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Non mi sento preparato.

Juanita De Paola

Il mio amico F mi chiama spesso per piangere: la ragazza lo ha lasciato, no, la ragazza è rimasta incinta, no anzi la ragazza ora è moglie e non sono pronto a rinunciare a tutto, anzi no, oddio lei se ne è andata e non vedo più mia figlia. Vorrei essergli di grande consolazione giacchè siamo amici, appunto, la realtà è che vorrei solo rovesciargli un secchio di sangue caldo di bue in testa. Anzi, di maiale, come nella scena regina di Carrie sguardo di Satana, l’unico libro che ho letto in vita mia senza saltare nemmeno una pagina.

La bambina ha una sequenza di foto con il papà, su facebook, nell’album “mio tesoro”. Non ci sono foto con i tre assieme, perchè probabilmente G, la ragazza ex, le ha bruciate tutte con rito animista: nulla ti mostra l’orrenda umana bruttezza come la nascita di un figlio –  il peggio, salta fuori e puzza. Lui ha continuato il calcetto, lei ha mollato la taglia quaranta e qualcosa. Lui ha riniziato la pesca e il silenzio, lei ha dovuto scoprire le tecniche per smacchiare il vomito dalle magliette di seta. Lui ha continuato a guardare le bollette come le mucche osservano i treni che passano, lei ha cominciato a scrivere sull’agenda della banca ogni euro.

Questo, se tutto è rimasto nei parametri della normalità. Perchè se vivaddio è arrivato un problema serio – la bambina con un ritardo  mentale, che so, una malattia degenerativa, o anche solo la perdita del lavoro di uno dei due – ce n’è da benedire e da santificare. Non voglio dire che lui si è infilato la tuta da coglione e lei quella da scimmia urlatrice che non si accoppia, non solo questo, certo. Lei ha smesso di ridere, ad esempio, o di mettersi le magliette senza reggiseno. Lui ha scoperto i calzini di spugna bianca. Lui ha deciso di imparare a suonare il contrabbasso, lei che non c’è più nulla da imparare, perchè la vita è finita – sono vecchia, ormai non esco più.

Fuck this shit! Ma non si può prendere alla leggera l’amico disperato, e allora lo chiamo qui, a casa. Ho un salotto ampio, con un divano immenso – ci vivo, ci leggo, ci dormo. Viene e mi racconta  la tragedia, come si è compiuta. Eppure io la amo, per me lei è ancora bellissima. Ma io pensavo che avrebbe sempre trovato il tempo per me. Ma io credevo che non sarebbe cambiato nulla. La bambina è la mia vita. I suoi genitori si mettono sempre nel mezzo. Non usciamo mai. Si lamenta sempre dei soldi. Vuole che trovi un lavoro fisso ma io in ufficio mi sento morire. E così via. Il fatto, F, è che tu eri pronto per trastullare una bambina, la tua, ma non per la sua mamma. Magari richiamala fra ventanni. Magari svegliati. Magari se le mandi cento euro al mese la bambina te la fa vedere. Magari era meglio se il servizio militare e l’economia domestica non li levavano di giro, mi pare a me.

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Basta non sia una tisana dimagrante.

juanita

“Passa un buon inverno”, mi dici. Mi sembra un buon augurio, in fin dei conti il mondo appartiene a chi è felice il lunedì o non aspetta l’estate per ballare su una spiaggia. E’ una frase che non vedo l’ora di dire ai miei figli, spero di averne altri nove, affinchè tutti mi detestino assieme dopo che sono morta – che non si sentano mai soli in questo, che sappiano che razza di ciofega avevano per progenitrice. Mi parli come se la sapessi lunga, e forse c’hai ragione. Una delle cose che noi donne facciamo è accasarci, non necessariamente con un uomo, e dimenticare che teppiste siamo state, quanto in basso si sia scese per trascorrere un discreto dopo cena. Qualcuna di noi si trasfigura nella casa, mi ci vedo quando pulisco il gabinetto con il bruschino per eliminare gli aloni, altre nel volontariato cellulitico, la maggioranza nella sindrome del triplo controllo – casa pulita, capelli fatti, vagina asciutta. Io no, non lo dimentico che ho compicciato, e forse mi si legge negli occhi.

