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Juanita de Paola vita piccola

Attenti alle cose immonde, alle belve che pungono e al brodo

Passeggio lentamente, con i piedi gonfi e le palpebre pesanti, voglio andare a letto. Dietro l’angolo della grande casa abbandonata di pietra, appena sotto quella della signora ancora allegra, sul dirizzone che porta al bosco, vedo un corpo disteso e urlo – invece il ragazzo è ancora vivo,  guarda le stelle. Mi saluta salvesignora, e dopo poco si fa presente anche una lei, distesa vicino, ‘sera, dice, flebile come se fosse alta un metro. Sorrido di nascosto, non imbarazzo i bambini che si tengono la mano, quasi corro via con gli stivali nello zaino.

L’odore di erba tagliata è forte, la pietra sotto i piedi è calda, c’è un soffio di aria che mi devia al giardino con le lucine natalizie e l’acqua che scorre. Massima attenzione a non pestare cose immonde o bestie velenose. Da piccola guardavo la vite con il naso in su e mi è cascata una lucertola in bocca. Una volta mi sono seduta su un ragno e mi ha martoriato una mela del sedere, ci ho messo un mese e gli antibiotici a farmelo passare. Inseguendo un cane, un’altra volta, ho strusciato forte una caviglia contro un muro basso, che mi ha fatto male più di quando i lacci dei pattini a rotelle mi aprivano le piaghe nella pelle, insomma: la natura sempre matrigna.

Mi scrive un vecchio amore, chiede come sto. Rispondo bene, e tu? ma non mi interessa; si apre la forra, volano gli spiriti dei morti, le parole non finiscono più – male lui, male loro. (Chissà se mi hanno preso in giro quando ero una loro anche io)Vuoi uscire, chiede, ti va? No, non ha funzionato prima che eravamo giovani e liberi, figuriamoci ora che sei diventato un totem del dio del brodo. Mi scrive che ha nuovi progetti, che sta imboccando la via giusta, penso allora che ha cinquant’anni e forse si trova in un cimitero di montagna.

Penso a quella povera ragazza che si è sposato, ai figli, al fiato di tutti e due al mattino, alle facce lunghe come ponti tibetani, ai massaggi craniali del parrucchiere che pian piano diventano l’unico contatto piacevole attorno al cervello di una donna. A lui che esce e la lascia a casa, con il telefono e le dita di un pistolero. Continuo a trotterellare verso il giardino e penso che ci vorrebbero occhi nuovi e pianeti sconosciuti, mica solo per me.

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Juanita de Paola vita piccola

Uovo

Per cucinare un uovo in camicia di forma compatta e con un ripieno piacevolmente moscio, ma non moccoloso, ci vogliono una serie di piccoli accorgimenti con cui prendere la mano e il senso dell’uovo, ovvero un orologio interno che ti fa sentire il momento opportuno per tirarlo via dall’acqua a bollore, anche a dispetto del timer.

Cucinare è opera per i diligenti. La preparazione è un’ouverture mentre la sequenza che culmina nel piatto richiede attitudine personale a seguire un preciso percorso, comunque tracciato da altri, nonché la memoria dei tempi, il rispetto delle dosi, l’utilizzo di temperature e metodi di cottura che funzionino. Per questo motivo e per la mancanza di tempo, che caratterizza i miei giorni da quando ho iniziato ad ingozzarmi di lavoro, cucinare è qualcosa in cui non mi trovo a mio agio – come guidare, parcheggiare, andare alle feste, pranzare con persone che non mi abbiano fatto innamorare almeno una volta, appaiare colori, mettermi in costume, parlare al telefono e molto altro.

L’uovo affrittellato è diverso, elementare come bere il caffè espresso al bar, simpatico e volgare come una scarpa alta con la zeppa o un paio di zoccoletti sotto delle caviglie forti. Fritto col pomodoro, poi, ricorda il disegnare all’asilo: tutti ti dicono bravo, ma tu sai bene di avere fatto un pastrocchio e va bene così.

L’omelette prende da subito una piega pop da canzoncina estiva, con quella consistenza idiota che recupera dignità solo con qualche erbetta e una dose abbondante di sottilette o fontina (per gli esperti che non si fanno venire un attacco di ansia al bancone del formaggio – troppa scelta, troppi colori e tagli, praticamente un lavoro non retribuito). Comunque sciapa, tragicamente porosa, non ci sono dubbi che in questa epoca di timidezza esistenziale l’omelette raccolga grande consenso dalle folle ignoranti che, su su dalla fogna puzzolente delle loro rabbie sommesse, sono venute a ricordarci il suono perfetto del latino, la grazia secca della compostezza, la consistenza lenitiva della frittata di pasta dopo una cena annaffiata (tristemente) a merlot.  

Completamente diversa e titanica è infatti la frittata, untuosa e impenetrabile, ghiotta come un giornalaccio, sfumata di spessore verso l’esterno della padella, vivace come l’amore dei vent’anni, rara come le lucciole in campagna quando mani vergognose si cercano per camminare strette, spaziale come il sogno di una vita a New York, sensuale come una donna con le gambe forti.

Non ho nulla da dire sulle uova strapazzate, quelle che purtroppo mi somigliano di più: si faccia finta che non siano l’ennesimo poached-egg in salsa olandese finito male, ci si racconti la storiella dell’intento, tanto un pasticcio rimane un pasticcio. Bruttine a vedersi, possono mantenere un certo decoro fino a che non si trovino esposte vicino ad un uovo barzotto condito con una spolverata di pepe rosso, uno schiaffo morale meritato eppure doloroso.

Che c’entra: ci si prova comunque. Anzi, ci si dichiara. Ci si gira verso la tavola e si dice mi dispiace, volevo farli diversi ma mi si sono rotti i tuorli. E tutti scansano i piatti per fare posto al tuo vassoio coperto da una ciotta gialla, dicono ‘non ti preoccupare’ e se la mangiano sorridendo perché l’hai fatta tu, e ti vogliono ancora più bene, così come ai cani con tre zampe.

