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Amore e la distruzione

“Abbracciali tutti, tutto il giorno, raccattane i panni, lavane lo sputo nel lavandino, benedici le loro tracce terrene e l’odore dei panni sporchi, fallo in silenzio e con gratitudine: potrebbero portarti tutto via” (C.J.H). 

Non hanno uno sviluppo facile quelle relazioni che iniziano come la mia, simile a molte altre; una storia che è stata una scommessa allegra, un rimbalzo da un’altra molto più lunga e all’epoca più verosimile, forse una rivalsa. Prima una grande attrazione, la convinzione che tutto si accomoda per noi giusti. Poi una bruciatura che scarnifica, un rifiuto fisico dell’altro, un ribrezzo come da una sorsata assetata e generosa di latte rancido. Infine la solitudine vera, quella che si vive in mezzo a persone di cui non sappiamo niente, aldilà di quelle poche cose che costituiscono un’unione felice come una infelice.

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Un solo dovere morale: amare.

juanita

Ho finito lo yogurt senza grassi, senza frutta, senza yogurt così come si conviene a chi effettua una lotta contro il proprio corpo per modellarlo come sui giornali. Contro ogni fisicità e corporatura, a un certo punto una persona si infila in questo percorso di controllo che porta sempre con sè conseguenze che vanno aldilà, e parecchio, della perdita di taglie: così ho fatto io tutta la vita. A tratti. Prima demolendo il mio corpo con alcol e trattorie, poi ricostruendolo – o abbacchiandolo ancora di più, chissà – negandogli (quasi) ogni piacere. Mi trovo bene in questi due estremi, per la gioia di chi non vede l’ora di darmi consigli sul metabolismo, e non so stare nel giusto mezzo. Per intendersi io, il giusto mezzo, non so nemmeno cosa sia. Dalla mia, una sola certezza: il tempo mi è favorevole, nella mia follia ho una costanza che non ho paura di definire rara.

Ho buttato la plastica leggera dello yogurt dentro il cestino della plastica con fare annoiato, in fin dei conti separare quello che non serve più e continuare a dargli una dignità mi pare un’infinita rottura di palle. Lo faccio, non sempre, ma ci provo. A dire la verità mi torna meglio la carta: non si impuzzolentisce e c’è un bidone qui sotto casa, vicino. Alla sensazione di fastidio mi fermo e mi tiro uno schiaffo da sola. Così. Pum. Nella guancia. Mi serve per svegliarmi quando metto in atto meccanismo ripetitivi e per non dimenticarmi: è la tecnica di addestramento dei delfini, pescetto quando sei bravo e schiaffetto quando sei cattivo. Funziona.

Bisogna che io trovi una goccia d’amore per quel gesto, il gettare la plastica nella plastica, altrimenti so che non durerà. Bisogna che mi ricordi che la forma segue il contenuto e che non si può bestemmiare mentre si pulisce una chiesa. Questo, per me, è il male supremo nella vita: il non avere un comportamento consistente con il proprio pensiero. Mi conosco abbastanza bene per sapere che non riesco a fare niente che non ami. Non solo. Che quando desidero ardentemente che qualcuno faccia qualcosa con me, il mio impegno deve essere quello di fargli amare quell’atto, le sue conseguenze, le sue premesse, il suo essere stesso in quella cosa, in quel fare – pensare. Altrimenti non ci riusciremo.

Ecco perchè, come tanti altri, non riesco a fare molte cose. Non sono capace di affezionarmi contemporaneamente al mio corpo e al cibo, oppure alla mia amica e al mio amico. Una cosa alla volta, finchè non si è toccato il nervo in basso e creato una reazione a catena intrisa di intenti, di volontà e amore. Una cosa alla volta. Finchè la conoscenza reciproca non ci permetterà di abbandonarci senza lasciarci mai più.

Dopo lo schiaffo prendo la scatolina dello yogurt e la tiro fuori. La metto sul tavolino. Allargo bene bene il sacchettino che prima era un pò chiuso, abortito nella sua funzione, e chiamo Mezza Pinta. Arriva di corsa, all’attenti come un piccolo generale. Che c’è mamma.  Guarda amore, voglio che tu veda questa cosa. Quando c’hai una cosina di plastica, questa roba duretta che non è trasparente, la devi mettere qui. Perchè se non la metti qui, quando sarai grande sarà lei a metterti qui. Hai capito? Si mamma. E’ importante, Cecilia, che tu significhi ogni gesto. Che tu ci trovi la felicità. Altrimenti diventerai uno di quegli storpi che sono felici solo quando fanno certe cose o stanno in certi posti.

Facciamo canestro assieme, il barattolo casca e lei lo riprende. Poi va a pigliare non so quante cose nuove e cerca di buttarle lì dentro – la spiegazione riparte, ma il concetto, credo, ha piantato un piccolo seme. La guardo sperando di avere appreso la sua lezione: oggi mi ha insegnato lo stupore, faccia numero quattro, la gioia del comprendere, faccia preferita, la soddisfazione di avere eseguito un ordine. In fin dei conti nella vita ci sono solo due strade: amare, infinitamente, ogni attimo come se fosse un dono oppure vivere il tempo che ci è dato. La prima tesi si trascina dietro un corollario difficile, la verità –  non c’è altra via. Purtroppo l’ho scoperto un pochino tardi, ma ci stiamo attrezzando per amare anche quella.