L’inverno è straordinario perchè Chet Baker suona sempre come se fosse il 23 di Dicembre e perchè la luce è più gentile. Un mio amico che fa finta di avere una moglie – e lei, che fa? – mi conferma che l’estate è mortifera: tutta quella pelle scoperta non aiuta chi usa il cervello come volàno; certo, sarebbe meglio ci fosse una legge anti accoppiamento: le cose tornerebbero divertenti. Tu vuoi davvero che io passi un buon inverno, voglio dire, è questo che hai in mente mentre me lo auguri? Io penso di sì. Quindi aspettate un’altra bambina, cos’è, la sesta? Questo maschio non viene. Dipenderà dal fatto che tu eri l’unico uomo in una famiglia di cento donne, o forse perchè – come ti sussurrano dietro – non sei abbastanza virile. E’ sempre stato un cruccio per tua madre, ma a te ti faceva ridere. Anche perchè a te piace fare le cose, provare, scottarti un pochino: cosa ne poteva sapere lei, di quando ti mettevi la camicia pastello col colletto bianco sottile, a cosa andavi incontro sul serio? Roba ruvida, roba che non si vede nei film romantici che rincoglioniscono noi donne.

Spiegami come hai fatto a farle venire tutte bionde le tue piccole, perchè tu sei nero e scuro di incarnato: ma cos’è che fate, andate in una clinica eugenetica? Fate un test del dna precedente all’accoppiamento per vedere se la mescolanza viene fuori uber-caucasica? Ci vediamo questo inverno, dunque. Mi vuoi offrire un tea. Accetto volentieri, la conversazione con un uomo, per quanto stupido, non raggiunge mai il tedio e la disperazione di un dialogo fra donne – le lamentele, l’incapacità di alzare gli occhi, la concentrazione sulla fissa del giorno, lui che ha fatto, lui che ha detto, lui che non mi vuole, lui che non mi vuole abbastanza, lui che prima era meglio, lui che te non lo conosci, lui non è così. Se proprio devo parlare di lui, preferisco farlo con lui in persona. E’ bello l’inverno, è vero, mi hai fatto un buon augurio.

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Quel che pare a noi. Non a voi.

Juanita

Avete registrato il mio accesso alla Redoute, una specie di postalmarket dove vado a vedere che vestiti stanno bene alle persone, magari immagino di comprarli – poi non ho voglia. Avrete registrato anche il mio accesso su Holy Moly, quel sito di gossip, e poi al Corriere. Immagino che il cookie, il biscottino, di YouPorn sia stato depositato nella memoria storica del browser, anche: ero certa di avere visto quella cameriera bionda da qualche parte, e la troverò. Ci potrei scommettere milioni e milioni di euro. Non che io abbia poi voglia di scriverne, non mi interessa quello che fanno le donne con il loro mezzo, salvo quando poi ricoprono cariche ministeriali per cui non sono preparate. Ma solo perchè non sono preparate: credo nella redenzione continua, nella capacità dell’uomo di rigenerarsi una volta al giorno, figuriamoci se mi lascio impressionare da qualche marchetta.

Avete messo un segnaposto anche su Template Monster: è lì che vado a vedere come disegnano ora i web guru quando hanno da rappresentare viaggi, foto, altro. Non lo faccio più, ma mi dispiace parecchio. Sono sicura che avete preso il calco delle mie orme su You Tube, nell’area dei tutorials in cui si impara a riprodurre Jill Scott. Non so se registrate i giri che mi faccio sulle foto degli altri su facebook, ma se io fossi in voi lo farei: quale occasione commerciale più ghiotta di me che vado a controllare le foto in costume e dei matrimoni di tutti quelli che le mostrano. Chissà che capitale si può fare su di me che mi metto al piano e provo a fare quel si bemolle nona settima quarta undicesima sotto sopra. Chi lo sa quali ricchezze spropositate può ottenere una società imparando che amo guardare il sito di Sartorialist fino a che mi ricordo tutto, fino alla nausea, per cercare di capire l’arte del colore che si abbina con le scarpe: non compro nulla, niente, non mi interessa. “No grazie, non mi interessa. Tenete un euro per il caffè”.