Ho visto donne rompere la testa d’œuf à la coque con una cucchiaiata che sembrava un test attitudinale per Guantanamo. Ho visto uomini buttare la salsa barbeque sugli ovetti di quaglia. Ho assistito al taglio di uova sode col coltello seghettato, una pletora di fette bianche, anemiche, ed il tuorlo sfarinato tutto attorno, spampanato, come un piscialetto.

Ho visto me stessa sfornare omelettes ogni Domenica mattina per poi tornare a letto e passarci un giorno intero, nella speranza di sparire per sempre pur di non dovere affrontare il mostro a sei teste che era diventata la mia vita privata. Ho visto me stessa ordinare le uova più extravaganti in qualche disgraziato hotel a cinque stelle, sperando di auto-fagocitarmi assieme al maggiordomo e agli argenti, e poi pubblicare una bella foto su Instagram senza poterci scrivere ‘aiuto, sto male’ sotto. Ma quel tempo è finito, Londra è lontanissima e io pubblico solo foto della mia faccia quando ride – ho pianto molto. Non sono (più) arrabbiata, non cerco riscatto e spero che la terra mi sia lieve mentre la cammino ancora da viva, con rinnovata gioia. All’amore, che ho trascurato per tanti anni, chiedo di tornare a trovarmi un giorno, e se dovesse succedere, vorrei che ci fossero le lucciole e il pane con la frittata.

Ho smesso definitivamente di cucinare, ma nel mio piccolo sono un mago delle uova, che preparo solo per me. Da qualche mese le prendo dal contadino e mi bevo il tuorlo arancione bello crudo, senza sale naturalmente. A quelli che preoccupati mi dicono che si può morire di salmonellosi, dico che sono cresciuta in campagna e che i batteri possenti se ne stanno negli ospedali sterilizzati, raramente nei pollai e tra gli alberi. E che si muore comunque, tanto vale godere.

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Le buone notizie che non ti ho dato

Ho dormito in ragnaia, l’annesso della casa di Vellano che fa rima col panorama, popolato da insetti ma soprattutto aracnidi di ogni forma e grandezza. Dormo spesso qui ultimamente; la verità è che pur di stare sola passerei la notte in una valigia, o dentro il frigo, o sopra la legna in garage. I neon color limone acido e violetto sono rimasti accesi fino a che il rumore delle bestie rare che popolano (anche) il giardino è sparito, oppure sono crollata e amen.

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Più a lungo possibile

Io adoro l’inverno per la sua atmosfera sospesa. È la stagione che custodisce tutti i corpi nei maglioni di lana, i fiori e i frutti nella terra, i paesaggi nella nebbia. Ci permette di stare, senza nessuna frenesia di azione. In inverno è lecito non avere niente a cui aspirare e non accorgersene nemmeno. D’inverno il mio mondo finisce dove il mio sguardo miope mi permette di vedere. Spero che duri più a lungo possibile.

Eva Meshia Bendinelli,  nata e residente a Pistoia da 35 anni, dove fa con passione l’odontoiatra, ma vorrebbe fare la danzatrice orientale. Vive con 4 gatti e 1 fidanzato paziente. Non potrebbe vivere senza poesia, sesso e musica, odia avere scadenze e la tovaglia storta – Suo il post su Facebook, Mercoledì 30 Dicembre 2015 –  Il Ministero delle Dispari Opportunità ospita donne (e uomini che parlano di donne) in gamba, illuminate, buffe, arrabbiate, sulla via del miracolo che è oggi una vita piena vissuta da donna. Qualche volta ospita anche i pensieri personali di Juanita.

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Sulla panca che scotta

Stap. Glup glup glup.

Così il vino ancora stranamente bianco a Ottobre, ma qui fa caldo, fluisce dalla bottiglia nel mio bicchiere a fine giornata – nove, dieci, undici ore di immersione totale nel mio mondo: lavoro come un cane, di solito, per non lasciare molto tempo al vacare. Il nonno mi diceva che siccome era stato svogliato gli era toccato studiare tutta la vita, e io penso di essere di quella specie lì, ma anche per il lavoro.

Il primo bicchiere per lavare via la giornata, il secondo per fare posto ai pensieri che durante il giorno mettiamo nei cassetti delle persone perbene, il terzo non si può anche se si vorrebbe.

Lavoro parecchio, oltre il limite della concentrazione, oltre l’educazione di essere in una famiglia di esseri umani che desiderano parlare, fare confusione, buttare imprevisti nel mezzo: io li odio, gli imprevisti, dai tempi del Monopoli. Parlo pochissimo. Odio le vacanze: mi è rimasta la forca, quella sì, dare buca ad un appuntamento mi dà ancora un piacere così acuto.

Ho le cuffie nuove ad alta fedeltà, così la mattina, dopo avere accompagnato la piccola creatura che è il sole dei miei giorni, posso camminare sul fiume ascoltando le cazoni al volume esagerato con i bassi a palla. Pensare che io i bambini li sopporto poco, ma quella lì, la Cecilia, è tutta un’altra storia.

Ho preparato due liste di canzoni per sfondarmi le orecchie, una si chiama “sul fiume nei giorni di pioggia” e una si chiama “sole”. Perchè io abito su un’isola, e tutto cambia se piove o no.

Chi non sta in Inghilterra pensa che il problema sia la pioggia, ma non è così, anzi: qui, quando piove, si può uscire senza ombrello. E’ un’acquetta educata e fine fine, che manco ti bagna. Non è come quando il trenta di agosto ti piglia la pioggia in Toscana, che ti devi mettere davanti al fon, alla stufa e sotto un calorifero per riprendere colore. No, non è l’acqua, ma la luce: è storta. E’ più bassa. Hai presente quando con il tuo fidanzatino le prime sere ti ritrovi ad ascoltare la musica in camera e tieni accesa solo l’abatjour? Ecco, la stessa cosa, ma tutta desaturata.

Domani c’è un playdate dopo la scuola, cioè la bimba deve andare a casa di qualcuno perchè così dicono a scuola, per socializzare. Io ho individuato la casa dove va e anche una panca lì davanti, dove aspettare – senza destare sospetto – per tutta l’ora.

Forse domani ricomincio a fumare.

