Tranne le corna, qualsiasi cosa portiamo in testa con spavalderia incute rispetto negli altri.
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Diario di Miss Italia
Il blog del Ministero si sposta su Miss Italia, per un pochino. Il tempo di investigare fanciulle, futuro e madri con bigodini in mano – speranze di corone, delusioni micidiali, gioie imperiture e lo sbirilluccichio della pazza idea: seguire Martina, Federica, Denny, Adriana, Anna. Sophia.
Hi hi.
Mezza Pinta è da giorni con la sua nonna, Mater Grintosissima, ai parchi gioco del riminese e poi a suonare la trombetta. l’Inglese è sparito da dodici ore e probabilmente è morto nei disordini londinesi: con quella ghigna a signorino che mangia la micropasticceria posso anche capire che qualche manfano l’abbia steso con una randellata. L’avrei fatto anche io. La casa è diventata luogo maschio, perchè l’uomo di casa, io, è qui da solo che regna, dopo avere allestito una moka da sedici – quella piccina è da lavare. Ho dormito nella posizione della Seppia Infoiata, una specie di ragno che si estende per molto più della sua lunghezza su un letto matrimoniale, utilizzando contemporaneamente otto cuscini (almeno). Ora, caro Filodemo, mi scuserai se non ho assolutamente nessun pensiero, nessun commento, nessuna riflessione: lasciami godere come un tordo.
Tutti stanno bene e lontani da casa. Gli unici rumori vengono dalla strada. Profumo di caffè. Il tempo è mio. Il mondo è mio.
[Antonella Fabriani Rojas]
Ho bisogno di abito elegante, scollato, e mi immagino come lei. Ci spendo un occhio della testa, me lo infilo e allo specchio somiglio invece alla sua poltrona. [Antonella F.R.]
(Antonella scrive attraverso le immagini e pensieri personali per il Ministero delle Dispari Opportunità)
Devo controllare la mia lingua, perche’ ha un filo diretto col mio cervello e il mio cervello non ha filtri utili. Quindi quella che invita la famosa attrice C a “mangiatela una brioche che sei secca come un uscio” o che incontra Beba Marsano a colazione e urla “non ci posso credere che culo che ho” sono io. Quella che sibila “lascia in pace quel cane cavallo” a Mezza Pinta, mia figlia, in mezzo alla colazione d’essay, essente il cane uno splendido esemplare che appartiene a F, probabilmente una delle dieci persone più’ famose nel mondo, sono ancora io.
Ho dormito poco e male, quindi stamattina ho avuto piu’ vergogna del solito a portare queste stanche, ciccie membra alla colazione e in genere al cospetto dell’umanita’. A parte una signora che era qui per lavoro posso asserire con certezza di essere stata la più’ grassa degli ospiti, ed ancora con più’ precisione di essere stata l’unica a mangiare quei croissants favolosi appena sfornati con la marmellata. Otto. Che poi e’ un gatto che si morde la coda: più mi sento incerta e più mangio e più mangio e più mi sento un rottame alla deriva. Un detrito. Un’otaria arenata. Un errore.
Ora mi sono rifugiata nello studio blue, spero che il Signore abbia pieta’ e mi trasformi in un vhs, Dune magari, per non dovere affrontare la disgrazia del pranzo con mezza Hollywood e mezza Toscana, dove quella che ordina la fiorentina (“signora, ma e’ solo per due”, “appunto, me la porti pure”) sono io. L’Inglese mi guarda cosi’come i piccioni osservano i figli con un’ala sola. Ho fatto amicizia con il personale della casa, il che mi torna sempre utile quando voglio fuggire dalla porta di servizio senza salutare (mi imbarazzo e sputazzo negli addii, una cosa atroce), il che succedera’ oggi alle sette circa, prima del cocktail.
Alla spa, vestita di lana perche’ questo e’ l’unico vestitino pulito e stirato che sono riuscita a trasportare fino qui senza spiegazzarlo, e con i tacchi di ieri sera assolutamente fuori misura, mi armo di coraggio e mi siedo al tavolo dei più più più, mi hanno chiamato, hanno chiamato me: forza. C’e’ una persona molto importante per me, per noi donne, e spero di intervistarla, quindi attacco subito discorso. Sbaglio nome, ed e’ assolutamente una mia prerogativa averlo fatto con le due persone di colore presenti. Quella che ride esageratamente per l’errore sono solo io. Alzo il mento come ad iniziare un discorso, ma tanto non so cosa dire. Di’ qualcosa ti prego, di’ qualcosa. Qualunque cosa che trasudi cultura e toscanita’, che mi dia una certa aura di autorita’.
Un colpo di genio: “e’ la tua prima volta in Italia?”. “No, sto finanziando un ecovillaggio in Umbria”. Me lo merito. Insisto. “E il tuo fidanzato era quello accanto a te ieri sera?”. Ma davvero ho appena chiesto questo? Eppure non ho una storia di ritardo mentale in famiglia. “E’ il mio business partner”. Forza. Ribatto. “Io scrivo”. Ho appena detto “io scrivo”, salvatemi, qualcuno mandi un ottomano a tagliarmi la lingua, o meglio, la testa. Mi guarda con pena, affetto. Mi dice che volentieri mi raccontera’ la sua storia dopo, dice “condividere”. E’ una storia che nasce in Sierra Leone. E’ una donna straordinaria, e il Signore ha avuto pieta’ anche questa volta: mia figlia cade e si rovina le ginocchia, posso andare in camera a medicarla, scrivere le domande e tagliarmi la lingua col rasoio.
Il lato ludico della bambina inizia ad essere tarpato da piccina, quando ci infilano (o infiliamo) vestitini tutti appuntati per sembrare belline, e buonanotte ai salti nelle pozze d’acqua. Anche a scuola ci sgridano se stiamo sedute a gambine larghe, mentre ai bambini raramente viene chiesto di stare seduti in maniera compunta: eppure tutti e due abbiamo gioielli da tenere segreti, da custodire. Salvo genitori sani di mente, e non è più così scontato, si arriva all’adolescenza, dove finalmente possiamo privarci di ogni gioia del palato per mantenere un aspetto longilineo. E’ di questi tempi che iniziamo a padroneggiare la tecnica del passarsi le dita fra i capelli, bella consolazione, o darsi lo smalto di colore non ortodosso.
Il tempo di divertirsi un pochino, la lontananza universitaria da casa certo aiuta, che istruite fin da piccole notte e giorno all’idea dell’accasamento, lasciamo che la chimica faccia il suo corso e ci mettiamo alla ricerca dell’altra metà, o dei figli, o della casa bella, in collina, tutta pulita. Raggiunto l’obiettivo inizia la vita vera, quella di tanta fatica e hobby modestamente soddisfacenti, come il burraco del martedì o la parrucchiera del venerdì mattina. Ma io volevo fare la ballerina a Broadway, esce una vocina flebile ogni tanto, ma è già arrivata l’ora di girare la pummarola e bisogna pensare alle cose serie, mica a quello che si voleva fare nella vita.
Le donne invecchiano fisicamente meglio, certo, annullando la propria attività cerebrale e dedicandosi ad attività manuali: l’infarto, l’ictus, quello lo lasciamo agli uomini, che a sessantanni trovano nuova linfa o nella caccia al cinghiale muschiato o prendendosi una terza laurea di nascosto, quella che permetterà loro di partecipare al Grandioso Campo National Geographic in qualità di Addetto alle Zanzare Tigre. Mi posso immaginare i mariti passati a miglior parte tirare un sospiro di sollievo, da lassù, guardando le consorti sopravvissute che spolverano gli armadi col cotton-fioc e l’alcol, per altri dodici, venti, quaranta anni – è vero, un ippopotamo mi ha spezzato la colonna vertebrale in sei pezzi, ma almeno non mi sono puppato le cresime dei bisnipoti.