Comunque voi fate il vostro dovere e avete capito che io lavoro con gli immobili e allora, in mancanza di indicazioni efficaci, mi sciorinate tutti i miei competitors sulla barra di sinistra: mi spiace, non ci compro nulla nemmeno lì. Anzi, sto religiosamente segnando tutti quelli che acquistano una campagna AdSense su Google con l’intento programmatico di non utilizzarli mai: non posso premiare chi mi intralcia la porta della casina virtuale come un piazzista di Geova, no, lo devo punire. Mi fate apparire anche prestiti, non so come avete capito che il mio conto in banca è allegramente banale, eppure a me hanno insegnato che se non ce l’hai, i soldi, non ci puoi comprare le cose. Che se te li prestano è perchè li rivogliono indietro con gli interessi. E che gli unici che ti fanno i favori sono la mamma e il papà, se tutto va bene.

Insomma mi avete intercettato. Affari vostri: avete sprecato un monumentale quantitativo di energie dietro a una che si deve ancora comprare le scarpe dell’estate e che si è commossa quando le hanno detto “il tuo mac sta esalando l’ultimo respiro”: e che cacchio, siamo stati assieme sette anni con quel monumento alla funzionalità. Datemi tempo. Vi perdono, perchè non sapevate a cosa andavate incontro.

Quello che invece io non vi perdono è l’avere tarpato le ali alla farfalla della conoscenza, alla ricerca su internet che si è involuta da algoritmo ricerca di parole chiave a equazione del bisogno di acquisto. No, non sto cercando l’agriturismo con l’animazione per i bambini, sto cercando una foto di Volterra, perchè non ci sono (ancora) stata. Non sono i Sofitel che cerco a New York, anzi, non ho ancora deciso se starò da un’amica. Nel frattempo volevo saperne un pochino di più, volevo vedere se è possibile stare in casa di sconosciute certificate, che di un viaggio senza nuove amicizie non me ne faccio di nulla. No, non voglio partecipare all’orgia di massa di Groupon e acquistare seicento kit sbiancanti per i denti: si fa dal dentista quella roba, se no il tartaro dove lo metti, sotto la candeggina? Io fumo. E bevo molti caffè. Non andrò in un residence di merda in Calabria a centotredici euro al mese se altri settecento ci vogliono andare, ma mi riservo il diritto di vedere un volantino su un giornale e prenotare per il giorno dopo. Solo perchè l’ho visto in un momento felice.

Non faccio quello che mi dite, quando me lo dite, solo perchè mi fate lo sconto. Non trovo quello che voi volete che io trovi: mi sono infurbita, so quali parole chiave devo evitare per non avere risultati con prezzi annessi. Certe volte voglio solo sapere se esiste una telecamera che filma un panda che cresce in Cina. Tutto lì. Ma vi chiedo: pensate davvero di stare guadagnando qualcosa? Le politiche utilitaristiche e a breve termine involgariscono chi le pratica, non chi le deve subire. Non appena trovo un nuovo motore di ricerca, meno cool, meno scafato, io ci migro – e non sono la sola: e agli inserzionisti che gli raccontate? “Ci siamo persi gli utenti”. Saranno ragni amari.