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La cioncia in borsa

Quando in presenza di orso infuriato, sdraiarsi a pancia in su e fare le moine. Quando in presenza di Londra assolata, ugualmente, chiudere le veneziane tappandosi in un buco e attendere che il popolo bianco rientri in casa: così come allo straniero non è dato vedere un italiano composto sotto la pioggia torrenziale, così a noialtri immigrati non deve essere inflitta la punizione tardiva dell’estate londinese, una benedizione solo per chi ha abbracciato la religione delle flip-flops e delle callosità dure ma un disastro estetico per chi è appena ritornato (dalla Toscana) con l’aspettativa di un pò di pioggia leggera e cielo plumbeo: è tempo di lavorare. E’ tempo di stare dentro.

Talloni induriti ciabattano con dita ciccione lungo il fiume, smalti con colori da bambine, happy hours che si protraggono fino alle dieci di sera quando la piscia diventa incontenibile e le donne cominciano a cacciare il maschio stordito, l’unico disponibile alla concione fisica da queste parti.

Mi hanno cambiato il ragazzo della birra, che non bevo, ma era carino e faceva sempre l’occhietto a Cecilia. Al suo posto due parameci di parecchi metri l’uno e senza tratti somatici. Per fortuna una volta al mese arriva una squadra di rugby. Il mio amico Henry, di cui non ricordavo l’esistenza – e credo nemmeno lui la mia, ma tant’è – ieri sera mi ha comprato una bottiglia di bianco francese molto buonino, welcome back, grazie, ma chi sei? Scherzi a parte: chi sei?

La ragazza con i capelli rossi che non indossa mutande e porta i vestitini leggeri a pois si è chinata anche ieri per mettersi al sedere: nessuno vuole guardare sotto quel gonnellino, a parte me che covo la speranza di vederci un bel paio di spantex. Macchè. La chiamano la signorina allenamento (Ms Training) perchè a lei si deve lo svezzamento di qualcheduno di questi carciofi. E sai non si direbbe: secchina, bellina a quella maniera, senza trucco, coi capellini pettinati – queste cose te l’aspetti dalle golosacce.

Stasera esco. Ho scaricato l’applicazione che ti permette di inserire la tua partenza e la destinazione e ti guida dove devi arrivare con semplici indicazioni adatte alle femmine: “prendi il bus numero 12, conta dieci minuti, scendi, girati, cammina alla fermata, monta sul tube giallo e scendi dopo 8 fermate”: una pacchia, perchè il mio problema più grande – non solo in questo dipartimento, non solo qui – è che scambio i numeri e le lettere, per cui il treno numero sette delle due e mezzo diretto a Ladbroke diventa automaticamente l’autobus numero due che alle sette e mezzo arriva a Landott. Mi perdo. Piango. L’anno scorso sono andata a prendere la Barbarina all’aeroporto il giorno prima: arrivava il 19 alle 18, sono andata il 18 alle 19.

Stasera gli amici mi danno il benvenuto e mi hanno cucinato il ragù, che poi c’è da spiegargli che io è da quattro anni che non ceno, ma non importa, mi infilerò gli spaghetti nelle maniche o dentro le tasche come al solito. Spero che ci sia il vino rosso. Mi ricordo quando ho infilato due piatti di cioncia nella borsa, e l’agenda che ha puzzato di maiale per un anno.

Si riparte.

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Non mi sento preparato.

Juanita De Paola

Il mio amico F mi chiama spesso per piangere: la ragazza lo ha lasciato, no, la ragazza è rimasta incinta, no anzi la ragazza ora è moglie e non sono pronto a rinunciare a tutto, anzi no, oddio lei se ne è andata e non vedo più mia figlia. Vorrei essergli di grande consolazione giacchè siamo amici, appunto, la realtà è che vorrei solo rovesciargli un secchio di sangue caldo di bue in testa. Anzi, di maiale, come nella scena regina di Carrie sguardo di Satana, l’unico libro che ho letto in vita mia senza saltare nemmeno una pagina.

La bambina ha una sequenza di foto con il papà, su facebook, nell’album “mio tesoro”. Non ci sono foto con i tre assieme, perchè probabilmente G, la ragazza ex, le ha bruciate tutte con rito animista: nulla ti mostra l’orrenda umana bruttezza come la nascita di un figlio –  il peggio, salta fuori e puzza. Lui ha continuato il calcetto, lei ha mollato la taglia quaranta e qualcosa. Lui ha riniziato la pesca e il silenzio, lei ha dovuto scoprire le tecniche per smacchiare il vomito dalle magliette di seta. Lui ha continuato a guardare le bollette come le mucche osservano i treni che passano, lei ha cominciato a scrivere sull’agenda della banca ogni euro.

Questo, se tutto è rimasto nei parametri della normalità. Perchè se vivaddio è arrivato un problema serio – la bambina con un ritardo  mentale, che so, una malattia degenerativa, o anche solo la perdita del lavoro di uno dei due – ce n’è da benedire e da santificare. Non voglio dire che lui si è infilato la tuta da coglione e lei quella da scimmia urlatrice che non si accoppia, non solo questo, certo. Lei ha smesso di ridere, ad esempio, o di mettersi le magliette senza reggiseno. Lui ha scoperto i calzini di spugna bianca. Lui ha deciso di imparare a suonare il contrabbasso, lei che non c’è più nulla da imparare, perchè la vita è finita – sono vecchia, ormai non esco più.

Fuck this shit! Ma non si può prendere alla leggera l’amico disperato, e allora lo chiamo qui, a casa. Ho un salotto ampio, con un divano immenso – ci vivo, ci leggo, ci dormo. Viene e mi racconta  la tragedia, come si è compiuta. Eppure io la amo, per me lei è ancora bellissima. Ma io pensavo che avrebbe sempre trovato il tempo per me. Ma io credevo che non sarebbe cambiato nulla. La bambina è la mia vita. I suoi genitori si mettono sempre nel mezzo. Non usciamo mai. Si lamenta sempre dei soldi. Vuole che trovi un lavoro fisso ma io in ufficio mi sento morire. E così via. Il fatto, F, è che tu eri pronto per trastullare una bambina, la tua, ma non per la sua mamma. Magari richiamala fra ventanni. Magari svegliati. Magari se le mandi cento euro al mese la bambina te la fa vedere. Magari era meglio se il servizio militare e l’economia domestica non li levavano di giro, mi pare a me.

