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Sei un povero disgraziato? Buon per te.

juanitadepaola

Gente che non sa più come fare a nascondere un patrimonio. Dieci anni fa la mia amica F se ne andava alle terme di Petriolo, aveva venti e qualcosa, in una spa, con servizio – diciamo, con slancio generoso – di lusso. Ci andava col suo fidanzatino, oggi suo marito e padre delle sue tre figlie. Lui era un piegatore seriale di magliette in centro commerciale con pettorali a forma di fesa di tacchino, lei la figlia di un grande avvocato, assieme avevano trovato lei l’ammore che si suda, lui un destino lavorativo per impiegare il suo (ancora oggi) povero cervellino. Tralascio i copiosi tradimenti, che ho scoperto essere parte integrante del tessuto matrimoniale nazionale. Andavano lieti, nella macchina rombante, broum, broum, decappottata, con la musica a caso della radio digei. Mai fidarsi di quelli che dicono io ascolto di tutto – prima di tutto non è vero, e poi se è vero c’è qualcosa di marcio.

Io ho sempre detto a F che ammiravo la leggerezza con cui lei andava a Courchevel a vedere che c’era da fare quando noi facevamo colletta per salire all’Abetone, pur sapendo alla perfezione cosa c’era. Non c’era sforzo, non c’era sfarzo: forse ha ragione chi dice che la differenza fra essere ricche e essere povere è solo scegliere le calze nuove per infilarle sotto i jeans. Mettila un pò come ti pare, coi soldini giusti si sta proprio bene se ci si sanno godere. F gustava la mia ammirazione, come una amuse bouche. Siamo ancora amiche e pure care.

Il mio amico G, invece, soffre l’avere patrimonio di famiglia. Lo patisce. Al punto che si è inventato una vita di musica alternativa e escapologie messicane che puntualmente lo riconvergono alla base, magione di duemila metri quadri sapientemente tenuta nascosta agli amici – sai, è dei miei genitori, ma io ho già rinunciato all’eredità, non me ne frega un cazzo a me. Vagli a spiegare che non è vero. G ha un gusto spiccatissimo, fra noi scherziamo e diciamo che ha già messo un piede nella stanza di là, quella dell’omosessualità – e sia chiaro che chi scrive non ha assolutamente nulla da dire in proposito. Veste raffinato, leggero, pare che non abbia mai freddo. Organizza feste a tema dove tutti, dico tutti, sono bellissimi. Gente che lo stivale con la cerniera larga non sa nemmeno dove sta.

G si fa tutte le rassegne dai titoli più pesanti e vive in una specie di pauperismo a tempo: dalle sei del pomeriggio fino alle due della notte è G che ucciderebbe pur di essere un povero disgraziato. Pur di potere pronunciare la frase No, stasera non posso venire fuori a mangiare la pizza. Non ho i soldi. Ora, lui la butta lì lo stesso. Ma per permettersi di ripetere la sequenza senza che qualcuno che ne conosce la casata gli rompa il collo, c’è bisogno di un ricambio continuo di amicizie, tutte da pescare in posti tattici. C’è bisogno ogni giorno di una persona nuova per potersi reinventare un passato da poveretto. Naturalmente G sta con una cavalla purosangue, anche lei un pò bohemienne, che studia teatro, che fuma più di quel che mangia, che d’estate non raggiunge mamma al Forte. Campeggio.

Il mio amico R, infine, è un povero disgraziato. E’ uno che gli è andato tutto male: la salute, mentale soprattutto, il tempismo, la macchina. Ha una moglie terribile – cattiva, lo odia. Vota Banana, come tutti quelli che vengono dalla medio-bassa borghesia lavorante. Non mangia pizza se va al ristorante perchè quella è roba da disgraziati, piuttosto, una bella bistecca tagliata per tutti e poi niente calzini e mutande nuove per altri sei mesi. Sogna il riscatto ma nel frattempo cerca di fare felici i suoi familiari: la cintura di Quello, le scarpe di Quell’altro – pensa che imbecille, se solo sapesse che G compra le scarpe di pannolenci da venti euro in colori improbabili solo per sembrare ancora più trascurato.