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Arietta pettegola.

juany

E’ andato tutto bene, stiamo tutti bene: un successo. Questa settimana nessuno si è rapito mia figlia per smembrarla in qualche campetto, l’Inglese non guida quindi non ha fatto incidenti, i miei genitori sono in salute e le mie sorelle una è al mare e una sta varando qualche campo, qualche iniziativa. Lo strozzino che mi è venuto a fare visita tramite segnalazione di un amico comune, che da ieri più amico non è, deve avere capito l’antifona e non si è fatto rivedere: per levarmi quella sensazione di unto di dosso mi ci sono volute quarantotto ore. Oppure, di nuovo, sono stata fortunata, e ha deciso di mirare a qualcunaltro. Ho saltato due giorni di ginnastica perchè ho una febbriciattola da stanchezza e cimurro starnutante, irritante, che mi gonfia gli occhi e restringe la testa.

Non ho implicazioni in appalti e non ho mai versato una mazzetta, quindi questo fine settimana non suderò freddo a pensare a quell’affare, a quelle tracce, a quell’avviso di garanzia. Non ho nemmeno uno yacht con licenza off-shore per portarci i miei amici nei venti metri che separano il molo dalla torre di comando, quindi non mi devo preoccupare di cosa farne a febbraio o della pensione dello skipper. Divido la macchina, car-share si chiama, ma ho rinunciato alla quota maggioritaria così non devo parcheggiare, così non devo richiedere il permesso. Vado in treno dappertutto e quando c’è ritardo faccio un sacco di amicizie. Oppure piango di rabbia. Mangio un toast a pranzo da anni, mille, e bevo solo vino buono dopo le sette e mezzo, perchè quell’arietta sonnolenta, pacificata, mi garba portarmela nei sogni.

Non ho cene importanti, a parte una a fine Luglio che mi dà un’ansia terribile, ma ho promesso all’Inglese: ci sarò. Non accetto inviti dai clienti o dai fornitori, per non dovere anche solo una volta mediare un giudizio ragionato. Non sono nel giro dei compleanni dei bambini chic, perchè i loro genitori arraffazzonano feste dove nessuno può smaialarsi in terra, e che gusto c’è ad essere bambini e a dover stare impediti sul parquet – quindi non ho un calendario serrato di regalini appariscenti da fare per queste magnifiche creature, i piccoli, che non sanno nemmeno cos’è un tallone o dove sta l’anima, che carichiamo di significati simbolici per poi stupirci che rubino per divertimento.

Non frequento le SPA, ma solo perchè mi sento brutta in accappatoio. Non frequento le spiaggie, ma solo perchè sono brutta in costume. Le due privazioni comportano che la depilazione di cera non stia fra le mie priorità quindicinali bensì una opzione annuale per quando ho desiderio di punirmi. E comunque la zona fronte retro non si tocca, ma siamo matti, non mi devo mica appiccicare ad un palo coperta d’olio e ballare a gambe aperte la lap. Non che non mi piacerebbe una volta, ma non riesco a toccarmi le caviglie quando sono in piedi.

Non ho un amico cui devo molti favori, quindi posso sempre dire mi dispiace, oggi non è giornata, lasciami dormire a chiunque. Non ho un ombrellone particolare dove voglio essere sistemata, anzi vicino al bar mi sta bene perchè ho sempre sete di acqua fresca frizzante, sudo moltissimo, quindi posso arrivare al mattino e prenotare un posto, a caso. Mi piace camminare, quindi la ztl cittadina del mio paesello, con l’ipotesi di poter fare camminare mia figlia senza che qualcuno me la falci, mi sembra una cosa straordinaria. Non ho la carta centurion e nemmeno la platinum, perchè Mentore numero due mi ha insegnato che al mattino bisogna sapere quanto si deve spendere, compresi gli imprevisti, e quello va portato dietro in moneta. Quindi non accumulo punti, non compilo questionari, non pago qualcuno perchè paghi qualcunaltro per darmi consigli se faccio i capricci. Meglio non fare le bizze e tenerli per una buona cena, con buon vino e buona compagnia.

