Quel monumento alla femminilità che è la mia amica P passa il fine settimana con me. Non credo che riesca a capire la gratitudine che provo dalla mia faccia sempre seria sotto l’abat-jour, o dai miei silenzi, o da nessuna delle mie espressioni fisiche, ma vorrei che mi si accendesse una spia in testa sotto la scritta io sono felice che tu sia qui, vorrei – e credo che sia chiaro – che capisse come è unico stare zitti fra umani, quale livello di intimità e affetto richieda la convivenza allegra senza parole. Mi racconterà dopo cena di quanto si stia immolando per il suo uomo, le racconterò di una delle saghe a scelta: lavoro, famiglia di origine, famiglia di elezione.
Durante la discussione io penserò che è matta a rimanere ancorata in una situazione come quella, mentre lei mi guarderà chiedendosi cosa ci faccio ancora qui se il mio fidanzato, il padre di mia figlia, vive in un’altra Nazione. Non che le risposte importino davvero, bisogna scavallare i vent’anni di amicizia per capire che esistono luoghi franchi dove si ha il diritto di rimanere le ciofeche che siamo. Non ho amiche che a quarantanni vanno in discoteca, e mi dispiace: vuole dire che ho compiuto una selezione senza nemmeno accorgermene, rastrellando persone che mi somigliano – l’inizio della vecchiaia. P ne ha, però, e questo è un buon segno se è vero che l’osmosi o la proprietà transtiva esistono.
Più di tutto ho imparato ad amare le persone che fanno scelte (per me) imprevedibili con onestà di cuore e di parola. La mia giornata è ormai uno sforzo continuo per spiegare cosa sto facendo e perchè – dove sto cercando di arrivare e il supporto che richiedo per farlo – a chi mi sta attorno: è importante non lasciare zone buie, a meno che non si stia parlando di Vizi Salvifici Che Pratichiamo Nascondendoci Da Noi Stessi, luoghi in cui la mancanza di chiarezza generi sofferenza, senso di abbandono negli altri. Specialmente se questi sono persone che dovremmo amare.
Ascolto P disattivando il mio senso critico, aprendo le porte negli orecchi e chiudendo il cancello in bocca, per non generare riscontro. La ascolto, provo almeno, indossando le sue scarpe: è importante entrare là dentro, nella sua scatola nera, per capire cosa mi sta dicendo e perchè. Non vorrei di nuovo ritrovarmi a misurare una strada di un miglio con un righello da venti centimetri, il mio, per accorgermi che la giornata è finita e non ho nemmeno la certezza che il righello sia tarato alla perfezione. Meglio una misura approssimativa, diciamo, a suon di piedi che cercano di stare allineati – e con P è difficilissimo, perchè lei ha il femori lunghissimi.