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Fzzz, fzzz, aggiustare la frequenza di ascolto.

juanita

Quel monumento alla femminilità che è la mia amica P passa il fine settimana con me. Non credo che riesca a capire la gratitudine che provo dalla mia faccia sempre seria sotto l’abat-jour, o dai miei silenzi, o da nessuna delle mie espressioni fisiche, ma vorrei che mi si accendesse una spia in testa sotto la scritta io sono felice che tu sia qui, vorrei – e credo che sia chiaro – che capisse come è unico stare zitti fra umani, quale livello di intimità e affetto richieda la convivenza allegra senza parole. Mi racconterà dopo cena di quanto si stia immolando per il suo uomo, le racconterò di una delle saghe a scelta: lavoro, famiglia di origine, famiglia di elezione.

Durante la discussione io penserò che è matta a rimanere ancorata in una situazione come quella, mentre lei mi guarderà chiedendosi cosa ci faccio ancora qui se il mio fidanzato, il padre di mia figlia, vive in un’altra Nazione. Non che le risposte importino davvero, bisogna scavallare i vent’anni di amicizia per capire che esistono luoghi franchi dove si ha il diritto di rimanere le ciofeche che siamo. Non ho amiche che a quarantanni vanno in discoteca, e mi dispiace: vuole dire che ho compiuto una selezione senza nemmeno accorgermene, rastrellando persone che mi somigliano – l’inizio della vecchiaia. P ne ha, però, e questo è un buon segno se è vero che l’osmosi o la proprietà transtiva esistono.

Più di tutto ho imparato ad amare le persone che fanno scelte (per me) imprevedibili con onestà di cuore e di parola. La mia giornata è ormai uno sforzo continuo per spiegare cosa sto facendo e perchè – dove sto cercando di arrivare e il supporto che richiedo per farlo – a chi mi sta attorno: è importante non lasciare zone buie, a meno che non si stia parlando di Vizi Salvifici Che Pratichiamo Nascondendoci Da Noi Stessi, luoghi in cui la mancanza di chiarezza generi sofferenza, senso di abbandono negli altri. Specialmente se questi sono persone che dovremmo amare.

Ascolto P disattivando il mio senso critico, aprendo le porte negli orecchi e chiudendo il cancello in bocca, per non generare riscontro. La ascolto, provo almeno, indossando le sue scarpe: è importante entrare là dentro, nella sua scatola nera, per capire cosa mi sta dicendo e perchè. Non vorrei di nuovo ritrovarmi a misurare una strada di un miglio con un righello da venti centimetri, il mio, per accorgermi che la giornata è finita e non ho nemmeno la certezza che il righello sia tarato alla perfezione. Meglio una misura approssimativa, diciamo, a suon di piedi che cercano di stare allineati – e con P è difficilissimo, perchè lei ha il femori lunghissimi.

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Attento: quella è una brutta strega!

Luis Ricardo Falero, Departure of witches

Finchè gli uomini immagineranno le streghe come donne belle capaci di stordire i loro sensi con le loro forme e morbide e disarmanti sorrisi, non ce ne sarà mai uno che non desidererà di dannarsi l’anima con le moine sorridenti della prima che gliela chiederà.

By Antonella

 

 

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And the Oscar goes to.

Juanita

Mando uno dei miei messaggi che vengono dal centro sensi di colpa. C’è una muscolatura poco simpatica dentro di me che fa un unico sforzo: attirare esseri umani e le di loro confidenze presso di me. Se faccio un colloquio di lavoro, indipendentemente che sia dalla parte dell’intervistatore o dell’intervistato, l’altra persona mi racconta tutto. Sgrana gli occhi in senso di sorpresa, ma sono io quello che sta confessando di avere lasciato il passato incarico perchè mi sono accoppiato alla stagista? Oppure. Sono io quella che parla di karate come disciplina esistenziale dopo che mio marito è scappato di casa? Immagino le loro riflessioni, dopo.

Eppure, là sotto, esiste un recipiente pronto a ricevere la confidenza e archiviarla, per poi non mai più parlarne. Una scatola grata. Ogni volta che il coperchio si alza inizia una nuova vita, fatta delle luci in cucina di qualcun altro, del suo dolore o della sua gioia e non dei fatti miei: grazie, allora, per avermi distratto dalla mia personale boccetta di mediocrità. Certo, qualche volta vorrei essere sordomuta. Il centro mi manda un’allerta e mi ricorda che mi sono sbilanciata verso questa creatura di magnifica fattura e il suo altrettanto splendido metà, dopo una bella chiacchierata, dicendo loro che mi sarei presentata presso qualche posto, per bere un caffè. Un caffè americano, non un bicchiere di vino perchè ora mi sono privata di tutti i piaceri della vita. M’è venuta così.

Sono passati due mesi e ancora non ce l’ho fatta: la loro purezza, bellezza fisica, mi annienta. Il fatto che non si levino le manine da dentro le manine, che siano geneticamente stati premiati nella vita e che, oltre a questo, siano stati benedetti da grande ricchezza, mi lascia lì come la prima volta che capisci che non è comprarla la casa, che ti leva l’animo, ma mantenerla in piedi. Non che io lo sappia di preciso, io non possiedo per non essere posseduta – Dove la parcheggio? E chi la pulisce? E dove custodisco le pietre? Non fa per me. Piuttosto, partiamo domani per un anno, guarda dove sono i passaporti.

Stanotte pensavo a lei, che sembra un angelo. Ma anche un diavoletto perchè ha le fossette. Che ha gambe lunghissime. E a lui, che sembra la bella copia di James Franco. Pensavo a loro, al loro senso dell’autunno chiusi in casa a fare i porcaccioni col permesso dei genitori tutti, perchè ora sono una famiglia. Ripensavo a lei a quando mi ha detto ma il caffè prendiamolo in villa da me. Non era da te, prima, ma ora è tuo. Perchè gli uomini ti concedono tutto purchè tu arrivi al momento giusto o nulla, anche, se si sono stufati. Ma ora è tuo. E allora goditelo, e domani vedo di arrivare. Perchè tu non c’entri nulla con la mia storia personale e sei un fiore. E quanto sono meschina a pensare sempre a me, solo a me, a cosa mi è successo. A perchè me l’hanno fatto. Il punto è questo: probabilmente, mentre lo facevano, a me non ci pensavano nemmeno – ed è questo il pensiero forse più indigeribile.

