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Juanita de Paola vita piccola

Ciao, sono io

Hai controllato le bollette, hai fatto le somme e le sottrazioni, lordo meno tara uguale peso netto, ovvero quello che finisce nella vita bella: la pizza, i gelati, le tutine di cotone al mercato per la piccina, l’umido Cesar per il canino. Ti sei svegliata di notte alle tre e quarantadue, succede spesso, per valutare tutte le cose che ti faranno morire senza un soldo e abbandonata da tutti, non stai prendendo nemmeno in considerazione che un giorno qualcuno appaia e ti voglia accompagnare: a te gli uomini ti chiedono i soldi, si vede che sei forte, mica come quelle stupide che si fanno trattare bene, pagare le vacanze, regalare gli anelli, cambiare le lampadine. Te no, te sei Atlante.
Nel tragitto ai bidoni della spazzatura incontro la Diana, mi dice ‘finalmente ti sei levata i tacchi’, penso che li ho dimenticati in montagna, as you do, e che sono in terra con questi sandali da frate, mica lo trovo uno che mi voglia sposare – sono signorina – se non mi vesto un pochino elegante. “Juanita pettinati” mi ha detto mio papà subito dopo che ho partorito, con quella faccia gonfia ed i capelli unti sembravo una carcassa di balena, effettivamente. Non capisco cosa ci trovino di bello le donne nel parto, a me sembrò di morire con un petardo nel sedere, e poi la bambina non si slegava dal cordone, mi hanno tagliata dopo trenta ore e meno male che lei non ne ha risentito. Avrei voluto tanti bambini, ma quel dolore non lo voglio provare mai più. I bambini se li tirano su le donne, ma allevano anche gli uomini, una fatica che l’Everest coi tacchi è una bischerata. Sei passata nuda davanti allo specchio, dopo la doccia, e hai chiuso gli occhi, di fatto non ti sei mai spogliata davanti a nessuno.
La pancia, in basso, dopo il brutto taglio del cesareo è rimasa scollata dal corpo, una ciambella di lardo su una struttura muscolosa, forte, ma non mi metto il costume da tanti anni: mi vergogno. D’Inverno ce la faccio bene, compro le mutande con le stecche, ma d’estate il bombolone epidermico galleggia e io me ne vado in montagna invece che al mare. Hai lavorato quattordici ore. Hai sperato che lui abbia deciso di iniziare una nuova carriera come guardiano delle statue dell’isola di Pasqua, ma questo succede alle altre: tu lo campi, ne tolleri la presenza così come si fa con una recidiva, e i dottori ti dicono che ce la farai. E te dici ‘si, ma quando?’.
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Massacro

Camminiamo come due semi-morti, controllando bene la punta delle scarpe passo dopo passo: che si trovi lì il segreto di un’unione felice? “Dovremmo fare come Sarah e John”, dico “e separare famiglia e amore, fare un sacco di viaggi assieme, attività a due, ma avere un amante, quelle coppie lì”. Un paio di secondi e capisce di chi sto parlando, di loro che comprano i cd assieme, poi lei ha un ragazzo e anche lui ha un ragazzo. “Non dire cretinate”, dice. Parliamo ad un volume impercettibile, sibiliamo veleno, ci segue la piccina, che non ha bisogno di sapere, ancora, quale massacro sia avere una famiglia per chi, come noi, si è incontrato sull’isola-che-non-c’è. Ci stiamo andando a divertire, per definizione, anche se dopo dieci anni ci vogliono un sacco di soldi per fare qualcosa che rimanga impresso: quindi andiamo, come montoni al sacrificio, in un Sabato qualunque. Sarà champagne, macarons, millefeuille, carpacci, un tripudio di modernismi per borghesia benestante, quelli che diventiamo quando siamo infelici.

“Sembra di essere allo zoo sub-umano di Dubai”, dico. “Falla finita”. Sono ipnotizzata da un tavolo con sei persone identiche, e un altro tavolo con una signora bionda, bellissima, una bambolona di settant’anni coperta di animali morti. Non li ha catturati nel bosco, probabilmente, quei topi pelosi, non a mani nude, non per cuocerne le carni su un fuoco vivo dopo una battuta di caccia: li ha certamente accattati da Harrods e non ha dovuto sudare nemmeno un pochino. Se qualcuno si volesse mettere la mia (pelosa) pelliccia dovrebbe corrermi dietro almeno una notte, penso.

“Guarda che belle scarpe”, dice.