Non sopporto i cocainomani, che si trascinano dietro ansie e billi ritti per i motivi sbagliati, quindi difficilmente mi invitano alle feste. Da un lato mi dispiace, dall’altro mi solleva dal dover comprare un vestitino estivo, che non so scegliere – l’Inglese dice che non saprei vestire un asino morto. Non so abbinare scarpe e vestiti. Mi metto quello che mi fa felice al mattino, cercando di rimanere rispettosa delle persone che ho attorno – non indosso il tutù quando sono felicissima. Non vado in palestra ma mi piace correre a piedi nudi.

Quindi hai ragione a dire che sono una povera imbecille, una contadina. Una che ha salito lo scalino. Una con i capelli crespi e il culo troppo grosso (largo, dici). Una che ma poi che vuoi che faccia al lavoro, guarda con che macchina di m** gira. Hai ragione a dire che sono una qualunque, anche perchè sono in ottima compagnia: conosco almeno venti persone che potrebbero più o meno stare in questa descrizione. Lascia che ti dica chi sono, queste persone: fanno spesso all’amore col marito o con la moglie – non con altri. Non stanno molto bene con un vestito da sera: vero. Ma vestono gli occhi di sorrisi. Hanno quanti figli rientrano nella famiglia senza tate a tempo pieno. Vanno al mare di martedì mattina e hanno sempre il divano impegnato da qualche amico che passa di lì. Invece di raccogliere fondi per il cancro fanno in modo che i dipendenti mangino bene, che siano ben pagati. Io non ti disprezzo anche se viviamo in mondi diversi, tu cerca di smettere di scrivere quelle cose – sei così pettegola, così cattiva. Eppure (di materiale) non ti manca nulla.

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90 (la Paura)

juany

La mia strategia contro la prova bikini è quella di avere creato una società che lavora al suo massimo dal primo di giugno al primo di ottobre. Ho ogni fortuna, perchè posso andare al mare di mercoledì mattina, alle sei e quaranta, noleggiare un barchino e andarmene al largo senza dovere tollerare figli e mariti che non siano cosa mia. E già è difficile coi tuoi. Oppure posso arrivare al primo di settembre bianca come un parmigiano reggiano, con l’aria trionfante di chi ha provato a risollevare le sorti dell’economia internazionale tutto da sola, con due braccia. In ogni caso posso saltare il vacare e lamentarmi acquisendo rispetto dalle folle – le dodici persone che frequento.

Devo stare attentissima a diradare gli incontri amichevoli nello stesso periodo, perchè sono tesa come come una rete da tennis a Wimbledon. “Ah, ma te sei questa qui?” si domandano con gli occhi tutto attorno quando vegeto, a sera, sulla seggiolina del parcheggio, l’unica dove non passo altro che io e i due matti ormai amici. Non respiro, sussisto. Rispondo a monosillabi, sono davvero preoccupata che i clienti siano felici, che Rupèrtolo, il dio che governa i canali stranieri, non abbandoni l’antenna della villa storica sopra Firenze – tanto bella, ma vecchia, disfunzionale. Prego che Tùbolo, la divinità che controlla le rotture dei tubi di domenica, mi sia amico. Che Coop non trasmetta l’escherichia coli ai miei clienti: non ho ancora imparato del tutto a separare pubblico, privato, lavorativo, personale, emotivo, razionale. Sta tutto lì, mescolato in un speriamo che mi vada tutto bene.

Passa un cane senza coda, è di sicuro un segnale nefasto. Lo segue F, che tutte le volte che lo vedo me ne capita una: scusa Madonnina, sono tanto superstiziosa, non lo faccio apposta. Lo ho visto ieri e mi si è presentato uno strozzino in ufficio sotto mentite spoglie, forse a sentire che aria tirava; vendo soldi, mi dice. Annuisco, non riesco a dire niente di quello che mi passa in testa – andate via, mostri. Accompagnato da un cieco e da un povero vecchio che invece di pensare ai soldi dovrebbe mettere in olio l’anima, risucchiata. F lo ho visto stamani, di nuovo, e un gruppo di anonimi orgiastici mi ha minacciato e ricattato telefonicamente per entrare in una villa senza darmi alcun nome – paghiamo in contanti: via, brutti lerci. Non nelle mie ville. (Madonnina, te l’avevo detto che quello porta più rogna di una maga che leva il malocchio).

