Devo controllare la mia lingua, perche’ ha un filo diretto col mio cervello e il mio cervello non ha filtri utili. Quindi quella che invita la famosa attrice C a “mangiatela una brioche che sei secca come un uscio” o che incontra Beba Marsano a colazione e urla “non ci posso credere che culo che ho” sono io. Quella che sibila “lascia in pace quel cane cavallo” a Mezza Pinta, mia figlia, in mezzo alla colazione d’essay, essente il cane uno splendido esemplare che appartiene a F, probabilmente una delle dieci persone più’ famose nel mondo, sono ancora io.
Ho dormito poco e male, quindi stamattina ho avuto piu’ vergogna del solito a portare queste stanche, ciccie membra alla colazione e in genere al cospetto dell’umanita’. A parte una signora che era qui per lavoro posso asserire con certezza di essere stata la più’ grassa degli ospiti, ed ancora con più’ precisione di essere stata l’unica a mangiare quei croissants favolosi appena sfornati con la marmellata. Otto. Che poi e’ un gatto che si morde la coda: più mi sento incerta e più mangio e più mangio e più mi sento un rottame alla deriva. Un detrito. Un’otaria arenata. Un errore.
Ora mi sono rifugiata nello studio blue, spero che il Signore abbia pieta’ e mi trasformi in un vhs, Dune magari, per non dovere affrontare la disgrazia del pranzo con mezza Hollywood e mezza Toscana, dove quella che ordina la fiorentina (“signora, ma e’ solo per due”, “appunto, me la porti pure”) sono io. L’Inglese mi guarda cosi’come i piccioni osservano i figli con un’ala sola. Ho fatto amicizia con il personale della casa, il che mi torna sempre utile quando voglio fuggire dalla porta di servizio senza salutare (mi imbarazzo e sputazzo negli addii, una cosa atroce), il che succedera’ oggi alle sette circa, prima del cocktail.
Alla spa, vestita di lana perche’ questo e’ l’unico vestitino pulito e stirato che sono riuscita a trasportare fino qui senza spiegazzarlo, e con i tacchi di ieri sera assolutamente fuori misura, mi armo di coraggio e mi siedo al tavolo dei più più più, mi hanno chiamato, hanno chiamato me: forza. C’e’ una persona molto importante per me, per noi donne, e spero di intervistarla, quindi attacco subito discorso. Sbaglio nome, ed e’ assolutamente una mia prerogativa averlo fatto con le due persone di colore presenti. Quella che ride esageratamente per l’errore sono solo io. Alzo il mento come ad iniziare un discorso, ma tanto non so cosa dire. Di’ qualcosa ti prego, di’ qualcosa. Qualunque cosa che trasudi cultura e toscanita’, che mi dia una certa aura di autorita’.
Un colpo di genio: “e’ la tua prima volta in Italia?”. “No, sto finanziando un ecovillaggio in Umbria”. Me lo merito. Insisto. “E il tuo fidanzato era quello accanto a te ieri sera?”. Ma davvero ho appena chiesto questo? Eppure non ho una storia di ritardo mentale in famiglia. “E’ il mio business partner”. Forza. Ribatto. “Io scrivo”. Ho appena detto “io scrivo”, salvatemi, qualcuno mandi un ottomano a tagliarmi la lingua, o meglio, la testa. Mi guarda con pena, affetto. Mi dice che volentieri mi raccontera’ la sua storia dopo, dice “condividere”. E’ una storia che nasce in Sierra Leone. E’ una donna straordinaria, e il Signore ha avuto pieta’ anche questa volta: mia figlia cade e si rovina le ginocchia, posso andare in camera a medicarla, scrivere le domande e tagliarmi la lingua col rasoio.