Per quanto mi riguarda, io so già come invecchierò, se il Signore mi dà la grazia di avere la salute: aprirò un posto per ragazze dai settanta in su. L’Inglese mi avrà già lasciato, a buon diritto, per una più mansueta. Mia figlia avrà già imparato ad attribuirmi tutte le sue magagne e starà vivendo in qualche capitale chic, magra come un osso e vestita molto bene. Quindi avrò pieno diritto sulla mia esistenza e sarò, di certo, obesa. Finalmente, dopo anni di privazioni, mangerò sei primi a pranzo e quattro dolci per cena. Metterò delle tagliole per il dottore della mutua. Noi ragazze assumeremo uno chef moro argentino e un badante svedese di trentanni, entrambi gay per non sentire lo sfinimento ma abbastanza mascolini per poterne osservare i movimenti quando ci cambiano il pannolone o servono il consommè con l’ovino.
Noi ragazze avremo anche un insegnante di programmazione, e faremo le hackers contro gli enti che erogano le pensioni integrative, le banche e i pensionati orridi regionali e para-privati. Ci metteremo in bikini a pois, in culo a chi prende in giro le donne rugose e avremo una piscina di acqua salata, a sfioro, riscaldata perchè c’abbiamo l’osteoporosi. Farò testamento, specificando che lascio tutti i miei beni a quel ragazzo che mi porta il vino a casa, e mai a nessuno dei nipoti malefici, che ti girano attorno come condor quando hai una zampa ferita. Il mio amico Z ci farà delle compilations da ascoltare, di certo, per non rimanere indietro e diventare uno di quelli che dicono ma com’era melodica la musica prima.
Avremo una Locanda, con molte stanze, dove ospitare artisti che carezzino il nostro animo ancora curioso. Attueremo un corso per insegnare alle giovani donne come si può essere felici, nella vita, quando si decide di vivere così come Nostro Signore, o la Natura, voleva: in pienezza e senza paura. Si discuterà parecchio, credo, e avremo un orto dove coltiveremo anche la Maria, perchè placa il dolore e se ho voglia di stonarmi non vedo perchè lo stato dovrebbe impedirmelo. Inventeremo il Festival delle Ragazze, in cui sia obbligatorio farci le treccine di lato che ci piacciono molto e mettere i gonnelloni: nessuno ci sgriderà, chiaro, perchè le regole le facciamo noi. La cirrosi, certo, mi darà un pò noia, ma sono sicura che fra una trentina d’anni avranno già inventato qualcosa per tenerla a bada. E anche per non pisciarsi addosso, se tutto va bene.
Acchiappa il pulcino Juanita, ammazzalo. Così inizia la mia entratura nella piquattro della mia prima infanzia, con il bambino M che mi incita ad ammazzare una creatura per fare parte della banda dei maschi. Le vaccate che non ho combinato in vita mia per avere l’approvazione degli altri. Sono dentro il pollaio, schivo i due galli, le galline, piglio un pucìno e l’ammazzo. Così, lo strozzo. Questo è nulla rispetto a quando ho inforcato un maiale – ma quello doveva morire, ci facevano le salsicce mica scherzi, il piccolo pollo, invece, l’ho deliberatamente fatto fuori.
Il bambino M era molto popolare, viveva in campagna ma era di città. Noi altri bimbi, invece, si era di lì, si era cresciuti lì, e per essere ammessi nella sua casa con quel marmo orrendo e quelle macchinine che andavano per conto loro, avremmo lavato un tir con un cotton fioc. Io ero la più piccola, se si esclude O, che era proprio un’infante. A me toccavano le prove più tremende – levare i tappi delle botti, ammazzare creature di piccola taglia, leccare la coda di una lucertola dopo averla staccata, affettare le vespe col coltello, schizzare i panni stesi della F con il fango, provare a mettere in moto il trattore quando non c’erano i grandi. All’età di sei anni ero riuscita a farcela in tutti i campi.
Il mio inserimento nell’arancia meccanica della campagna pisana era riuscito alla perfezione, finchè un pomeriggio in missione ero stata intercettata dalla nonna Gemma, non la mia, che mentre spennava una gallina seduta nel garage mi aveva visto arrivare, essere incitata, inseguire il pulcino e strozzarlo. Poi lasciarlo lì. Nonna Gemma, duecento anni di muscoli e mani che ancora oggi menerebbero tutti gli amici maschi che ho, l’avevo sentita correre verso di me quando ormai era troppo tardi: una pedata. Fragorosa. Due pedate. Tre pedate. Ricordo i salti che facevo con il sedere dolorante. Quattro pedate. Mille pedate. Quando ormai sentivo il buco del sedere sotto la faringe e pensavo che mi avrebbe seppellito nel campo mi aveva fermata (bloccata) per le braccia.
Mi aveva preso per la manina con sguardo pieno di dolore, la nonna Gemma mi teneva sempre in collo e mi scarruffava i capelli, e strizzandomi cone una ricotta mi aveva riportato dal pulcino. Prendilo. L’avevo fatto, fra le due manine, e la seguivo in silenzio. Sperando che i miei non fossero da quelle parti, perchè non oso immaginare la punizione che avrei ricevuto se fossi stata scoperta. Mi aveva fatto camminare fino al pollaio e mi aveva fatto portare il piccolo corpo accanto alla gallina, una delle trenta, credo una a caso. Chiedi scusa alla sua mamma. Quello che fino ad allora era un giochino giallo peloso che correva senza senso, era stato assegnato ad una mamma. All’improvviso un dolore così forte mi aveva preso. Scusa. Poi mi si erano riempiti gli occhi di lacrime e rotto il cuore in briciole, per avere distrutto la vita di quella povera famiglia del pollaio accanto.
Nonna Gemma mi aveva preso in collo, sollevato lassu’ a quattordici metri (la sua altezza) e mi aveva abbracciato forte. Mi aveva detto guarda che dentro tutto, dentro gli animali, gli insetti, c’è la vita: non la puoi tirare fuori te. Se ce l’hanno, non gliela puoi levare: gliel’ha data Gesù. Nemmeno ai moscini? Nemmeno ai moscini. (Ma non lo pensava). Poi mi aveva rilasciato. Quello è il giorno in cui avevo abbandonato il clock work orange di Ghezzano e quello in cui avevo incominciato a temere di pestare cosi viventi mentre ero nel prato. Anzi, colta da redenzione, avevo anche spiegato alla nonna dove si appostavano i grandi per fare quali danni, e si erano visti ragazzini volare col culo acciaccato per metri, nel cielo, fra le urla e le bestemmie della watussa.
Non erano stati convocati genitori, la legge del silenzio imperava, e non avremmo mai tradito la nonna Gemma. D’altronde, se l’avessimo fatto, ci avrebbe aspettato con un machete dietro l’angolo e squartati vivi. Non erano state profferite parole: la lezione era stata imparata, chi da un lato e chi da un altro. Questo per dire che l’altro giorno al ristorante, quando un bambino si è rivolto al maitre urlando lo voglio ora, portamelo ora, ho sentito dentro di me lo spirito di Gemma – invendicato perchè i suoi genitori sorridevano, senza fare nulla. Poi mi è passata, poi ho avuto pena: non riuscirà a lasciare il gruppo dell’arancia meccanica lui, perchè non lo fanno pigliare a calci dalla nonna watussa.
Amy, Amy, Amy.
Un famoso musicista è il padrino di Mezza Pinta, mia figlia, concepita da me più l’Inglese, un pierre che da grande voleva essere Michael Hutchence, poi non c’è riuscito allora gli è diventato amico e si compravano le stesse camicette. Ogni tanto la creatura guarda la televisione e urla guarda lo zio, e tutti sorridono di lato – poverina, penseranno. Poco importa. Una delle regole ferree di un ambiente come quello musicale di cui non si fa mai davvero parte, ma in cui ci si può ritrovare occasionalmente, è quello del riserbo d’acciaio, del negare come fanno i mariti quando gli si trovano le mutande di un’altra in tasca: con la stessa faccia a trapezio scaleno. Continua su Chometemporary
Caffè. Noi. Gli altri.