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Un solo modo per arrivare lassù.

Robin Roberto Ciasca

Da piccola non perdevo una puntata della saga fumettistica di Dago, una creazione di Robin Wood e Alberto Salinas che è titanica per contenuti e disegno. Dago è l’uomo ideale, con la sua bellezza ruvida, l’onestà brutale e soprattutto la sua evanescenza: una sera ti guarda da dietro una candela come se non ci fosse domani, il giorno dopo guida le truppe nel deserto – perchè lui quello fa, è un eroe condottiero .

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Datemi un maschio.

Nicola Mirigliani

E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale qui su Montecatini Terme: raining cats n’ dogs màa, direbbe mia figlia Mezza Pinta che parla l’inglese come gli immigrati di Brooklyn. D’altronde suo padre viene dall’Ohio e io nacqui chez Livorno. Sarà che è Lunedì, sarà che ormai le Miss mi appaiono anche in sogno, sarà che l’arrivo di Hoara Borselli mi ha steso definitivamente – ma è vera, dico, è umana? io ho bisogno di un uomo – da scrutare, si intende. Cerco di intercettare Nicola, capo della web-tv e specialista in dribblamento della mia sottoscritta (bellissima) persona: ha un talento particolare, come io mi paleso in una stanza lui si smaterializza e mediante i bocchettoni dell’aria condizionata si ricompone a un miglio marino da qui. Ho assi nella manica e qualche conoscenza importante qui, per esempio la barista, quindi mi apposto tutta vestita di nero nel corridoio che porta alla stanza Rai, dove sta affisso il cartellone “a nana càa macchina fotografica nun entra” con la mia foto. Passa il direttore dei lavori e tocca la colonna di ferro. Passano le costumiste e incrociano le dita dietro la schiena. Finalmente passa anche Nicola e con un sorriso a denti spiegati, tutti e venti quelli che mi sono rimasti in bocca, lo fermo hai mica mezzora per me? Mi guarda atterrito, oltretutto c’è pochissima luce. Venti minuti? Dieci? Assolutamente, risponde. Quindi andiamo al bar, dove conto di fare ottima impressione chiamando la barista per nome.

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Fatiche della massaia.

Pierre-Bonnaud-Salome

Ci sono dei lavori domestici faticosi che però danno grande soddisfazione. Poi, stanche ma compiaciute, ci sediamo ad ammirare il risultato.

[Pierre-Bonnaud, Salome, by Antonella Fabriani Rojas]

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Primo giorno di Avvento.

Patrizia Mirigliani

Primo giorno dall’Avvento delle Miss e decimo dalla costruzione del totem di ringraziamento del mio amico R, abitante di Montecatini Terme, il quale non ha mai visto così tanta grazia tutta assieme. La cittadinanza aspetta che le bimbe sfilino qua e là con la stesso malcelato entusiasmo di chi ha fatto sei al superenalotto e non lo vuole dire ai parenti. Fremiti di emozione, gente che casca di bicicletta sporgendo il collo, insospettabili con macchinette digitali che spuntano dalle tasche, chè non si sa mai. Il vantaggio inatteso del Concorso dei Concorsi, quello per incoronare la ragazza più bella che ci sia, è che basta infilarsi un vestitino frou-frou camminando downtown, un paio di tacchi e tutte le teste si girano – per vedere se è lei, se è una sola, se sono tutte. La popolazione delle donne con giro vita superiore al torace ringrazia, sentitamente, sperando nell’osmosi fisica.

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Un attimino, sono pronta.

Puoi passare un pomeriggio a truccarti ed acconciarti, ma se mentre ti avvii ad uscire trovi uno specchio o un vetro che rifletta bene la tua immagine, quello è il momento più importante ed utile del capolavoro che hai fatto di te.

Antonella Fabriani Rojas

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Non è invidia.

John  Singer Sargent, portrait of Virginia Amelie Avegno Gautreau, called Madame X.jpg

Bella, fine, corteggiata, ricca, ben sposata, elegante, famosa, colta.  Secondo me aveva l’orlo dell’abito un po’ sfilacciato.

John  Singer Sargent, portrait of Virginia Amelie Avegno Gautreau, called Madame X – by Antonella Fabriani Rojas

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Ostaggio.

brufolazzi

Sono ostaggio di mia figlia Mezza Pinta – ovvero della banda di adulti che qui sono impegnati ad asservirne i desideri. E vuoi i cartoni? E tesoro vuoi che camminiamo fino al parco? E ciccina ti andrebbero le pizzette sulla griglia e il gelato al caramello? La bambina, bersagliata di domande e offerte, è completamente rincorbellita e piange ad ogni schioccare di dita. Mi odiano tutti, in genere, ma oggi di più perchè ho fatto saltare la piscina alla fanciulla, povero cuore: avevo voglia di ronfare sul divano, sudare, appiccicarmi i capelli sulla guancia. No guys, I don’t want to go to the bloody pool, it’s my f** holidays too. Rivendico il diritto di essere una creatura spregevole, che antepone sè stessa al rinfrescamento della figlia, per una settimana all’anno.

Per dimostrarmi continuo disappunto, a turno hanno chiamato la signora della piscina, no we can’t come, sorry, con lo stesso tono dei piloti di Enola Gay – yes, we are bombarding in ten, nine, eight. C’hanno il muso. Hanno praticato musica anni ottanta per il pomeriggio e acquietato la mia adorata Radio Toscana Classica, che quassù si sente con 93 punto qualcosa. La bambina, forte del supporto di cento maschi che non se ne fa uno perbenino a mescolarli assieme, mi ha parlato tutto il pomeriggio e mi ha riempito di bacini, leccatine, pizzicotti e tutto quello che serve a disturbare la visione di National Geographic “Zanzare Tigre contro Ciabatte di Suora”. Uno ha persino fatto finta di andare a fare la spesa ed è andato alla piscina, probabilmente per dire che razza di maledetta sono.