Passa B a trovarmi, profuma come un mazzolino di fiori anche se si lamenta del caldo. Sembra un pasticcino, lei, sveglia come un furetto, con una ciliegina sulla testa. Mi portava a giocare a tennis tanto tempo fa.  Mi piacciono le persone che non cambiano gli occhi nel tempo, e i suoi sono ancora puliti, allegri, curiosi. Tutto il contrario delle fessure, morte, di quelli che sono venuti a turbare il mio piccolo mondo lavorativo: spenti, venduti. Il vostro feticcio è fetido, signori. Scherzavo, non lavoro qui, non vorrei essere qui, io suono la chitarra e sono felice così, portate via codeste carcasse che chiamate corpi, e non vi dimenticate le spugne putrescenti, le vostre anime: vi siete venduti ai soldi, e ora raccogliete quello che avete seminato. Il vuoto. Ma vi supplico, non venite a calpestare il mio orto: c’è qualche spinacio, due o tre pomodori, è tutto da fare è vero, ma ci sfama tutti ed è rigoglioso. Felice.

Mamma mi ha regalato Django Reinhardt, so che al quarto ascolto consecutivo starò meglio. Mi faccio tanti caffè. Oggi niente corsa, oggi niente capelli da asciugare, nessuna depilazione o fondo tinta: io, davanti allo specchio con la mia lieve cuperose, a darmi dell’imbecille: quante volte mi devo dire che il mio stomaco sa prima del mio cervello cosa devo fare? Avrei dovuto dire no, non venite. Avrei dovuto dire una bugia, forse, per mascherare la paura. Avrei dovuto fare la pazza, spaventarli, farli correre via. Meno male che c’è il gelato e che si può ancora andare a letto alle dieci senza che il governo ci metta una tassa. Meno male che c’è la lingua: devo raccontare questa storia a tutti, mi devo fare confortare, non ci sono segreti e non c’è vergogna quando non si fa nulla di male. L’Inglese dice che nulla succederà – e che devo smettere di dire sempre di sì. Io gli do retta stavolta.

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La vera febbre del sabato sera.

Juanita de Paola

A forza di chiudere i boxini delle pubblicità in alto sulla finestra di facebook ed indicarne la ragione come “è offensivo”, ho confuso l’algoritmo, che mi propone honda civics rosse usate con motore turbolento, t-shirts con le parolacce e  concorsi di Lufthansa. Certe volte ci capito sopra per vedere cosa si nasconde dietro l’icona –  vogliono che salvi qualche cellula staminale a San Marino, dico io, tanto tanto a Torino, o a Pompei, ma a San Marino no – , le guardo con lo stesso entusiasmo di B, il bambino che a otto anni ha già visto i suoi genitori sposarsi tre volte con persone diverse. Nelle fotografie fatte dalla mia amica che riprende tutte le persone in vista  – oggi sono tutti importanti, quelli che fanno i tappini di gomma, quelli che stampano i tondini di cemento – si vede B che batte le manine con gli occhi morti di un varano.

La famiglia non è più quella delle fiabe di quando ce le raccontavano, è invece un tessuto connettore di persone sempre più diverse, più tolleranti nel migliore dei casi, e più inclini ad allontanarsi. Non esistono nemmeno i bei tempi andati, sono solo un trucchetto del nostro cervello affinchè si smetta di dargli il tormento con nuove spinte, nuove pulsioni: l’allarme dovrebbe suonare ogni volta che cerchiamo di ripetere sensazioni piacevoli del passato, dovrebbe bruciarci un dito all’improvviso, così ci ricorderemmo. Che dicevo? Ah. La famiglia. Non prendo la mia ad esempio, perchè peggio di me e dell’inglese credo che abbiano fatto solo Squitieri e la Cardinale, ma in genere è tutto aperto, espanso come gli elettroni negli orbitali, sparso come i bastoncini del Mikado.

