardano i miei colleghi di novantanni seduti sulle pagline come se fossi imbecille, e infatti mi ci sento: come mai ho imboccato questa strada? E se rompo la macchina? Vado avanti piano piano, apro anche i finestrini di dietro per aumentare l’aria che passa dentro: sudo, come sempre. Ci impiego cinque minuti a fare cento metri, alla fine penso che la cosa migliore, ogni tanto, sarebbe di lasciare la macchina lì dove non riesce ad andare e infilarsi in una di queste casette, aprire una stanza a caso, buttarsi sul letto e schiacciare una dormita epocale senza pensieri la mattina dopo.
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