Mi piace il caffè nella tazza senza il manico, così la devo stringere come le mani di un amico cui si vuole molto bene e non posso fare altro a parte bere la miscela nera – non posso rispondere al telefono o aiutare qualcuno a fare una cosa, raccattare pezzettini di carta o girare la pummarola, che da venti anni e passa so fare solo acquosa. Il caffè ha un effetto, quindi mi piace molto. Il vino, anche, ha un effetto intorpidente, che mi piace molto. Le cose che mi garbano di più nella vita hanno tutte consequenze indipendenti dalla mia volontà: l’eccitazione, il rimanere svegli, la rilassatezza che non ha paura dello sconforto degli ospiti, il catturare immagini che poi sono diverse da quello che era programmato, la musica che entra sotto pelle e ti ricorda senza perifrasi chi sei, cosa vuoi. Se vado all’inferno, la mia punizione sarà mangiare, bere e fare cose che non abbiano effetti evidenti. La mia medicina preferita è il Toradol. Infatti.
Adoro la prima tazza di caffè della giornata, perchè so che ne buscherò molte altre: diluite nel latte e con qualche biscotto al grano saraceno, che quando lo infili in bocca diventa una mappazza da mezzo chilo: odio la pasticceria danese, tutta secca a burrosa allo stesso tempo, che mi lascia le gote vuote. Mi piace la quantità e, come ulteriore passo, la qualità – ma lo stomaco pieno mi dice più del palato entusiasta. Oggi ho il collo bloccato dalla tensione, come al solito, perchè la domenica è il mio lunedì: è il giorno in cui gli ospiti si sistemano nelle ville che affitto e gli impianti idraulici si rompono, l’aria condizionata si inceppa, tutto quello che richiede un tecnico, se può andar male, lo farà – questo nonostante collaudi preventivi e certificazioni, perchè la Legge di Murphy c’è. Il punto è che il dio degli affitti mi vuole ricordare che non esistono gli elettricisti che lavorano la domenica – e che io non risiedo in Olimpo City. Fair enough.
Davanti a questo caffè mi chiedi se la scelta che abbiamo fatto è stata posata, se ti amo, se mi ami, se siamo certi. La verità, quella che non vuoi sentire, è che sarebbe bastato un piccolo bruscolino per cambiare tutto. Ti ricordi quando ti ho detto che andavo a dormire da Cosa? Quella sera c’era anche Coso, no non lo sapevo, e sarebbe stato anche lui un papabile qualcuno nella mia vita se non gli fosse morto qualcuno quella sera. Destino. Oppure ti ricordi quando ti ho detto che non importava che tu ci fossi? Che era lo stesso? Non era vero, ma mi hanno tirato su, sono venuta così, cerco di non forzare mai le persone: ma meno male che c’eri. La verità è l’ultima cosa che ognuno vuole sentire, pare, e quindi rispondo bene. Come tu vuoi.
Chiedimi come mi va il caffè oggi, perchè qualche volta mi piace senza latte e senza zucchero – solo se è fatto bene. Non il mio, quindi, che fa schifo. Ho preso questo da mamma, invece che tante altre cose buone: non so fare il caffè. Ma almeno lei sa fare le lasagne, e la pasta in casa, io nemmeno quella. Camminiamo in città, mano nella mano, a difendere quello che nessuno vuole attaccare a parte noi: noi. Guardiamo la piccola che ci somiglia e ringraziamo il cielo, lo so, anche se non ci diciamo niente. Mi guardi senza parlare e mi chiedi cosa c’è che non va: nulla. Tutto. Qualcosa. Non ho certezze granitiche, e nemmeno tu se non sbaglio, allora perchè mi fai quelle domande: siamo qui ora, no?
Verso l’ultima tazza di caffè, quella della sera che non mi fa dormire, e ti chiedo di potere ascoltare Silencio. Annuisci e ti metti le cuffie per ascoltare la tua musica. Certo. Peccato che abbiamo solo due salotti – ci meriteremmo un castello: adesso andrei nella mia ala a scrivere fino alle quattro, poi starei lì sperando che tu colga il segnale, che tu mi raggiunga con un pò di pane e salame più una bottiglia di vino ottimo, per passare la notte a raccontarci la verità che non ci siamo detti: ce n’è così tanta. Brindiamo allora amore mio, siamo due poveri cosi che resistono assieme con onore, nonostante là fuori ci sia quella strada che abbiamo deciso di non percorrere: la mia verso i conigli e l’orto, la tua verso il patio bianco. Identiche sono. Identici siamo.
Avete registrato il mio accesso alla Redoute, una specie di postalmarket dove vado a vedere che vestiti stanno bene alle persone, magari immagino di comprarli – poi non ho voglia. Avrete registrato anche il mio accesso su Holy Moly, quel sito di gossip, e poi al Corriere. Immagino che il cookie, il biscottino, di YouPorn sia stato depositato nella memoria storica del browser, anche: ero certa di avere visto quella cameriera bionda da qualche parte, e la troverò. Ci potrei scommettere milioni e milioni di euro. Non che io abbia poi voglia di scriverne, non mi interessa quello che fanno le donne con il loro mezzo, salvo quando poi ricoprono cariche ministeriali per cui non sono preparate. Ma solo perchè non sono preparate: credo nella redenzione continua, nella capacità dell’uomo di rigenerarsi una volta al giorno, figuriamoci se mi lascio impressionare da qualche marchetta.
Avete messo un segnaposto anche su Template Monster: è lì che vado a vedere come disegnano ora i web guru quando hanno da rappresentare viaggi, foto, altro. Non lo faccio più, ma mi dispiace parecchio. Sono sicura che avete preso il calco delle mie orme su You Tube, nell’area dei tutorials in cui si impara a riprodurre Jill Scott. Non so se registrate i giri che mi faccio sulle foto degli altri su facebook, ma se io fossi in voi lo farei: quale occasione commerciale più ghiotta di me che vado a controllare le foto in costume e dei matrimoni di tutti quelli che le mostrano. Chissà che capitale si può fare su di me che mi metto al piano e provo a fare quel si bemolle nona settima quarta undicesima sotto sopra. Chi lo sa quali ricchezze spropositate può ottenere una società imparando che amo guardare il sito di Sartorialist fino a che mi ricordo tutto, fino alla nausea, per cercare di capire l’arte del colore che si abbina con le scarpe: non compro nulla, niente, non mi interessa. “No grazie, non mi interessa. Tenete un euro per il caffè”.
Comunque voi fate il vostro dovere e avete capito che io lavoro con gli immobili e allora, in mancanza di indicazioni efficaci, mi sciorinate tutti i miei competitors sulla barra di sinistra: mi spiace, non ci compro nulla nemmeno lì. Anzi, sto religiosamente segnando tutti quelli che acquistano una campagna AdSense su Google con l’intento programmatico di non utilizzarli mai: non posso premiare chi mi intralcia la porta della casina virtuale come un piazzista di Geova, no, lo devo punire. Mi fate apparire anche prestiti, non so come avete capito che il mio conto in banca è allegramente banale, eppure a me hanno insegnato che se non ce l’hai, i soldi, non ci puoi comprare le cose. Che se te li prestano è perchè li rivogliono indietro con gli interessi. E che gli unici che ti fanno i favori sono la mamma e il papà, se tutto va bene.
Insomma mi avete intercettato. Affari vostri: avete sprecato un monumentale quantitativo di energie dietro a una che si deve ancora comprare le scarpe dell’estate e che si è commossa quando le hanno detto “il tuo mac sta esalando l’ultimo respiro”: e che cacchio, siamo stati assieme sette anni con quel monumento alla funzionalità. Datemi tempo. Vi perdono, perchè non sapevate a cosa andavate incontro.