“Sembrano ortopediche, poverino, forse ha perso mezzo piede”, dico. La piccina ride, ma dice che sono di Adidas, e sono molto cool. Sembrano, sinceramente, le scarpe di uno con le moppine rimasto intrappolato sull’Etna mentre eruttava. “Costano tantissimo”, dice la delfina, con ammirazione.

Rientriamo nel silenzio cupo e livoroso, ma sorridenti: la bambina si sta divertendo e noi sembriamo bloccati da una emiparesi alla mascella. Arrivano i mini-burgers, tre pallette che unite compongono un big mac, ma separate compongono ventiquattro sterline. Ci sono anche le patatine fritte surgelate, ma tagliate diverse, meno quadrate. Altre sette sterline. Certo che ci vuole una brancata di mentecatti come noi per stare qui. Non c’è traccia di un maschio eterosessuale nel diametro di dieci miglia e questo è sempre un buon segno quando si mangia e si comprano quadri.

Gesticolando lui rovescia un bicchiere di champagne (con fragore), ce lo sostituiscono subito. Senza farcelo pagare. Gli faccio una foto con tutto il tavolo sbrodolato, dico, “Questa la uso alla prossima litigata”. Sorride. Sono una fonte inesauribile di freddure, io. “Non devo gesticolare mentre parlo”, risponde. Ce l’abbiamo fatta: sosteniamo ormai due dialoghi diversi, allo stesso tavolo, nello stesso tempo, senza interferire minimamente l’uno con l’altro. Siamo una metafora, un ologramma. Mi fa furia, dobbiamo andare a comprare un migliaio di cose per la piccina: eccoci a Golconda, ovvero i grandi magazzini. Tutto profuma di teflon, ci sono le paillettes, le farfalline, i nasi rifatti, le emanazioni umane coi capelli fatti a bitorsoli, le tiare, i droni col motore a ione, le pellicciotte fucsia, i mariti bassi con le scarpe di coccodrillo, le gemelle vestite identiche (con le farfalline, le tiare, i capelli a bitorsoli), le bocche pastose, gli stormi di pinguini ingioiellati, i giapponesi alti.

Arriva notte, ce ne usciamo con pacchi di cose, andiamo a casa. ‘Prendiamo un taxi’ dice, ‘No, autobus’, dico assertiva e ferma. Non fare con cento sterline quello che puoi fare con due, penso. Sono soddisfatta, dentro di me, io Potnia amministratrice, che tiene la sua manina ferma sui conti di casa. Sul treno, dopo il bus, incontriamo diciassettemila (per davvero) persone che erano ad una partita di rugby molto speciale, mi dicono, dove si inizia a bere la mattina e gli uomini si vestono da donna. Ballano nel compartimento, mondi di birra e gin, sembra di essere dentro una distilleria di sidro, due fermate e siamo a casa.

“Rimani giù, stasera” mi dice. In genere io salgo, di tre piani – abbiamo una casa enorme. Vado a letto alle sette e mezzo quasi ogni giorno, dopo una camomilla, e la mattina mi sveglio fresca, dimagrita e depressa come una rosa da serra. Rimango.

“Ti odio. Mi hai rubato il posto. Mi hai fatto diventare quella che tiene i conti, a me, che a dodici anni ho comprato una vasca idro-massaggio senza avere una lira (per mamma, ha pagato papà). Mi hai bloccato a casa mentre te continuavi a volare, a uscire, a fare il pazzo. A me, la perfetta miscela di Tanguy e Gay Peter Pan, a me, che ho dormito su almeno mille divani letto, mi hai relegato a donnina nel malefico talamo nuziale, mi hai fatto diventare un santino della mater cretinissima, regina della stamberga coi gerani, la cerebrolesa che sa quando finisce il detersivo per i piatti con tre giorni di anticipo. Io, voglio stare fuori. Io, voglio fare tardi. Io, voglio essere quella per cui tutti scuotono la testa, non te”. Silenzio. “E non stai nemmeno mai zitto un cazzo di minuto”. Gli dico.

Piange.

E piango anche io. Da dove arriva questa palla di caldo che sale su dai piedi e mi scoppia nella testa, uscendo dagli occhi?

“Non facciamo come John e Sarah, ti prego”. Dice.

“Mi piaci ancora”, dico. “Mi piaci ancora, sei cosi bello, ma non capisci cosa ti sto dicendo?”.

“Non ci ho mai pensato prima, ma perché non me lo hai detto?”.

Ma che ne so. Facciamo le tre. Stamani ho malditesta, non sono fresca, non sono dimagrita, sono felice come un girasole in un campo aretino sotto il sole alle tre del pomeriggio.