Io dico che uno pagherebbe l’altro per rubargli la vita. Non per sempre, sia chiaro. E nemmeno stilisticamente, chè quel disgraziato di R compra solo cose con le marche che si vedono bene bene. Io dico che il vicco G, per provare la gioia di sentirsi come gli altri, coi problemi di arrivare a fine mese e quella roba lì – very cool, molto ghetto, si sopporterebbe anche la spesa con la famiglia il sabato mattina, col trepperdue. R, invece, a G lo schifa. Non lo capisce e tutte le volte che lo vede ne dice nere: ma guarda se si può vedere il figlio di Coso che va a giro vestito in quella maniera. I due segmenti si sono rubati l’etica e l’estetica, il che è buffo. Sarebbe ora che se le restituissero.

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Non mi sento preparato.

Juanita De Paola

Il mio amico F mi chiama spesso per piangere: la ragazza lo ha lasciato, no, la ragazza è rimasta incinta, no anzi la ragazza ora è moglie e non sono pronto a rinunciare a tutto, anzi no, oddio lei se ne è andata e non vedo più mia figlia. Vorrei essergli di grande consolazione giacchè siamo amici, appunto, la realtà è che vorrei solo rovesciargli un secchio di sangue caldo di bue in testa. Anzi, di maiale, come nella scena regina di Carrie sguardo di Satana, l’unico libro che ho letto in vita mia senza saltare nemmeno una pagina.

La bambina ha una sequenza di foto con il papà, su facebook, nell’album “mio tesoro”. Non ci sono foto con i tre assieme, perchè probabilmente G, la ragazza ex, le ha bruciate tutte con rito animista: nulla ti mostra l’orrenda umana bruttezza come la nascita di un figlio –  il peggio, salta fuori e puzza. Lui ha continuato il calcetto, lei ha mollato la taglia quaranta e qualcosa. Lui ha riniziato la pesca e il silenzio, lei ha dovuto scoprire le tecniche per smacchiare il vomito dalle magliette di seta. Lui ha continuato a guardare le bollette come le mucche osservano i treni che passano, lei ha cominciato a scrivere sull’agenda della banca ogni euro.

Questo, se tutto è rimasto nei parametri della normalità. Perchè se vivaddio è arrivato un problema serio – la bambina con un ritardo  mentale, che so, una malattia degenerativa, o anche solo la perdita del lavoro di uno dei due – ce n’è da benedire e da santificare. Non voglio dire che lui si è infilato la tuta da coglione e lei quella da scimmia urlatrice che non si accoppia, non solo questo, certo. Lei ha smesso di ridere, ad esempio, o di mettersi le magliette senza reggiseno. Lui ha scoperto i calzini di spugna bianca. Lui ha deciso di imparare a suonare il contrabbasso, lei che non c’è più nulla da imparare, perchè la vita è finita – sono vecchia, ormai non esco più.

Fuck this shit! Ma non si può prendere alla leggera l’amico disperato, e allora lo chiamo qui, a casa. Ho un salotto ampio, con un divano immenso – ci vivo, ci leggo, ci dormo. Viene e mi racconta  la tragedia, come si è compiuta. Eppure io la amo, per me lei è ancora bellissima. Ma io pensavo che avrebbe sempre trovato il tempo per me. Ma io credevo che non sarebbe cambiato nulla. La bambina è la mia vita. I suoi genitori si mettono sempre nel mezzo. Non usciamo mai. Si lamenta sempre dei soldi. Vuole che trovi un lavoro fisso ma io in ufficio mi sento morire. E così via. Il fatto, F, è che tu eri pronto per trastullare una bambina, la tua, ma non per la sua mamma. Magari richiamala fra ventanni. Magari svegliati. Magari se le mandi cento euro al mese la bambina te la fa vedere. Magari era meglio se il servizio militare e l’economia domestica non li levavano di giro, mi pare a me.

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Attenzione ai moderati.