Quello che invece io non vi perdono è l’avere tarpato le ali alla farfalla della conoscenza, alla ricerca su internet che si è involuta da algoritmo ricerca di parole chiave a equazione del bisogno di acquisto. No, non sto cercando l’agriturismo con l’animazione per i bambini, sto cercando una foto di Volterra, perchè non ci sono (ancora) stata. Non sono i Sofitel che cerco a New York, anzi, non ho ancora deciso se starò da un’amica. Nel frattempo volevo saperne un pochino di più, volevo vedere se è possibile stare in casa di sconosciute certificate, che di un viaggio senza nuove amicizie non me ne faccio di nulla. No, non voglio partecipare all’orgia di massa di Groupon e acquistare seicento kit sbiancanti per i denti: si fa dal dentista quella roba, se no il tartaro dove lo metti, sotto la candeggina? Io fumo. E bevo molti caffè. Non andrò in un residence di merda in Calabria a centotredici euro al mese se altri settecento ci vogliono andare, ma mi riservo il diritto di vedere un volantino su un giornale e prenotare per il giorno dopo. Solo perchè l’ho visto in un momento felice.
Non faccio quello che mi dite, quando me lo dite, solo perchè mi fate lo sconto. Non trovo quello che voi volete che io trovi: mi sono infurbita, so quali parole chiave devo evitare per non avere risultati con prezzi annessi. Certe volte voglio solo sapere se esiste una telecamera che filma un panda che cresce in Cina. Tutto lì. Ma vi chiedo: pensate davvero di stare guadagnando qualcosa? Le politiche utilitaristiche e a breve termine involgariscono chi le pratica, non chi le deve subire. Non appena trovo un nuovo motore di ricerca, meno cool, meno scafato, io ci migro – e non sono la sola: e agli inserzionisti che gli raccontate? “Ci siamo persi gli utenti”. Saranno ragni amari.
Il trigger.
Ho l’impressione di avere passato troppo poco tempo in collo. Ne ho la certezza da quando la nonna bassa e la nonna alta se ne sono andate, mi sono detta: ma perchè non sono stata loro più addosso? Perchè a una certa età si smette di saltare in collo alle persone che si amano? Forse perchè crediamo che tutto duri per sempre – o forse perchè si diventa troppo pesanti, in tutti i sensi. Forse perchè scambiamo le cose importanti con quelle futili: una canzone che amiamo a dieci anni, non si dimentica più; e cosa c’è di molto più importante di un suono che rimane piantato lì, fra la memoria e il sentire? Poco, davvero. Per me l’odore nel collo delle persone che amo, impresso qui, nella mia memoria più amata.
Forse perchè il contatto con la mamma e il papà sono dati per scontati, mi sono arrabbiata perchè ne ricordo pochi che siano sufficientemente lunghi: quand’è che ho iniziato a ritirarmi dagli abbracci? Come ho acquisito il concetto di tanto lo (ri)faccio dopo, non lo so. Ricordo il mare, Tirrenia, e pomeriggi di lenzuola fresche e tapparelle abbassate, sul divano letto, per riposarsi. I piedi neri di mamma che si abbronza come una turca. Ricordo i piedini ciccioni di sorella numero uno, con i palmi delle manine rosa. Ricordo noi schierate a doppia w nel dormiveglia pesantissimo che caratterizza il riposo pomeridiano.
“Papà mi voglio cancellare e riscrivere all’università, non voglio essere in ritardo”. E poi il braccio grande di papà che mi stringe le spalle, no amore, non funziona così. I grattini ai piedi che mi faceva nonna, con le dita artritiche ben incurvate e le unghie spesse di cheratina. Con lo smalto rosso dato dalla parrucchiera, certo. L’abbraccio possente di nonna di lassù, altissima, fortissima, l’odore di borotalco attorno a lei, nella sua stanza col pupazzo di Andreotti. Poi la piccola, sorella numero due: ore e ore sulla mia pancia. Lì. Con quel respiro di biscotto e gli occhi che si fidano. E perchè non ci siamo messi assieme nel lettone, una volta, tutti quanti, a respirare in silenzio, io non lo so.
Ho tirato fuori una scatolina, stasera, con una sciarpina rinvoltolata nell’angolo destro. Chissà da quanto tempo non la aprivo, ma l’odore della Vecchia mi si è conficcato nel naso, nelle orecchie, nel centro dei sensi tutti ed ha funzionato da trigger, da trampolino, da fattore scatenante: cosa ci facciamo, nella vita, senza dormire tutti assieme nel lettone? Ho svegliato l’Inglese e ho biascicato qualcosa, lui dormiva e non capiva, what?, what are you saying?: se Dio vuole ogni tanto la circostanze aiutano a sdrammatizzare. Mi sono messa sdraiata in terra, con la sciarpina appoggiata sul naso, a cercare di respirare gli odori della casa in cui sono cresciuta e che oggi pulisco freneticamente per paura che si sciupi, perchè ho timore di non esserne degnaa. Ci vorrebbe che fossimo tutti qui, tutti nel lettone. E’ pure nuovo.
Nutritevi.
Passato il budello di strada che passa sotto il ponticino sbuco con l’auto e i fari sono proiettori, la piazzetta pisciosa è diventata un teatro neorealista. Alla finestra quei due fanno le cose, credo lo facciano apposta a farsi vedere, perchè hanno la luce dietro e lei sta con le braccia appoggiate alla ringhiera della finestra, lui dietro: colpi violenti, a intervalli regolari. Suono di ciccia che si batte addosso. Forse io che passo con la macchina sono parte del piano? Non mi fanno nè caldo nè freddo, mi volto solo per accertarmi che Mezza Pinta non stia guardando. Sta dormendo, infatti, russa. Mi giro di nuovo e guido piano verso l’uscita – un altro budello di viottolo, meno brutto, coperto di rampicante. Con la candida-cistite-infiammazione che mi ritrovo la cosa più sensuale che mi viene in mente è un bidet ripieno di granita al Chilly.
Poi ripensandoci tutti fanno, facciamo, le cose apposta per farci vedere. Come le coppie ben rodate, quelle che lei cucina e lui sparecchia – e guardano gli altri commensali per vedere se hanno capito, il timing, il tuning, il teaming. Oppure lui lavora e lei fa il parassita come quello degli squali, che gli pulisce i denti aguzzi e le pinne – pesce pilota? Mi pare. Lui ama la pesca a quadriglia, e all’improvviso lei sa tutto di esche, lo cita come fonte certa: ha detto Gionni che per la pesca a quadriglia l’orario migliore sono le diciassette e diciassette. E se lo dice Gionni. Il problema è che quando Giovanni diventa Gionni è tutto troppo tardi, è tutto finito. Chiamami con il mio nome per intero, penso sempre quando l’Inglese mi chiama, affinchè non si dimentichi di me dietro uno dei suoi baby, honey e segate varie. E’ più difficile tradirsi quando ci si ricordano ancora i propri nomi, quando non abbiamo ancora trasformato la persona in personaggio, l’uomo in compagno, la donna in assistente? Credo di sì.
Penso all’amatore disamato: la sua parabola eccezionalmente fortunata lo ho partato da vaccinatore di femmine a uomo innamorato e scaricato. Penso alla sua grazia, ancora tutta da riconoscere. Penso al cuscino finalmente nemico, allo stomaco chiuso, alla ruga che gli attraversa la fronte e si va ad appoggiare nel crasso: lo invidio. Penso alla donna che l’ha sniffato, mi piace, poi l’ha odorato perbenino, e via. Kaputt. E lui ora muore. E lei non è nemmeno vestita a festa: che ironia.
Penso a te, che ti sei scelta uno che ti somiglia terribilmente. A come scegli anche i ristoranti: è incredibile, che tu inanelli una serie di posti così uguali, ma cosa vi comunicate, con i feromoni? In tal caso le zanzare vi attaccheranno il doppio. Penso anche alle tue amiche, con gli occhi morti. A me voi mi fate paura, perchè sareste capaci di tutto, e di niente. Siete di ritorno dal tennis o da qualche posto dove vestirsi come un gelato all’amarena è di qualche attrattiva. Forse state andando ad ordinare un tagliere di verdure grigliate. Domani è venerdì, c’è l’aperi-qualcosa. Nutritevi, di qualcosa di buono, perchè avete gli occhi a fessura.