Si rompono le amicizie per i bambini, che diventano nano estensioni delle nostre peggiori abitudini: quello che salta a tavola, quella che urla e va accontentata, i gemelli che dipingono le mura degli altri coi pennarelli. Piccoli re senza trono ma con un sacco di trombette. La mia povera figlia, cui viene impedito di annoiarsi e creare qualcosa col suo cervellino. La figlia della moglie di Coso, la cui maleducazione è superata solo dalla voglia della madre di sistemarsi nell’alta società. Il figlio di Cosa, che tira i pugni a me e agli altri bambini, mentre la mamma con tono mellifluo lo redarguisce col sorriso.

Bambini che hanno finalmente il diritto di fare quello che a noi non è stato concesso: masticare cingommi di un chilo, alzarsi e rialzarsi dal tavolo, urlare, fare i capricci. E noi, bamboccioni, dietro a questi nani malefici cui è stata regalata la triade dei desideri di Aladino – Avete il menù bambini? Signora, siamo in Toscana, i bambini li tolleriamo purchè mangino il cinghiale. Mi spiace, oggi niente piscina. Sono disposta a sorbirmi l’ostracismo e il malumore, persino la play list dell’Inglese. Quello che proprio non potrei tollerare da viva, è vedere la trasformazione della piccola bambina in un grande problema con la frangetta. Metti in fila, baby, queste sono le vacanze della mamma.

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L’ospite è sacro.

baccanale

“Ma certo, cari, fate come se foste a casa vostra!”. (George Barbier, Baccanale – Antonella Fabriani Rojas)

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Fammi più brutta, ti prego. (Se insisti).

Juanita

Sono stata ingaggiata (e blindata) da una signorina famosa che vuole tornare in auge lasciando da parte la sua immagine di bonacciona e utilizzare l’altra sè – qualunque essa sia – e che legge il blog. Una missione a me congeniale, che mi dispiace solo perchè non ne posso parlare con sorella numero uno, alla quale affido i miei pensieri per farmeli rendere in ordine. Lavati e inamidati. Il problema della bella figliola in questione è che vuole una possibilità per dimostrare di non essere semplicemente un guscio magnifico ma di essere capace anche di pensieri, parole, opere e omissioni.

Esattamente il mio opposto problema, che più vado avanti e più penso di essermi persa qualcosa per la strada: cos’è che mi ha impedito di fare tennis? Perchè non ho bevuto succhi di frutta? Perchè non sono stata più leggera, in tutti i sensi? Mi piacerebbe ora, dico la verità, avere un passato di femminilità esercitata invece che analizzata. Quindi ora vorrei io potermi permettere una beauty-coach, una che mi si piazzi in casa e mi dica ma che cosa stai facendo, ti radi le gambe nel lavandino? Oppure che controlli i miei pasti, che mi spinga a mettere il balsamo, che mi porti dall’estetista a farmi piedi, mani, gomiti. Invece niente. Sono io a fare le raccomandazioni.

La mia cliente non ha assolutamente bisogno di me, ho provato a spiegarglielo. E’ come quelli che vanno dal dietologo per sentirsi dire mangia meno, dico, mica ci vuole un dottore. Solo che il farsi umiliare nella propria condizione di debolezza è l’unica partenza possibile per elevarsi, migliorare – in qualunque campo. Quindi partiamo proprio da questo elemento: le ho chiesto di tirare fuori tutto quello di cui si vergogna lasciando da parte gli aspetti fisici che sarebbero assolutamente pleonastici, data la sua conformazione. Ci sono volute due ore al telefono per riuscire a scovare il suo primo angolo nero – sono vendicativa. Ma questo non è un difetto, questo è un comportamento. E’ vero, mi ha detto, e c’è rimasta un pochino male. Ci siamo fermate lì, il (suo) compito della prossima settimana è mettersi allo specchio e cominciare a separare la conformazione dal comportamento. Non so dove stiamo andando a parare, io non mi assolderei mai, ma lei mi è sembrata felice.

Terminata la nostra prima sessione so che il mio compito sarà quello di investigare la sua immagine off e on-line, per allinearla alla nuova sè. Ad esempio dovranno sparire tutte le foto in cui sembra una coniglietta, posa che le viene benissimo e che, se mi venisse altrettanto bene, ma col cazzo che starei a remuginare da mane a sera su parole, opere e omissioni. Poi faremo in modo di vestirci come se ci fosse un domani. Faremo buone cose, attività umanitarie, per acquisire il glow di Angelina: non c’è rimedio, bisogna sperimentare l’altrui infelicità per diventare feconde, belle, eterne. Impareremo una seconda lingua molto bene, oltre all’Italiano, perchè bene o male i giornali vanno letti – se no poi ti portano il Tapiro. Poi allestiremo una pagina web interattiva – andremo a sbirciare i siti di Bjork e Madonna, di sicuro. Probabilmente anche quello di Sofia Coppola, se ce l’ha.

Finita la prima fase avremo creato i presupposti per comunicare, in maniera appropriata, quello che si vuole. Non ci saranno capezzoli volanti, pose da garage, bocche ammiccanti o sguardi orgasmici: ci sarà lei, punto. E lei è, come le ho detto, persona generosa nascosta nel corpo di cat woman. Nella seconda fase prenderemo lezioni di galateo, bon ton, e ripetizioni di italiano: oggi la grammatica è in mano a così poche persone che, chi ce l’ha, la usa come lo speed. Abbiamo accordato anche i seguenti acquisti: un viaggio a Berlino. La biografia di Jackie Kennedy. Un soggiorno in Toscana. Nella terza fase verificheremo se avere annullato ogni possibilità di scorciatoia erotica le avrà regalato quello che cercava: ascolto, a prescindere da quello che indossa. Nella quarta lei sarà di nuovo su un calendario col sedere in fuori e io starò facendo la dieta Pierre Dukan per vedere se mi riesce di somigliarle almeno un pochino.