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Non è fastidio quello che provo a vedere gli indignati, piuttosto cerco di cacciare il pensiero maligno che mi copre il cervello, me lo avvelena: quanti di voi pagano le tasse? Quanti dei ragazzi accampati hanno le carte per potersi indignare? Ci si indigna una o due volte nella vita, e la violenza che ne deriva è infinita – mi è successo una volta che ho visto un ragazzone schiaffeggiare una ragazzina, e mi è partito il cervello; sono diventata una belva, un animale che non si ricordava di avere quella forza, quell’odio dentro di sè. Non mi piace la violenza nè le leve che la azionano dentro di me. Soprattutto: ci vogliono requisiti, per protestare? Io penso di sì. Ma “io” è una creatura che prova ad essere democratica, ed in fin dei conti la poesia porta all’umanità più delle tabelline.

Provo un piccolo brivido di piacere quando sento che Lehman and Brothers è sotto assedio di uova: loro come indegni creatori, fra gli altri, di bolle immobiliari. Loro come parte di un olimpo che prevede guadagni stratosferici senza sforzo se non il rischio di capitale di qualcun altro, loro come merde squisite. Non è un buon brivido, il mio. E’ un segnale mortifero di un piccolo scatto di insofferenza che vuole offuscare la mia capacità di giudizio tiepido, una delle mie conquiste da quando ho scoperto che accettare le opinioni altrui non è solo buona cosa, ma condizione necessaria e quasi sufficiente per potere sopravvivere nella giungla umana. Se solo quei ragazzi fossero composti, se nessuno usasse la frase “stiamo cambiando il mondo”, se non pensassero di rappresentare anche me, allora potrei parteggiare, da casa. Io padrone, voi indignati che mi mandate i curriculum  per essere assunti. Io e voi siamo simili, mai come ora, eppure siamo nemici.

“Stiamo cambiando il mondo” mi rimbalza nella testa, genera un nuovo pensiero meschino: no, state imitando i cortei dei film romatici della novelle vague. Siete ologrammi a colori degli anni sessantaotto, siete come quelli che al liceo indossano la zampa di elefante e il dolcevita nella fase di riscoperta dei Led Zeppelin: siete, come me, carne morta. Voi siete la leva emotiva su cui fa perno la destra becera, quella che “guarda che massa di coglioni a spese dello stato”. Noi siamo la leva emotiva su cui fa perno la sinistra ormai intirizzita, quella che “guarda quegli stronzi a casa a lavorare, mentre i giovani sono in piazza”. Io, piccolo borghese che prova a farcela e si vergogna della macchina senza aria condizionata e apertura centralizzata. Voi, giovani virgulti che hanno la vita davanti e la presunzione di un futuro felice. Noi siamo a dieci centimetri l’uno dall’altro, ma è come se ci fosse un grand canyon nel mezzo: le mani si toccano, ma saltare è un rischio troppo grande. “Guarda che massa di inetti, che poveracci, tutti: leviamoli di lì, non sanno fare il loro lavoro”.

Devo mettere da parte la rabbietta, l’acqua che ristagna pronta per le uova di zanzara tigre, e areare il locale. Devo areare anche il mio cuore. Dovete spalancare il cervello. Dobbiamo stropicciarci gli occhi. Dobbiamo unirci, entusiasti e moderati, per svecchiare il sistema da dentro – senza farsene accorgere. Assumersi le proprie responsabilità civili: fare l’artigiano senza pagare le tasse è la stessa cosa che avere cento giornali e mille televisioni senza pagareil dazio, cambia solo il potenziale d’acquisto. Lasciamo che i “parenti di” continuino a esportare i loro capitali a Montecarlo o in Svizzera: non hanno più una patria che non sia la banca, di essi è il regno dei morti. Ma noi siamo vivi. La rivoluzione è la qualità, la moralità che odia i moralisti, un comportamento talmente probo che chi ci governa – non ci governa, accidenti, che disgrazia – si debba vergognare. Si devono indignare, loro, di sé stessi. Riprendiamoci la legge. Pitturiamoci gli ospedali. Aggiustiamoci le scuole. Coltiviamo i nostri frutti, invece di farli arrivare dalla Nuova Zelanda. Insegnamo volontari ai bambini degli immigrati: questo è un grande popolo, non c’è nulla che non possa fare – persino aldilà dell’evidente inettitudine di “quelli”.