Poi, per ultimo, penso anche a me: non è serata da colonna sonora questa – ed è strano, perchè io pianifico prima la musica e poi le cose da farci. Spengo lo stereo e, approfittando del fatto che Mezza Pinta dorme stravaccata e con soddisfazione, accendo una sigaretta coi finestrini appena abbassati, guidando a quaranta chilometri orario come i vecchi, come guido io. La spengo e la butto via subito perchè mi sento in colpa: ma posso io turbare i suoi piccoli polmoni? La verità è che da quando esiste Mezza Pinta mangio le verdure e fumo massimo tre sigarette al giorno. Bevo acqua. Faccio sport dove non mi possono vedere. Provo a fissare esami, che poi non faccio perchè sono ipocondriaca di quelli seri, ma almeno ci penso. Provo a vivere a lungo per essere lì per lei: che non abbia a crescere senza nutrirsi.
Che non le vengano gli occhi morti quando ha trentanni. Che non baci quello con la macchina più grossa che la porta al ristorante quando ancora non distingue un tartufo bianco da uno nero, ma quello col cuore più intelligente che le fa assaggiare un frutto di stagione. Io, penso, devo essere lì a tirarle le padellate in testa per farle apprezzare la quiete. Poi ripenso a F, che è venuta su da sè, alla perfezione e mi placo. “Non puoi controllare questo”, mi dico, e respiro piano. Devo fidarmi del percorso, della Grazia. Vorrei che fosse felice come una pasqua, che non pensasse mai che io voglio che lei sia questo o quest’altro. Chè a me quelli piccoli col macchinone mi fanno venire l’angoscia: ma come, papà ti aveva dato tutti quei soldi e la sola cosa che sei riuscito a riportare a casa è una berlina? Cristo. Ma magari a lei piaceranno – e io devo stare zitta. Come è difficile. Speriamo che mangi con gusto, almeno.
David Bowie.
Anno Quinto dalla scoperta della pancera scosciata e dalla rimozione frudiana del tiralatte. La vita mi va bene, ho controllato il quadernino delle mie istruzioni scritto a diciassette anni e l’unico punto che ho fallito del tutto è il “ti auguro di essere già a New York” . Faccio consuntivo e mi giro di centottanta gradi: guai a quelli che non si guardano mai indietro, diceva Mentore Uno, prima o poi li tampona un tir di ricordi. Non una bella metafora, ma si capisce bene. Me lo diceva sempre quando frignavo e mi disperavo di farlo: piangi, mi esortava, finchè ti addormenti. Al mattino mi faceva recapitare una colazione pagata. Mi giro, dunque, per incontrarmi qualche anno fa e per attingere gioia: domani è martedì, il mio giorno spreferito.
C sa mettere il disco nella plancia Pioneer con la soddisfazione di chi possiede un’auto d’epoca e la usa per andare alla Coop. Il tappeto bianco e peloso e staglia una cornice netta con il fuori, giardino selvaggio con rose e lumache senza guscio. Legno in terra, caminetto a gas e tutto al posto giusto. In giardino il piccolo cottage, con un fouton e un armadio pieno di fotografie che posso guardare la notte – io dormo qui, al riparo dagli attacchi predatori del mio padrone di casa, che mi chiama il suo migliore amico femmina. La colazione si fa fuori, piovesse o grandinasse, sotto quel cielo di quel celeste sporco che è solo lassù. Coccini bianchi, cucchiaini senza grumi di zucchero, lui col The Guardian e io con l’Independent, lui con il tea malefico, io con il caffè solubile – fonte sempiterna di gastrite e denti marroni. Perderà tutto quando, pieno di quattrino, lascerà questo bendiddio per muoversi in un palazzo a tre piani.
Ma siamo ancora qui, non è ancora stata venduta la casa con la stanza rossa ed i mobili cinesi, dove C è passato da figlio del contadino violento e beone a grande entrapreneur. Non c’è televisione, perlomeno, c’è ma non si accende. C’è un impianto Bose alto come me, e un giradischi con la puntina di diamante. Due scaffali, lunghi: i dischi sono allineati per colore ma anche per pregio. C sfila quella bianca, con David Bowie e L inizia a cantare – mi è venuta a trovare, è sul divano blue di camoscio da scarpe, credo che sia Ziggy Stardust, con quell’inizio perfetto. Un inizio non voluto, ma ritagliato, inventato lì per lì per suonare bene: questo è il genio, la forma che si frega il concetto e poi ci si incarna dopo avere riempito ogni spazio libero. Ziggy si è preso un settore del mio cervello, lì, davanti al tappeto peloso, fra il caminetto e il giardino selvaggio col sole, con L che ride, C che sorride, e a me mi esplode il cuore di gioia.
Arietta pettegola.
E’ andato tutto bene, stiamo tutti bene: un successo. Questa settimana nessuno si è rapito mia figlia per smembrarla in qualche campetto, l’Inglese non guida quindi non ha fatto incidenti, i miei genitori sono in salute e le mie sorelle una è al mare e una sta varando qualche campo, qualche iniziativa. Lo strozzino che mi è venuto a fare visita tramite segnalazione di un amico comune, che da ieri più amico non è, deve avere capito l’antifona e non si è fatto rivedere: per levarmi quella sensazione di unto di dosso mi ci sono volute quarantotto ore. Oppure, di nuovo, sono stata fortunata, e ha deciso di mirare a qualcunaltro. Ho saltato due giorni di ginnastica perchè ho una febbriciattola da stanchezza e cimurro starnutante, irritante, che mi gonfia gli occhi e restringe la testa.
Non ho implicazioni in appalti e non ho mai versato una mazzetta, quindi questo fine settimana non suderò freddo a pensare a quell’affare, a quelle tracce, a quell’avviso di garanzia. Non ho nemmeno uno yacht con licenza off-shore per portarci i miei amici nei venti metri che separano il molo dalla torre di comando, quindi non mi devo preoccupare di cosa farne a febbraio o della pensione dello skipper. Divido la macchina, car-share si chiama, ma ho rinunciato alla quota maggioritaria così non devo parcheggiare, così non devo richiedere il permesso. Vado in treno dappertutto e quando c’è ritardo faccio un sacco di amicizie. Oppure piango di rabbia. Mangio un toast a pranzo da anni, mille, e bevo solo vino buono dopo le sette e mezzo, perchè quell’arietta sonnolenta, pacificata, mi garba portarmela nei sogni.
Non ho cene importanti, a parte una a fine Luglio che mi dà un’ansia terribile, ma ho promesso all’Inglese: ci sarò. Non accetto inviti dai clienti o dai fornitori, per non dovere anche solo una volta mediare un giudizio ragionato. Non sono nel giro dei compleanni dei bambini chic, perchè i loro genitori arraffazzonano feste dove nessuno può smaialarsi in terra, e che gusto c’è ad essere bambini e a dover stare impediti sul parquet – quindi non ho un calendario serrato di regalini appariscenti da fare per queste magnifiche creature, i piccoli, che non sanno nemmeno cos’è un tallone o dove sta l’anima, che carichiamo di significati simbolici per poi stupirci che rubino per divertimento.
Non frequento le SPA, ma solo perchè mi sento brutta in accappatoio. Non frequento le spiaggie, ma solo perchè sono brutta in costume. Le due privazioni comportano che la depilazione di cera non stia fra le mie priorità quindicinali bensì una opzione annuale per quando ho desiderio di punirmi. E comunque la zona fronte retro non si tocca, ma siamo matti, non mi devo mica appiccicare ad un palo coperta d’olio e ballare a gambe aperte la lap. Non che non mi piacerebbe una volta, ma non riesco a toccarmi le caviglie quando sono in piedi.