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Le cose dell’amore

Ho pensato alle cose dell’amore, a come si trovano nei posti dove non avevo desiderio di andare: nella troppa confidenza, nella conoscenza, nella paura di perdere le persone.

Le persone non fanno quello che gli altri si aspettano, ma quello che gli riesce. Ho imparato anche che non c’è nulla da fare a riguardo, se non ascoltare come se non si avesse nulla da insegnare, con la stessa tenerezza con cui ci assolviamo spesso, di nascosto, a letto prima di dormire.

Abbiamo siglato l’armistizio questa settimana, che vuole dire che io qualche volta esco invece di stare rintanata in casa e lui torna a casa a dormire in orari quasi compatibili, che io cucino qualcosa e lui (forse) porta la bambina a scuola così io posso lavorare, che mi fa i grattini ai piedi ma si guarda la real tv, che io parlo ma non dispongo, che lui pulisce i mozziconi di sigaretta dal terrazzo e mi lascia l’asciugamano sullo scaldino, la mattina.

Non parliamo mai di amore: quello sta sotto, che fa male, storto come una mano con l’artrite reumatoide. Non parliamo di amicizia: non siamo conoscenti, o amici di infanzia, non ci assomigliamo, a malapena ci conosciamo, è solo che ci siamo trovati qui e non c’è stato verso di uscirne. Nemmeno volendo, nemmeno a mettercisi di buzzo buono.

Ho imparato che un giorno odio e il giorno dopo, ormai, non ricordo. Che l’amore ti entra sotto pelle anche quando non lo vuoi. Che quegli altri sono sempre più bravi, meglio assortiti – loro non litigano su Trump, sulla Domenica che io non mi voglio muovere, voglio dormire, sull’Italia, su Dio, sul buddismo e anche su come si pulisce il water dietro, e i battiscopa – che se no la casa diventa una porcilaia. Gli altri viaggiano assortiti in coppia, e si fanno le foto, e noi abbiamo prenotato due vacanze diverse per lo stesso periodo senza avvertirci e ora voglio vedere chi rinuncia.

Noi siamo quelli al cui confronto le altre coppie diventano amori epici, unioni leggendarie, mentre noi speriamo ogni tanto che quell’altro muoia – senza dolore, per carità – per potere ricominciare senza senso di colpa.

<< Sai quei baci, quella sensazione di essere invincibili, la foga di sapere tutto dell’altro e quello che ti racconta non ti basta mai? Sai quando i suoi lembi sono roba da mangiare e tu hai la forchetta e la fame? Sai quando tutto attorno non c’è niente, tutto confuso, inutile? Non vorresti tornare indietro, non conoscermi?”.

Certo. Dice.

<< Non ti viene mai in mente, che so, di scaricare Tinder, di farti un profilo diverso, una vita diversa, di partire da zero in un segmento lontano, distaccato, senza conseguenze? >>.

Certo. Penso. Non ricordo cosa ha detto lui.

 

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Un amore meno bello

Questo sia l’anno in cui ci amiamo meglio gli ho scritto nel biglietto di Natale, noi che non abbiamo passatempi in comune ma non sappiamo fare nulla da soli, noi che ci siamo incontrati ed era inevitabile, ma non abbiamo ancora preso le misure.

Il nostro amore, così diverso rispetto a quello di alcuni amici o a quello che mi ero immaginata, è  profondo e radicato come una malattia ereditaria che non guarisce, stracciato come un panno per vetri dal benzinaio e forte e vile come il filo da pesca. Guardami, sono io dico spesso, quando abbiamo perso la barca, il timone e anche il mare – e lui mi trapassa, non ricorda, e nemmeno io.

Ci si ritrova per sfinimento, siamo nello stesso esercito, abbiamo fatto noi due imbecilli senza testa una cosa così grossa come un figlio, e ci stiamo ancora riprendendo. Apparecchiamo allo stesso modo, beviamo e mangiamo le solite cose, siamo due pinguini reali che seguono l’istinto e rimangono assieme, con un cervello piccolo così. Pensiamo lo stesso pensiero, poi decidiamo sempre per due strade diverse, poi ci ritroviamo alla sosta, per un bicchiere di vino.

Leggiamo sui giornali che l’intimità è importante, due volte a settimana, io non mi ricordo quando siamo stati assieme l’ultima volta e di queste cose non si parla. Ti vorrei baciare, dico, ti puoi  lavare i denti che hai il fiato di un cane? Dice di si, chiede se mi posso cambiare, sono due settimane che mi metto il solito maglione. Già. Accendi la tivù, vai.