E voi laggiù. Attenzione, sono i moderati che rovesciano i governi e che, se vedono un ragazzone picchiare una ragazzina, fanno la bava dalla bocca. Sono quelli che non protestano che, un giorno, si girano tutti assieme e compongono un corpo pesante, con anni di rabbia sommessa. Sono i moderati che tirano fuori le ghigliottine e fanno i danni più ingenti, quando sentono che non solo si è passato il limite, ma ci si è fatto un accampamento abusivo.

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Fammi più brutta, ti prego. (Se insisti).

Juanita

Sono stata ingaggiata (e blindata) da una signorina famosa che vuole tornare in auge lasciando da parte la sua immagine di bonacciona e utilizzare l’altra sè – qualunque essa sia – e che legge il blog. Una missione a me congeniale, che mi dispiace solo perchè non ne posso parlare con sorella numero uno, alla quale affido i miei pensieri per farmeli rendere in ordine. Lavati e inamidati. Il problema della bella figliola in questione è che vuole una possibilità per dimostrare di non essere semplicemente un guscio magnifico ma di essere capace anche di pensieri, parole, opere e omissioni.

Esattamente il mio opposto problema, che più vado avanti e più penso di essermi persa qualcosa per la strada: cos’è che mi ha impedito di fare tennis? Perchè non ho bevuto succhi di frutta? Perchè non sono stata più leggera, in tutti i sensi? Mi piacerebbe ora, dico la verità, avere un passato di femminilità esercitata invece che analizzata. Quindi ora vorrei io potermi permettere una beauty-coach, una che mi si piazzi in casa e mi dica ma che cosa stai facendo, ti radi le gambe nel lavandino? Oppure che controlli i miei pasti, che mi spinga a mettere il balsamo, che mi porti dall’estetista a farmi piedi, mani, gomiti. Invece niente. Sono io a fare le raccomandazioni.

La mia cliente non ha assolutamente bisogno di me, ho provato a spiegarglielo. E’ come quelli che vanno dal dietologo per sentirsi dire mangia meno, dico, mica ci vuole un dottore. Solo che il farsi umiliare nella propria condizione di debolezza è l’unica partenza possibile per elevarsi, migliorare – in qualunque campo. Quindi partiamo proprio da questo elemento: le ho chiesto di tirare fuori tutto quello di cui si vergogna lasciando da parte gli aspetti fisici che sarebbero assolutamente pleonastici, data la sua conformazione. Ci sono volute due ore al telefono per riuscire a scovare il suo primo angolo nero – sono vendicativa. Ma questo non è un difetto, questo è un comportamento. E’ vero, mi ha detto, e c’è rimasta un pochino male. Ci siamo fermate lì, il (suo) compito della prossima settimana è mettersi allo specchio e cominciare a separare la conformazione dal comportamento. Non so dove stiamo andando a parare, io non mi assolderei mai, ma lei mi è sembrata felice.

Terminata la nostra prima sessione so che il mio compito sarà quello di investigare la sua immagine off e on-line, per allinearla alla nuova sè. Ad esempio dovranno sparire tutte le foto in cui sembra una coniglietta, posa che le viene benissimo e che, se mi venisse altrettanto bene, ma col cazzo che starei a remuginare da mane a sera su parole, opere e omissioni. Poi faremo in modo di vestirci come se ci fosse un domani. Faremo buone cose, attività umanitarie, per acquisire il glow di Angelina: non c’è rimedio, bisogna sperimentare l’altrui infelicità per diventare feconde, belle, eterne. Impareremo una seconda lingua molto bene, oltre all’Italiano, perchè bene o male i giornali vanno letti – se no poi ti portano il Tapiro. Poi allestiremo una pagina web interattiva – andremo a sbirciare i siti di Bjork e Madonna, di sicuro. Probabilmente anche quello di Sofia Coppola, se ce l’ha.