Non ho un amico cui devo molti favori, quindi posso sempre dire mi dispiace, oggi non è giornata, lasciami dormire a chiunque. Non ho un ombrellone particolare dove voglio essere sistemata, anzi vicino al bar mi sta bene perchè ho sempre sete di acqua fresca frizzante, sudo moltissimo, quindi posso arrivare al mattino e prenotare un posto, a caso. Mi piace camminare, quindi la ztl cittadina del mio paesello, con l’ipotesi di poter fare camminare mia figlia senza che qualcuno me la falci, mi sembra una cosa straordinaria. Non ho la carta centurion e nemmeno la platinum, perchè Mentore numero due mi ha insegnato che al mattino bisogna sapere quanto si deve spendere, compresi gli imprevisti, e quello va portato dietro in moneta. Quindi non accumulo punti, non compilo questionari, non pago qualcuno perchè paghi qualcunaltro per darmi consigli se faccio i capricci. Meglio non fare le bizze e tenerli per una buona cena, con buon vino e buona compagnia.
Non sopporto i cocainomani, che si trascinano dietro ansie e billi ritti per i motivi sbagliati, quindi difficilmente mi invitano alle feste. Da un lato mi dispiace, dall’altro mi solleva dal dover comprare un vestitino estivo, che non so scegliere – l’Inglese dice che non saprei vestire un asino morto. Non so abbinare scarpe e vestiti. Mi metto quello che mi fa felice al mattino, cercando di rimanere rispettosa delle persone che ho attorno – non indosso il tutù quando sono felicissima. Non vado in palestra ma mi piace correre a piedi nudi.
Quindi hai ragione a dire che sono una povera imbecille, una contadina. Una che ha salito lo scalino. Una con i capelli crespi e il culo troppo grosso (largo, dici). Una che ma poi che vuoi che faccia al lavoro, guarda con che macchina di m** gira. Hai ragione a dire che sono una qualunque, anche perchè sono in ottima compagnia: conosco almeno venti persone che potrebbero più o meno stare in questa descrizione. Lascia che ti dica chi sono, queste persone: fanno spesso all’amore col marito o con la moglie – non con altri. Non stanno molto bene con un vestito da sera: vero. Ma vestono gli occhi di sorrisi. Hanno quanti figli rientrano nella famiglia senza tate a tempo pieno. Vanno al mare di martedì mattina e hanno sempre il divano impegnato da qualche amico che passa di lì. Invece di raccogliere fondi per il cancro fanno in modo che i dipendenti mangino bene, che siano ben pagati. Io non ti disprezzo anche se viviamo in mondi diversi, tu cerca di smettere di scrivere quelle cose – sei così pettegola, così cattiva. Eppure (di materiale) non ti manca nulla.
90 (la Paura)
La mia strategia contro la prova bikini è quella di avere creato una società che lavora al suo massimo dal primo di giugno al primo di ottobre. Ho ogni fortuna, perchè posso andare al mare di mercoledì mattina, alle sei e quaranta, noleggiare un barchino e andarmene al largo senza dovere tollerare figli e mariti che non siano cosa mia. E già è difficile coi tuoi. Oppure posso arrivare al primo di settembre bianca come un parmigiano reggiano, con l’aria trionfante di chi ha provato a risollevare le sorti dell’economia internazionale tutto da sola, con due braccia. In ogni caso posso saltare il vacare e lamentarmi acquisendo rispetto dalle folle – le dodici persone che frequento.
Devo stare attentissima a diradare gli incontri amichevoli nello stesso periodo, perchè sono tesa come come una rete da tennis a Wimbledon. “Ah, ma te sei questa qui?” si domandano con gli occhi tutto attorno quando vegeto, a sera, sulla seggiolina del parcheggio, l’unica dove non passo altro che io e i due matti ormai amici. Non respiro, sussisto. Rispondo a monosillabi, sono davvero preoccupata che i clienti siano felici, che Rupèrtolo, il dio che governa i canali stranieri, non abbandoni l’antenna della villa storica sopra Firenze – tanto bella, ma vecchia, disfunzionale. Prego che Tùbolo, la divinità che controlla le rotture dei tubi di domenica, mi sia amico. Che Coop non trasmetta l’escherichia coli ai miei clienti: non ho ancora imparato del tutto a separare pubblico, privato, lavorativo, personale, emotivo, razionale. Sta tutto lì, mescolato in un speriamo che mi vada tutto bene.
Passa un cane senza coda, è di sicuro un segnale nefasto. Lo segue F, che tutte le volte che lo vedo me ne capita una: scusa Madonnina, sono tanto superstiziosa, non lo faccio apposta. Lo ho visto ieri e mi si è presentato uno strozzino in ufficio sotto mentite spoglie, forse a sentire che aria tirava; vendo soldi, mi dice. Annuisco, non riesco a dire niente di quello che mi passa in testa – andate via, mostri. Accompagnato da un cieco e da un povero vecchio che invece di pensare ai soldi dovrebbe mettere in olio l’anima, risucchiata. F lo ho visto stamani, di nuovo, e un gruppo di anonimi orgiastici mi ha minacciato e ricattato telefonicamente per entrare in una villa senza darmi alcun nome – paghiamo in contanti: via, brutti lerci. Non nelle mie ville. (Madonnina, te l’avevo detto che quello porta più rogna di una maga che leva il malocchio).
Passa B a trovarmi, profuma come un mazzolino di fiori anche se si lamenta del caldo. Sembra un pasticcino, lei, sveglia come un furetto, con una ciliegina sulla testa. Mi portava a giocare a tennis tanto tempo fa. Mi piacciono le persone che non cambiano gli occhi nel tempo, e i suoi sono ancora puliti, allegri, curiosi. Tutto il contrario delle fessure, morte, di quelli che sono venuti a turbare il mio piccolo mondo lavorativo: spenti, venduti. Il vostro feticcio è fetido, signori. Scherzavo, non lavoro qui, non vorrei essere qui, io suono la chitarra e sono felice così, portate via codeste carcasse che chiamate corpi, e non vi dimenticate le spugne putrescenti, le vostre anime: vi siete venduti ai soldi, e ora raccogliete quello che avete seminato. Il vuoto. Ma vi supplico, non venite a calpestare il mio orto: c’è qualche spinacio, due o tre pomodori, è tutto da fare è vero, ma ci sfama tutti ed è rigoglioso. Felice.
Mamma mi ha regalato Django Reinhardt, so che al quarto ascolto consecutivo starò meglio. Mi faccio tanti caffè. Oggi niente corsa, oggi niente capelli da asciugare, nessuna depilazione o fondo tinta: io, davanti allo specchio con la mia lieve cuperose, a darmi dell’imbecille: quante volte mi devo dire che il mio stomaco sa prima del mio cervello cosa devo fare? Avrei dovuto dire no, non venite. Avrei dovuto dire una bugia, forse, per mascherare la paura. Avrei dovuto fare la pazza, spaventarli, farli correre via. Meno male che c’è il gelato e che si può ancora andare a letto alle dieci senza che il governo ci metta una tassa. Meno male che c’è la lingua: devo raccontare questa storia a tutti, mi devo fare confortare, non ci sono segreti e non c’è vergogna quando non si fa nulla di male. L’Inglese dice che nulla succederà – e che devo smettere di dire sempre di sì. Io gli do retta stavolta.
Invidia.
Invidio molto, in maniera benevola. Faccio in modo di fare capire a quelli che mi provocano questo sentimento rognoso e necessario le ragioni, tiro fuori con loro i motivi sotto forma di complimento – e spero che tutto vada bene, che non ci sia offesa. Non faccio in tempo a raggiungere un piccolo obiettivo che mi sposto subito su un altro: si chiama ansia da prestazione, incapacita’ di godersi quel che c’e’ per un po’, antitesi del godimento: daltronde il dio motore immobile a forza di rimanere uguale a se’ stesso guarda che finaccia che ha fatto.
