Di tutte le nostre grandi passioni, gli amici rappresentano quella piu’ idealizzata, piu’ potente, salvo i primi due mesi di innamoramento con il proprio ganzo o ganza. E’ per questo che forse prendiamo seriamente l’offrire, o il farsi offrire, un aperitivo; per cui controlliamo se a Natale Mario ci ha mandato la lettera con le parole carine; per cui ci scriviamo liste di nomi su ogni superficie cartacea per non incontrare nessuno, ma proprio nessuno, cui ci siamo dimenticati di spedire il telegramma per la morte dell’amato gatto Cacchio. Qualcuno utilizza le amicizie come sponda per una relazione stanca, qualcuno ha veri e propri fratelli che si e’ trovato nel corso della vita, qualcunaltro ancora idealizza i suoi compagni di vita a livelli di patologia, arrivando a teorie interpretative tolemaiche – non mi vengono a trovare perche’ mi vogliono talmente bene che non mi possono vedere piegata a tutti questi doveri, oppure, non mi chiamano perche’ sanno che per me e’ un dispiacere non potere uscire fino a tardi allora per non farmici stare male fnno finta di non uscire (qui e’ quando mio padre dice no Juanita, non gliene frega un benemerito, semplice, ma – si sa – lui e’ poeta). Io appartengo a quest’ultima categoria, anche se nel passato le ho bazzicate tutte, con l’aggravante del culto della memoria, luogo dove io storpio persone all’infinito, le rendo immense, indispensabili alla mia sopravvivenza emotiva. Per celebrare questa distorsione (celebrazione), ho bisogno di una distanza abnorme dalla loro quotidianeta’, infatti programmo le mie visite non piu’ di una volta all’anno per avere cosi’ tanto da dire da finire per non dire nulla e abbracciarsi. Io ho bisogno di contatto fisico, di lacrime, di tragedia greca o risate da infarto, di ogni volta come se fosse l’ultima, ed e’ per questo che la sola idea di vederli cosi’, smitizzati su Facebook o simili, nelle loro vicende e cose familiari quotidiane, mi ha fatto orrore dall’inizio. Non trovo nulla di strano, quindi, in questo articolo.
ig
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