Ti ho comprato le mutande nuove. Ascoltami, sono uscita, ho pensato a te che cammini in stanza così magro, ti ho immaginato da dietro, nero dal collo in su, bianco come una lastra di marmo sotto la camicia e i pantaloni, un samurai da autoabbronzante, ti ho visto con le mutande mezze rotte e mi sono fermata in un posto, te le ho prese nuove, mi sembra un pensiero fantastico, così stai più comodo.

Che cosa è l’amore?

Ti devo parlare, ma non vorrei  tu usassi quel che ti sto per dire contro di me al prossimo litigio. Allora non me lo dire.

Non abbiamo avuto un’epifania ad un certo punto, non abbiamo scoperto qualcosa di talmente grosso che poi tutto è cambiato, non abbiamo mai sotterrato nemmeno un’ora del nostro passato facendo finta che non esistesse, che ci fosse stato un disguido. Non abbiamo un’arma segreta con un colpo in canna, non stiamo mettendo via per la pensione perché tutti e due abbiamo sempre pensato di morire presto, sai com’è.

Non ci siamo sposati, perché io vorrei farlo di nascosto nel bosco e lui scendere da un elicottero, perché io sono tirchia e lui è generoso, e lui ha bisogno di me per mangiare e io ho bisogno di lui per vivere. Io lo chiamo mio marito, lui mi chiama la mia ragazza. È l’idea delle bomboniere, per me, insormontabile. Io non sono trombata per queste cose, non ti offendere, ti supplico.

Preghiamo di nascosto uno dall’altra. Preghiamo uno per l’altra. Sono tutti migliori di noi, pensiamo, e abbiamo sempre ragione. Noi siamo quelli che a cena servono a rinsaldare le altre coppie, che quando vanno a casa parlano di noi e ringraziano il Signore di non essere a questa maniera, poi si abbracciano e fanno il quarto figlio. Siamo i meno affiatati. Siamo due generi, specie, elementi diversi. Siamo ridicoli.

Non corriamo assieme. Non giochiamo a tennis. Siamo fuori sincrono ma ci difendiamo come due pecore circondate da un branco di lupi, controlliamo gli scontrini per vedere che non ci freghino; io gli compro il formaggio verde, lui mi compra il pollo lesso e poi io gli mangio il formaggio verde di nascosto perché non voglio ingrassare.

Io pulisco: la casa, la gente, il casino, tutto. Lui apparecchia la casa per la festa, c’è sempre tempo per un festeggiamento, basta non andare a letto, baby, la vita è così corta, per favore non andare a letto. Non siamo vecchi.

Sono un peso per te dice. Si, enorme. Ma sei veramente un bel ragazzo, sempre così elegante, mi riempi l’occhio, ridi con il fischio e quello mi fa schiantare dal ridere. Mi piaci ragazzo vecchio che non è diventato un uomo, sei come me, una ragazza che non cresce e non invecchia, Peter Pan, solo che io sono più maschia.

Siamo due creature deformi che hanno trovato un lavoro, assieme, al circo.

Ho parlato stanotte? Si, tutta la notte, come sempre. Vorrei tanto dormire. Ma hai dormito, hai russato come una vecchia balorda. Oddio! Mi dispiace, davvero? Tutte le notti. Non solo moderatamente grassa, anche sguaiata: che tragedia.

Che sia un anno pieno di questa roba, e poi molti anni, che ci assistano lassù, che ci facciano invecchiare odiandoci e amandoci, probabilmente bevendo troppo ma molto meno di quel che potremmo se non avessimo figliato, ballando sui tavoli come due idioti appena possibile, ritrovandoci mogi nel taxi nero perché domani sarà un giorno di malditesta e perché abbiamo speso troppo, nell’uber che ci riporta da lei, l’unica ragione che abbiamo trovato.

Come mi sta? Sembro finocchio? Come sempre.

Io come sto? Sembri la Navratilova.

Proteggici, sempre.

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Non succede più nulla

Pensavo all’amore.

Passata la fase in cui ci sono da scoprire cose, persone, aspetti del proprio compagno o compagna, si entra nella dimensione di lotta senza quartiere che è un rapporto di coppia esclusivo (o ritenuto tale da almeno uno dei due). Cosa ci accade, infatti, quando non succede più nulla?