La mia amica F, bionda e altissima, ad esempio ha caviglie e ginocchia piccine cosi’. Si mette i jeans d’estate e la camicina del marito, celeste, arrotolata a sottolineare un punto vita miracoloso, taumaturgico. La mia amica G, invece, conosce le domande prima che le vengano fatte: sa da dove arriva e conosce la sua destinazione nella vita, risponde con calma ed e’ capace di dire “non lo so, questo non te lo so dire” senza arrossire o preoccuparsi della reazione.
La mia amica N e’ capace di farsi crocifiggere nel nome dell’amore: e’ una femmina tradizionale, di quelle che sanno di casa felice e ben badata, che si trasfigura sotto lo sguardo del suo uomo: e’ incredibile come le brillino gli occhi, le si arricciolino i capelli corvini, le splenda la pelle sopra il manubrio, appena sotto il collo, come la seta, di notte, nel deserto, quando lui le passa la mano fra i capelli.
Anche la mia amica B, invidio, per la sua tanica infinita di amore, per la vibrazione che la sorregge e la tiene magra come un giunco, come il tronco di un bengiamino lieve e resistente: una geisha vera, capace di profondita’ infinita e talentuosa, che preferisce servire sake’ invece di esportare chilometri di seta in Occidente. Eppure ha il patentino.
Non invidio gli uomini, coi quali condivido il sogno eroico prima che erotico, la smania di grandezza e l’incapacita’ di essere in un posto, a un certo momento, completamente. Non li invidio perche’ la solitudine come rimedio e’ un posto dove si elucubra troppo e si prendono decisioni che raramente portano a qualcosa di concreto.
Siamo in molte, oggi, donne che si trovano ad affrontare pensieri complessi e problematiche econonomiche, quando non fisiche, ignote alla letteratura degli anni passati: con modelli beleniani da rincorrere e doris day contemporanee sposate a uomini importanti, siamo invise agli uomini perche’ simili a loro e distaccate dalle donne che parlano di vestiti, pene d’amore e cellulite – perche’ non abbiamo argomenti convincenti, mica per altro.
Non ho bene capito cosa sia una donna, oggi, ma ne conosco una decina che mi piacciono un sacco, cui mi ispiro, che invidio e che cerco goffamente di imitare. Dice F che dietro una mamma c’e’ una donna, e cerco di ascoltare anche la me che si trova la’ sotto a prescindere da famiglia e figli. Dice mamma che donna che dura, non perde ventura. E ci sto pensando sopra.
Profu(ma)mi.
Mi hanno spruzzato in profumeria di una cosa terribile, una via di mezzo fra l’odore di mutande di una prostituta in stato avanzato di decomposizione e un campo di girasoli attorno ad una discarica di pesce. Mi pare fosse Mugler. Mentre mi si chiudeva la gola e cadevano strinati i peli del naso sono riuscita a sillabare un gh..azie alla signorina che si era nascosta dietro un condominio di carta e mi aveva teso un attentato come Cato Fong. Stavo cercando una cosina per la festa della (mia) mamma, ma ho dovuto ripiegare sull’uscita e rimandare per mantenere quattro sensi su cinque – l’olfatto è compromesso per sempre.
Dentro la profumeria, i pochi secondi che sono riuscita a sostarci senza che qualcuno mi spruzzasse con l’intento di abbattermi, c’era un bel viavai di figlie di ogni età e un gruppetto di russe attorno a dei barattoli che costano cinquecento euro a pacchetto e che ho scoperto stamani essere anche qui, nella profumeria del paesello. La scatola della cremina, mi pare, riporta la faccia del tipico uomo caucasico fra i quarantasette e i settantasei con un certificato di prostata dolente, il packaging è identico dovunque. Mi è venuto in mente di quando chiedevo alla mia amica F come facesse a darla così bene, con tanto profitto, e lei sogghignava – senza mai rispondere, in verità, ai miei questionari.
Ho ripreso per la manina Mezza Pinta e ci siamo incamminate verso lidi meno odorosi. Mi è venuto in mente di quando c’erano le regate a Punta Ala e a nonno regalavano borse con dentro un sacco di profumo, terribile, da parte dello sponsor della gara. Era un profumo maschio, come di ascella sudata e poi ricoperta di incenso e rosmarino. Avevamo la casa invasa da queste scatoline nere di profumo e da borsate di magliette, polo, deodoranti; nonna aveva dovuto prendere un’aspirina, lei che vinceva la polmonite con lo sguardo, per superare il malditesta. Non capivo le regate – e nemmeno il mio nonno, che si tappava gli occhi per paura che qualcuno si inabissasse quando prendevano curve troppo strette o andavano troppo veloci. Mormorava che banda d’imbecilli guardando le corse col binocolo. Era il comandante del porto, che aveva fra i vantaggi inattesi quello di status di nipote di: una manna. A chi critica i figli di dico quello è nulla, rispetto di nipote di al mare, d’estate.
Portando la bimbina a scuola di recente sono entrata nella scia di profumo di una signora, mia coetanea, tutta vestita di bianco. Una bella signora dal sorriso sincero e i capelli stopposi, come si conviene alle persone morigerate. Mi sono fermata e ho chiuso gli occhi per incamerare l’odore più possibile: fra venti anni, magari, dentro una profumeria, vedrò una bottiglietta meno aggressiva delle altre, me la spruzzerò sul collo per provarla e mi ricorderò così, senza filtro, di una mattina in cui ho fatto sessantaquattro passi fra un cancello e un portone per accompagnare il mio cucciolo a imparare le cose.
Questa settimana sono andata ad ispezionare una proprietà e a fare le foto: abbiamo fatto preparare ogni stanza con le luci accese, le finestre aperte, i copriletto stirati perbenino, i fiori freschi nei vasi, i vassoi con le tazze da colazione messi sui pouffe in fondo al letto. Abbiamo illuminato ogni stanza con le lampade, per dare l’dea di una giornata di sole, fuori, e di una vita felice, dentro. Per dovere di cronaca ritraiamo anche i bagni di servizio, ecco. Dentro uno di questi c’era un flacone di profumo senza etichetta e non ho resistito, a rischio di spruzzarmi con la candeggina: due spruzzi vigorosi, convinti, e mi sono ritrovata avvolta da Fahrenheit. Della fragranza mi sono liberata qualche ora dopo, per quanto riguarda invece lo stordimento ci ho messo qualche giorno.
Click.
Voglio spendere una cifra che non mi posso permettere nella migliore macchina fotografica che si possa reperire. Vorrei anche poterla pagare in quindicimila comode rate. Vorrei anche portarti delle fotografie stampate per sapere come si fa, esattamente, ad ottenere quell’effetto, con quella luce. Inizia così la conversazione più eccitante che io abbia affrontato negli ultimi anni, con E, fotografo e titolare di una bottega con tante macchine e accessori. Mi porta nella stanzina. Non ho bisogno della migliore macchina del mondo, inizia a spiegarmi, ma di qualche obiettivo e di un ombrellino a luce tipo neon per ottenere quell’effetto che piace a me, di luce calda, avvolgente, naturale. Riprenderemo la nostra discussione il prossimo martedì, abbiamo un appuntamento, e questa convoglierà ad acquisti smodati perchè lo so, lo voglio.
Ci sono migliaia di tutorials in internet per trovare consigli a riguardo, ed occasioni imperdibili a venti euro, il punto è che la parte della contrattazione, dello scegliere la macchina seguendo i consigli di un maestro, il trattenersi nel negozio con persone attorno che vogliono davvero che tu esca con la crema della crema al miglior prezzo, questo per me è parte fondamentale della cosa. E tira fuori ombrellini e lampadine e nella stanzina comincia a farmi vedere effetti, tocca qui, mi dice, rimane freddo: la luce speciale dell’ombrellino rimane fredda, è vero, ci metto la mano come quando da piccino la passi veloce sulla fiamma per vedere se è vero che non ti bruci. Ci vuole il cavalletto, certo, comprerò anche quello. E la pila nuova. E’ vero, dico. E una custodia di pelle forse.