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Basta non sia una tisana dimagrante.

juanita

“Passa un buon inverno”, mi dici. Mi sembra un buon augurio, in fin dei conti il mondo appartiene a chi è felice il lunedì o non aspetta l’estate per ballare su una spiaggia. E’ una frase che non vedo l’ora di dire ai miei figli, spero di averne altri nove, affinchè tutti mi detestino assieme dopo che sono morta – che non si sentano mai soli in questo, che sappiano che razza di ciofega avevano per progenitrice. Mi parli come se la sapessi lunga, e forse c’hai ragione. Una delle cose che noi donne facciamo è accasarci, non necessariamente con un uomo, e dimenticare che teppiste siamo state, quanto in basso si sia scese per trascorrere un discreto dopo cena. Qualcuna di noi si trasfigura nella casa, mi ci vedo quando pulisco il gabinetto con il bruschino per eliminare gli aloni, altre nel volontariato cellulitico, la maggioranza nella sindrome del triplo controllo – casa pulita, capelli fatti, vagina asciutta. Io no, non lo dimentico che ho compicciato, e forse mi si legge negli occhi.

L’inverno è straordinario perchè Chet Baker suona sempre come se fosse il 23 di Dicembre e perchè la luce è più gentile. Un mio amico che fa finta di avere una moglie – e lei, che fa? – mi conferma che l’estate è mortifera: tutta quella pelle scoperta non aiuta chi usa il cervello come volàno; certo, sarebbe meglio ci fosse una legge anti accoppiamento: le cose tornerebbero divertenti. Tu vuoi davvero che io passi un buon inverno, voglio dire, è questo che hai in mente mentre me lo auguri? Io penso di sì. Quindi aspettate un’altra bambina, cos’è, la sesta? Questo maschio non viene. Dipenderà dal fatto che tu eri l’unico uomo in una famiglia di cento donne, o forse perchè – come ti sussurrano dietro – non sei abbastanza virile. E’ sempre stato un cruccio per tua madre, ma a te ti faceva ridere. Anche perchè a te piace fare le cose, provare, scottarti un pochino: cosa ne poteva sapere lei, di quando ti mettevi la camicia pastello col colletto bianco sottile, a cosa andavi incontro sul serio? Roba ruvida, roba che non si vede nei film romantici che rincoglioniscono noi donne.

Spiegami come hai fatto a farle venire tutte bionde le tue piccole, perchè tu sei nero e scuro di incarnato: ma cos’è che fate, andate in una clinica eugenetica? Fate un test del dna precedente all’accoppiamento per vedere se la mescolanza viene fuori uber-caucasica? Ci vediamo questo inverno, dunque. Mi vuoi offrire un tea. Accetto volentieri, la conversazione con un uomo, per quanto stupido, non raggiunge mai il tedio e la disperazione di un dialogo fra donne – le lamentele, l’incapacità di alzare gli occhi, la concentrazione sulla fissa del giorno, lui che ha fatto, lui che ha detto, lui che non mi vuole, lui che non mi vuole abbastanza, lui che prima era meglio, lui che te non lo conosci, lui non è così. Se proprio devo parlare di lui, preferisco farlo con lui in persona. E’ bello l’inverno, è vero, mi hai fatto un buon augurio.

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Lui ti porterà l’acqua con le orecchie

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Per essere servite e riverite da un uomo bisogna imparare dalle donne pigre e scontente.

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I piedi gonfi delle zitelle (Antonella)

botero_coppia_che_balla

Il perché alcune ragazze di paese si votino inconsciamente alla zitellaggine lo leggiamo in questo dialogo che ho ascoltato anni fa in una balera friulana: “Mi chiamo Giacomo, balli?” – “Mi spiase, ho i piès cionfi”.

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Juanita de Paola vita piccola

Il networking è tutto.

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Devo controllare la mia lingua, perche’ ha un filo diretto col mio cervello e il mio cervello non ha filtri utili. Quindi quella che invita la famosa attrice C a “mangiatela una brioche che sei secca come un uscio” o che incontra Beba Marsano a colazione e urla “non ci posso credere che culo che ho” sono io. Quella che sibila “lascia in pace quel cane cavallo” a Mezza Pinta, mia figlia, in mezzo alla colazione d’essay, essente il cane uno splendido esemplare che appartiene a F, probabilmente una delle dieci persone più’ famose nel mondo, sono ancora io.

Ho dormito poco e male, quindi stamattina ho avuto piu’ vergogna del solito a portare queste stanche, ciccie membra alla colazione e in genere al cospetto dell’umanita’. A parte una signora che era qui per lavoro posso asserire con certezza di essere stata la più’ grassa degli ospiti, ed ancora con più’ precisione di essere stata l’unica a mangiare quei croissants favolosi appena sfornati con la marmellata. Otto. Che poi e’ un gatto che si morde la coda: più mi sento incerta e più mangio e più mangio e più mi sento un rottame alla deriva. Un detrito. Un’otaria arenata. Un errore.

Ora mi sono rifugiata nello studio blue, spero che il Signore abbia pieta’ e mi trasformi in un vhs, Dune magari, per non dovere affrontare la disgrazia del pranzo con mezza Hollywood e mezza Toscana, dove quella che ordina la fiorentina (“signora, ma e’ solo per due”, “appunto, me la porti pure”) sono io. L’Inglese mi guarda cosi’come i piccioni osservano i figli con un’ala sola. Ho fatto amicizia con il personale della casa, il che mi torna sempre utile quando voglio fuggire dalla porta di servizio senza salutare (mi imbarazzo e sputazzo negli addii, una cosa atroce), il che succedera’ oggi alle sette circa, prima del cocktail.

Alla spa, vestita di lana perche’ questo e’ l’unico vestitino pulito e stirato che sono riuscita a trasportare fino qui senza spiegazzarlo, e con i tacchi di ieri sera assolutamente fuori misura, mi armo di coraggio e mi siedo al tavolo dei più più più, mi hanno chiamato, hanno chiamato me: forza. C’e’ una persona molto importante per me, per noi donne, e spero di intervistarla, quindi attacco subito discorso. Sbaglio nome, ed e’ assolutamente una mia prerogativa averlo fatto con le due persone di colore presenti. Quella che ride esageratamente per l’errore sono solo io. Alzo il mento come ad iniziare un discorso, ma tanto non so cosa dire. Di’ qualcosa ti prego, di’ qualcosa. Qualunque cosa che trasudi cultura e toscanita’, che mi dia una certa aura di autorita’.