Finita la prima fase avremo creato i presupposti per comunicare, in maniera appropriata, quello che si vuole. Non ci saranno capezzoli volanti, pose da garage, bocche ammiccanti o sguardi orgasmici: ci sarà lei, punto. E lei è, come le ho detto, persona generosa nascosta nel corpo di cat woman. Nella seconda fase prenderemo lezioni di galateo, bon ton, e ripetizioni di italiano: oggi la grammatica è in mano a così poche persone che, chi ce l’ha, la usa come lo speed. Abbiamo accordato anche i seguenti acquisti: un viaggio a Berlino. La biografia di Jackie Kennedy. Un soggiorno in Toscana. Nella terza fase verificheremo se avere annullato ogni possibilità di scorciatoia erotica le avrà regalato quello che cercava: ascolto, a prescindere da quello che indossa. Nella quarta lei sarà di nuovo su un calendario col sedere in fuori e io starò facendo la dieta Pierre Dukan per vedere se mi riesce di somigliarle almeno un pochino.

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La vera febbre del sabato sera.

Juanita de Paola

A forza di chiudere i boxini delle pubblicità in alto sulla finestra di facebook ed indicarne la ragione come “è offensivo”, ho confuso l’algoritmo, che mi propone honda civics rosse usate con motore turbolento, t-shirts con le parolacce e  concorsi di Lufthansa. Certe volte ci capito sopra per vedere cosa si nasconde dietro l’icona –  vogliono che salvi qualche cellula staminale a San Marino, dico io, tanto tanto a Torino, o a Pompei, ma a San Marino no – , le guardo con lo stesso entusiasmo di B, il bambino che a otto anni ha già visto i suoi genitori sposarsi tre volte con persone diverse. Nelle fotografie fatte dalla mia amica che riprende tutte le persone in vista  – oggi sono tutti importanti, quelli che fanno i tappini di gomma, quelli che stampano i tondini di cemento – si vede B che batte le manine con gli occhi morti di un varano.

La famiglia non è più quella delle fiabe di quando ce le raccontavano, è invece un tessuto connettore di persone sempre più diverse, più tolleranti nel migliore dei casi, e più inclini ad allontanarsi. Non esistono nemmeno i bei tempi andati, sono solo un trucchetto del nostro cervello affinchè si smetta di dargli il tormento con nuove spinte, nuove pulsioni: l’allarme dovrebbe suonare ogni volta che cerchiamo di ripetere sensazioni piacevoli del passato, dovrebbe bruciarci un dito all’improvviso, così ci ricorderemmo. Che dicevo? Ah. La famiglia. Non prendo la mia ad esempio, perchè peggio di me e dell’inglese credo che abbiano fatto solo Squitieri e la Cardinale, ma in genere è tutto aperto, espanso come gli elettroni negli orbitali, sparso come i bastoncini del Mikado.

Quella che negli anni ottanta era chiamata la famiglia allargata oggi è un esempio di (dolore e) civiltà che convivono assieme, perchè chi ne era parte ieri lo è anche oggi e non può essere altrimenti, ma il cervello si farebbe venire un buco nel mezzo pur di non dovere essere sottoposto a variazione, cambiamento. Nel confronto con la famiglia tradizionale pare quasi che il destino si stia divertendo a promuovere questo nuovo nucleo partecipato, meno violento, incestuoso, infognante dell’altro: Sarah Scazzi docet.

La famiglia che parte all’avventura con la macchina per fermarsi al baracchino del panino la domenica si vede solo nei film di Virzì – e chi ci sale in macchina con una moglie senza avere prenotato? Davanti al tabacchino stasera ce n’era una che aspettava il marito in macchina, aveva una faccia truce, crudele: povera coppia, destinata ad una cena di coppie, soporifera come il farsi i peli con la pinzetta – meno male che c’è il dolore, se no la gente ci schianterebbe per la noia. Entro dentro al circolino per vedere se c’è P, lo volevo salutare. C’è una famiglia invece, anche lì, e sembrano disperati. Possibile che l’unico sistema per amare intensamente le persone sia non doverci passare il sabato sera?