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Caffè. Noi. Gli altri.

juanita

Mi piace il caffè nella tazza senza il manico, così la devo stringere come le mani di un amico cui si vuole molto bene e non posso fare altro a parte bere la miscela nera –  non posso rispondere al telefono o aiutare qualcuno a fare una cosa, raccattare pezzettini di carta o girare la pummarola, che da venti anni e passa so fare solo acquosa. Il caffè ha un effetto, quindi mi piace molto. Il vino, anche, ha un effetto intorpidente, che mi piace molto. Le cose che mi garbano di più nella vita hanno tutte consequenze indipendenti dalla mia volontà: l’eccitazione, il rimanere svegli, la rilassatezza che non ha paura dello sconforto degli ospiti, il catturare immagini che poi sono diverse da quello che era programmato, la musica che entra sotto pelle e ti ricorda senza perifrasi chi sei, cosa vuoi. Se vado all’inferno, la mia punizione sarà mangiare, bere e fare cose che non abbiano effetti evidenti. La mia medicina preferita è il Toradol. Infatti.

Adoro la prima tazza di caffè della giornata, perchè so che ne buscherò molte altre: diluite nel latte e con qualche biscotto al grano saraceno, che quando lo infili in bocca diventa una mappazza da mezzo chilo: odio la pasticceria danese, tutta secca a burrosa allo stesso tempo, che mi lascia le gote vuote. Mi piace la quantità e, come ulteriore passo, la qualità – ma lo stomaco pieno mi dice più del palato entusiasta. Oggi ho il collo bloccato dalla tensione, come al solito, perchè la domenica è il mio lunedì: è il giorno in cui gli ospiti si sistemano nelle ville che affitto e gli impianti idraulici si rompono, l’aria condizionata si inceppa, tutto quello che richiede un tecnico, se può andar male, lo farà – questo nonostante collaudi preventivi e certificazioni, perchè la Legge di Murphy c’è. Il punto è che il dio degli affitti mi vuole ricordare che non esistono gli elettricisti che lavorano la domenica –  e che io non risiedo in Olimpo City. Fair enough.

Davanti a questo caffè mi chiedi se la scelta che abbiamo fatto è stata posata, se ti amo, se mi ami, se siamo certi. La verità, quella che non vuoi sentire, è che sarebbe bastato un piccolo bruscolino per cambiare tutto. Ti ricordi quando ti ho detto che andavo a dormire da Cosa? Quella sera c’era anche Coso, no non lo sapevo, e sarebbe stato anche lui un papabile qualcuno nella mia vita se non gli fosse morto qualcuno quella sera. Destino. Oppure ti ricordi quando ti ho detto che non importava che tu ci fossi? Che era lo stesso? Non era vero, ma mi hanno tirato su, sono venuta così, cerco di non forzare mai le persone: ma meno male che c’eri. La verità è l’ultima cosa che ognuno vuole sentire, pare, e quindi rispondo bene. Come tu vuoi.

Chiedimi come mi va il caffè oggi, perchè qualche volta mi piace senza latte e senza zucchero – solo se è fatto bene. Non il mio, quindi, che fa schifo. Ho preso questo da mamma, invece che tante altre cose buone: non so fare il caffè. Ma almeno lei sa fare le lasagne, e la pasta in casa, io nemmeno quella. Camminiamo in città, mano nella mano, a difendere quello che nessuno vuole attaccare a parte noi: noi. Guardiamo la piccola che ci somiglia e ringraziamo il cielo, lo so, anche se non ci diciamo niente. Mi guardi senza parlare e mi chiedi cosa c’è che non va: nulla. Tutto. Qualcosa. Non ho certezze granitiche, e nemmeno tu se non sbaglio, allora perchè mi fai quelle domande: siamo qui ora, no?

Verso l’ultima tazza di caffè, quella della sera che non mi fa dormire, e ti chiedo di potere ascoltare Silencio. Annuisci e ti metti le cuffie per ascoltare la tua musica. Certo. Peccato che abbiamo solo due salotti – ci meriteremmo un castello: adesso andrei nella mia ala a scrivere fino alle quattro, poi starei lì sperando che tu colga il segnale, che tu mi raggiunga con un pò di pane e salame più una bottiglia di vino ottimo, per passare la notte a raccontarci la verità che non ci siamo detti: ce n’è così tanta. Brindiamo allora amore mio, siamo due poveri cosi che resistono assieme con onore, nonostante là fuori ci sia quella strada che abbiamo deciso di non percorrere: la mia verso i conigli e l’orto, la tua verso il patio bianco. Identiche sono. Identici siamo.