Un colpo di genio: “e’ la tua prima volta in Italia?”. “No, sto finanziando un ecovillaggio in Umbria”. Me lo merito. Insisto. “E il tuo fidanzato era quello accanto a te ieri sera?”. Ma davvero ho appena chiesto questo? Eppure non ho una storia di ritardo mentale in famiglia. “E’ il mio business partner”. Forza. Ribatto. “Io scrivo”. Ho appena detto “io scrivo”, salvatemi, qualcuno mandi un ottomano a tagliarmi la lingua, o meglio, la testa. Mi guarda con pena, affetto. Mi dice che volentieri mi raccontera’ la sua storia dopo, dice “condividere”. E’ una storia che nasce in Sierra Leone. E’ una donna straordinaria, e il Signore ha avuto pieta’ anche questa volta: mia figlia cade e si rovina le ginocchia, posso andare in camera a medicarla, scrivere le domande e tagliarmi la lingua col rasoio.

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In pienezza. Senza farsela addosso (magari).

juanita

Il lato ludico della bambina inizia ad essere tarpato da piccina, quando ci infilano (o infiliamo) vestitini tutti appuntati per sembrare belline, e buonanotte ai salti nelle pozze d’acqua. Anche a scuola ci sgridano se stiamo sedute a gambine larghe, mentre ai bambini raramente viene chiesto di stare seduti in maniera compunta: eppure tutti e due abbiamo gioielli da tenere segreti, da custodire. Salvo genitori sani di mente, e non è più così scontato, si arriva all’adolescenza, dove finalmente possiamo privarci di ogni gioia del palato per mantenere un aspetto longilineo. E’ di questi tempi che iniziamo a padroneggiare la tecnica del passarsi le dita fra i capelli, bella consolazione, o darsi lo smalto di colore non ortodosso.

Il tempo di divertirsi un pochino, la lontananza universitaria da casa certo aiuta, che istruite fin da piccole notte e giorno all’idea dell’accasamento, lasciamo che la chimica faccia il suo corso e ci mettiamo alla ricerca dell’altra metà, o dei figli, o della casa bella, in collina, tutta pulita. Raggiunto l’obiettivo inizia la vita vera, quella di tanta fatica e hobby modestamente soddisfacenti, come il burraco del martedì o la parrucchiera del venerdì mattina. Ma io volevo fare la ballerina a Broadway, esce una vocina flebile ogni tanto, ma è già arrivata l’ora di girare la pummarola e bisogna pensare alle cose serie, mica a quello che si voleva fare nella vita.

Le donne invecchiano fisicamente meglio, certo, annullando la propria attività cerebrale e dedicandosi ad attività manuali: l’infarto, l’ictus, quello lo lasciamo agli uomini, che a sessantanni trovano nuova linfa o nella caccia al cinghiale muschiato o prendendosi una terza laurea di nascosto, quella che permetterà loro di partecipare al Grandioso Campo National Geographic in qualità di Addetto alle Zanzare Tigre. Mi posso immaginare i mariti passati a miglior parte tirare un sospiro di sollievo, da lassù, guardando le consorti sopravvissute che spolverano gli armadi col cotton-fioc e l’alcol, per altri dodici, venti, quaranta anni – è vero, un ippopotamo mi ha spezzato la colonna vertebrale in sei pezzi, ma almeno non mi sono puppato le cresime dei bisnipoti.

Per quanto mi riguarda, io so già come invecchierò, se il Signore mi dà la grazia di avere la salute: aprirò un posto per ragazze dai settanta in su. L’Inglese mi avrà già lasciato, a buon diritto, per una più mansueta. Mia figlia avrà già imparato ad attribuirmi tutte le sue magagne e starà vivendo in qualche capitale chic, magra come un osso e vestita molto bene. Quindi avrò pieno diritto sulla mia esistenza e sarò, di certo, obesa. Finalmente, dopo anni di privazioni, mangerò sei primi a pranzo e quattro dolci per cena. Metterò delle tagliole per il dottore della mutua. Noi ragazze assumeremo uno chef moro argentino e un badante svedese di trentanni, entrambi gay per non sentire lo sfinimento ma abbastanza mascolini per poterne osservare i movimenti quando ci cambiano il pannolone o servono il consommè con l’ovino.

Noi ragazze avremo anche un insegnante di programmazione, e faremo le hackers contro gli enti che erogano le pensioni integrative, le banche e i pensionati orridi regionali e para-privati. Ci metteremo in bikini a pois, in culo a chi prende in giro le donne rugose e avremo una piscina di acqua salata, a sfioro, riscaldata perchè c’abbiamo l’osteoporosi. Farò testamento, specificando che lascio tutti i miei beni a quel ragazzo che mi porta il vino a casa, e mai a nessuno dei nipoti malefici, che ti girano attorno come condor quando hai una zampa ferita. Il mio amico Z ci farà delle compilations da ascoltare, di certo, per non rimanere indietro e diventare uno di quelli che dicono ma com’era melodica la musica prima.

Avremo una Locanda, con molte stanze, dove ospitare artisti che carezzino il nostro animo ancora curioso. Attueremo un corso per insegnare alle giovani donne come si può essere felici, nella vita, quando si decide di vivere così come Nostro Signore, o la Natura, voleva: in pienezza e senza paura. Si discuterà parecchio, credo, e avremo un orto dove coltiveremo anche la Maria, perchè placa il dolore e se ho voglia di stonarmi non vedo perchè lo stato dovrebbe impedirmelo. Inventeremo il Festival delle Ragazze, in cui sia obbligatorio farci le treccine di lato che ci piacciono molto e mettere i gonnelloni: nessuno ci sgriderà, chiaro, perchè le regole le facciamo noi. La cirrosi, certo, mi darà un pò noia, ma sono sicura che fra una trentina d’anni avranno già inventato qualcosa per tenerla a bada. E anche per non pisciarsi addosso, se tutto va bene.