Se vado all’inferno questo avrà la forma di una spiaggia con gli ombrelloni ad Agosto, ci saranno solo libri scritti a dialoghi con le virgolette e una connessione internet a 33,600 con modem difettoso – ci sarà la telecom, quindi. Infame, sempiternamente maledetta sia la Telecom e chi mi priva del mio cablaggio ottico quotidiano. L’idea della vacanza di per sè già mi atterrisce: presuppone un periodo non vacante, impegnato, ovvero distingue la vita in obbligo e divertimento, senza un continuo. Ma se a questo aggiungo la visione di migliaia di nani avvolti in crema bianca protettiva con adulti che corrono loro dietro, se richiamo ai timpani della memoria il suono stridulo delle urla subito dopo il pranzo, mi ricordo perchè promisi a me stessa di non figliare mai: l’inestetismo esistenziale si accompagna alla prole. Se poi si parla della prole altrui, si arriva all’offesa.
Non volevo diventare mamma, l’avrei fatto solo per salvare una storia che si stava chiudendo e non avevo la più pallida idea di cosa mi aspettava. Per un anno intero dall’arrivo di quella lì, così la chiamavo dentro di me, pensavo che mi sentivo violentata, stragiata, come una mucca che allatta incatenata alla griglia d’acciaio, in un allevamento intensivo senza terra. Ho perso il mio corpo, il mio numero di piedi; il mio seno bellissimo è diventato una palla doppia, dolorosa e quando si è sgonfiato ha perso turgore: non è più il tempo della canottiera senza reggiseno, e nemmeno del vestitino rosso corto di lino. Ho abbandonato il sonno pesante per sempre aprendo la porta alla preoccupazione perpetua, e mi sono trovata a desiderare la morte fisica del mio compagno affinchè comprendesse un pezzettino del mio dolore, della mia rabbia. Finchè non ci sei, non lo sai – non ne sai niente. L’unico sollievo è pensare che quelli che ti hanno abbandonato – le amiche del sabato, gli amici della montagna, la compagnia del mare – ci passeranno. E tu ne sarai fuori quando loro inizieranno la discesa verso la Caienna. E tu saprai – e loro sapranno che tu sai, più importante.
Tutto passa un giorno, e viene superato da una nuova sensazione che non voglio definire per pudore, ma che spazza via ogni livore. In quel momento si fa come i bachi pelosi: si lascia lì una pelle e si diventa un insetto volante, apparentemente più bello ma in realtà semplicemente più visibile quanto più proiettato alla morte. Non conta più tanto, a dire la verità, se non nell’ottica non vorrei lasciarlo solo, perchè esiste quella pulsione, quel delirio di emozioni che un figlio rappresenta. Questo è il momento in cui ci si gira verso i propri genitori e si piange di vergogna, di riconoscenza: ma come hanno fatto a essere così bravi? Come avete fatto a sfangare tutto? Cresce la gratitudine, la comprensione. Conta solo una cosa: che i figli stiano bene. Devono stare bene. Che mangino. Che cachino. Che possano camminare in qualche modo. Che abbiano possibilità di studiare in una scuola decorosa. Che siano capaci di guardarci negli occhi: più di tutto.
Maledetti populisti che avete la formula della famiglia perfetta, a breve succederà una rivoluzione vera, altro che tutte in piazza con le dita a forma di figa e segni della pace sulle guance: sta per arrivare il giorno in cui la gente inizia a fare quel che deve fare senza delegare agli Azzeccagarbugli. Il giorno in cui la chiesa si leva il cappello dorato e comincia ad aprire le porte delle parrocchie per farci dormire la gente che ha freddo. Arriva il tempo della responsabilità e quello della ragione, che è il vestito migliore del cuore, in cui si entra dentro questi posti dove ci sono i bambini e ce li portiamo a casa: e gli facciamo la minestra, e gli diamo gli scapaccioni, e li obblighiamo a venire la domenica dai nonni a quei pranzi terribilmente meravigliosi, per insegnargli che la famiglia non è oggettiva, ma è la percezione del dintorno. E poco male se papà è sposato con papà, quando si vogliono tanto bene – state buoni se potete, tutto il resto è vanità.