Quella che negli anni ottanta era chiamata la famiglia allargata oggi è un esempio di (dolore e) civiltà che convivono assieme, perchè chi ne era parte ieri lo è anche oggi e non può essere altrimenti, ma il cervello si farebbe venire un buco nel mezzo pur di non dovere essere sottoposto a variazione, cambiamento. Nel confronto con la famiglia tradizionale pare quasi che il destino si stia divertendo a promuovere questo nuovo nucleo partecipato, meno violento, incestuoso, infognante dell’altro: Sarah Scazzi docet.

La famiglia che parte all’avventura con la macchina per fermarsi al baracchino del panino la domenica si vede solo nei film di Virzì – e chi ci sale in macchina con una moglie senza avere prenotato? Davanti al tabacchino stasera ce n’era una che aspettava il marito in macchina, aveva una faccia truce, crudele: povera coppia, destinata ad una cena di coppie, soporifera come il farsi i peli con la pinzetta – meno male che c’è il dolore, se no la gente ci schianterebbe per la noia. Entro dentro al circolino per vedere se c’è P, lo volevo salutare. C’è una famiglia invece, anche lì, e sembrano disperati. Possibile che l’unico sistema per amare intensamente le persone sia non doverci passare il sabato sera?

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Juanita de Paola

Povere donne di merito.

Le tavolate di donne di merito, si sa, sono tragiche: quella che per fare funzionare la sua societa’ ha perso marito e tata (assieme), quella che ha ripiegato su un cameriere argentino nano perche’ ha un talento per i picchiatori e almeno cosi’ non finisce piu’ all’ospedale, quella che si consola con i piatti pieni perche’ il resto e’ cosi’ vuoto e solitario, quella che corregge di nascosto le sceneggiature del marito fallito vinaio e le invia ai suoi ex amanti editori, e cosi’ via. Io, come disse Scalfaro, non ci sto. In un mondo di donne prese per il culo per la loro eccessiva emotivita’ sul lavoro, di femmine stragiate in scarpe larghe perche’ non si puo’ inseguire un figlio col tacco dodici a meno che non lo insegua la au-pair, di ragazze che si ritrovano nonne e non capiscono nemmeno da dove sono passate, io sono stufa delle lezioni di qualche cazzone di buona famiglia che con le ali monetarie ben salde sulle spalle, fissate da papa’ e lisciate da mamma’, cerca di impartirmi lezioni di gusto. Si’, e’ vero, io non sono una di quelle che sanno scegliere bene i vestiti, non ho la french manicure, non conosco l’ultimo grido in fatto di chefs neozelandesi, ma conosco la vita e le sue fatiche, e voglio rispetto. Io non riesco a chiudere la porta dell’ufficio e con quella la scatola nera delle mie speranze lavorative o la pressione, tremenda, di pagare le persone che lavorano per me: ce la faro’? Ho sbagliato tutto? Ho qualche speranza di essere al posto giusto nel momento giusto? Queste domande mi tormentano giorno e notte, mi hanno fatto venire le rughe in mezzo alla fronte, perche’ io non ce l’ho un piano b, non ho un’attivita’ consolidata di famiglia in cui rifulgere per le mie idee geniali. Io devo bussare alle porte come un venditore di aspirapolvere, scusarmi della mia insolenza, propormi in trenta secondi per non annoiare chi mi sta davanti, stare attenta a non dire quello che penso davvero, perche’ potrei chiudere la bottega – e il mio futuro, e quello di mia figlia. Voglio, esigo, rispetto, per lo sforzo quotidiano di essere palluta sul lavoro, signora in salotto e puttana in camera da letto, perche’ e’ una fatica che va aldila’ delle mie forze, eppure ce la metto tutta. Le lezioni di questi signorotti mi hanno stancato: anche io vorrei vedermi l’opera nel mio salottino privato del Teatro della Scala, fare beneficenza e avere una carta di credito con un fido infinito, cosi’, di default, ma non ce l’ho: non me le hanno date.