La mia macchina fotografica mi somiglia, è un vecchio modello che funziona più di quello che dovrebbe, ottiene risultati stratosferici nelle difficoltà e rabbuia immagini facili, dico, che riuscirebbero a un bambino. E’ tutta graffiata perchè se la porto la lascio fuori dalla sua (orrida) borsina: camminiamo assieme, io e lei, alla ricerca della bellezza umana. Mi piacciono le persone, e piacciono pure a essa. Il flash si alza a caso, ma ha un buon senso del risultato. E’ una macchina di pancia, che sprezza il pericolo e chi lo teme. Quella che passa una giornata a fotografare una persona, finchè non viene fuori la sua bellezza unica e irripetibile, finchè non si sublima dentro la mia lente, sono io. Quella che poi sta due giorni a catalogare ogni foto con nome e parole chiave (Marina, Sorriso aperto, fiducia, empatia) sono sempre io. E’ importante sapere bene cosa si trova quando lo si cerca.
Così Martedì, io e il mio maestro, ci scambieremo le due cose più amate l’uno dall’altra: la sua competenza, la mia fiducia. Il suo parlare e il mio silente ascoltare. Il suo contrattare, il mio accettare. Non gli dirò che faccio foto dalla mattina alla sera e lascerò che scelga per me un modello sottomisurato, perchè parte della gioia del fare è il suo impedimento. Ascolterò il suo consiglio e non comprerò il flash con le palline fatto a cerchio, che costa duemila euro – per ora; ci ho messo gli occhi sopra e lo avrò, al solito, quando mi pare. Uscirò senza nulla, tendo a ripassare poi, sapendo che la cosa è lì per me. Che è mia. Gioco al gatto e al topo finchè mi è concesso. Ma torniamo alla fotografia.
Attorcigliami.
La coppia sui diciassette si siede in pizzeria. Si toccano le dita della mano in segno di disperazione: il piatto è pieno di mangiare, non di pezzi di loro stessi. E’ un cantico carnale e irripetibile: difficilmente, dopo, succederà di possedersi come in quell’età, senza progetto – senza capire; da grandi si impara a giustificare le cose anche in maniera ineccepibile, a dire quello che è giusto, ma il desiderio di ammazzare quello davanti per amore e infilarselo in bocca sotto forma di cotoletta cruda, quello è roba svanita, specialmente se pensiamo ad anni di attese e speranze patiti alle superiori. Infatti io credo che passati i trenta si debba smettere di parlare, e mettersi in ascolto religioso dei bambini delle medie, che sono creature sensuali e istintive.
Lei è così truccata che sembra una vegliarda appena uscita dalla fontana della giovinezza. Lui ha la testa trapezoidale. Ha la giacca. Lei ha le calze marroni chiare del mercato e le scarpe da vecchia col tacco, lo spacco, e le unghie rosse e lunghe che mi viene voglia di pigliarla in collo e aggiustarle la frangia, mentre le stacco quelle protuberanze di cheratina. D’altronde non bisogna più cacciare le prede nei boschi e affettarle a mani nude, le unghie sono superflue. Assomiglia, la ragazzina, a Jennifer Garner. Parecchio.
Si perderanno fra breve, dopo che i loro corpi si sono detti tutto quello che è possibile, e faranno finta che quell’amore giovanile sia solo quello. E’ l’imprimatur, invece, e bisognerebbe stare attenti a giocarsi bene la carta baci senza preoccupazioni. Ecco, forse è questo che mi manca e di cui non posso lamentarmi – ho tutto, oggi: abbandonarmi ai baci copiosi di qualcuno di cui non conosco i trascorsi e i futuri. Qualcuno che non vuole esserci fra due ore e non c’era un anno fa. E’ la primavera, con buona pace dell’inglese, e le coppiette che giocano a fare i grandi non solo mi appassionano, ma mi attorcigliano lo stomaco.
“Lui nel suo paese è bello” mi dice R, il mio mentore e mecenate – non posso aggiungere amico, perchè non è mio amico. E questo mi sconvolge più di altre sue conoscenze finzanziarie e linguistiche, ad esempio: il fatto che sappia (anche) che quella tale persona, che porta i fazzolettini a giro ed è alta meno di me, sia un maschio parecchio appetibile. Mi spiega perchè. Lo ascolto sperando di prenderlo in castagna, in fin dei conti il mio compito è quello di ucciderlo e rinascere, migliore, dopo averlo superato – per ora nulla di nulla. C’è da dire che mi sento sempre più felice se dintorno a me c’è un uomo sulla cinquantina, sessantina, settantina: mi sembrano più tondi, più simpatici. O forse ho avuto a che fare con troppi giovinotti in odore di successo e col testosterone al naso per potere apprezzare la categoria gioventude maschile, non saprei.
R ama, riamato, almeno dieci donne. Le tiene tutte a bada in qualche maniera, ne ama una più di un’altra a periodi, poi al momento di convolare loro scappano: considero genio puro l’arte di liberarsi di una di noi invitandola a convivere. Il punto è che lui è molto impegnato a vivere una vita piena di significato e retta, non conosce la bugia, per potersi dedicare pienamente a questa o quella che, anzi, si vergognano dei loro pensieri esclusivisti. Forse è un idiota, forse è un genio: non è per le sue virtù amatorie esercitate sulle mie colleghe che gli ho regalato una dei miei telecomandi, ma perchè mi ha sfasciato di cattiverie e affetto. Tutto appropriato e ben bilanciato. Mi ha levato gli occhiali scuri. Mi ha ascoltato frignare e dopo ha assestato un fendente di parole che non posso dimenticare. Mi ha riconosciuto: io camminavo tranquilla, e qualcuno ha perso un pò di tempo con me, per dirmi hey, io ti ho visto – non è questo un dono del destino?
A breve non ci incontreremo più, parte convinto per quel paese di cui ha riconosciuto un abitante affascinante. Mi chiamerà prima della partenza e mi racconterà di me, mi lascerà una fetta di sè – ha avuto una vita straordinaria, incluso il rifugio politico e il successo economico – e avrà quel tono rassicurante di chi ti vede per il poco che sei, e ti lascia vivere. Passiamo, camminando, il ragazzo con gli occhi giganti e le sopracciglia come un rigo di uniposca, e stiamo in silenzio per minuti. C’è il sole e fa freddo, un tempo che si presta bene a cambi repentini e decisioni affrettate, come piace a me. Ti piace la fotografia? Mi chiede. “Si, parecchio”. Ricordati di andare vicino alla faccia, tu che hai paura dei contorni decisi. Cerca di rischiare, almeno lì, e chiedi perlamordiddio senza pensare di sapere già la risposta. Per favore, levati il traduttore automatico dal cervello una buona volta. Dice. Io ci provo.
Artefatto.
La mia amica C ha preso una foto di una modella e l’ha portata da F, il chirurgo plastico con sei ambulatori sparsi in qua e in là. Gli ha detto “voglio diventare così”. Ha scelto bene, C, perchè ha preso un prototipo simile a sè stessa: ossa piccole, naso piccino, occhi all’asiatica, spalline muscolose. E’ partita con una liposuzione, ha poi ricostruito le cosce, le ginocchia, si è dermoabrasa la faccia (si è fatta levare il primo strato) e ha lisciato i capelli con quella tecnica cinese, credo, che costa mille euro a botta. Ha iniziato a fare jogging al mattino e alla sera, ha chiuso con gli ascensori e calato di due taglie da una già ragionevole quarantaquattro.
La sua evoluzione (dis)morfica e un quantitativo sostenuto di lampade l’hanno trasformata in una tartaruga ninja, tipo, coperta di rughe e verde alla luce del sole. Indossa vestitini di seta con la cintura in vita che le stanno benissimo, e da dietro sembra una indossatrice: davanti è tutta un’altra storia. Si è rifatta le tette, alla fine del percorso, perchè la magrezza porta con sè tante belle cose ma di sicuro mortifica la zona torace – a meno che non si sia Helena Christensen o Bar Rafaeli. Quindi adesso sembra una tartaruga ninja con due riproduzioni della cappella sistina appoggiate sotto il collo. Il sedere nemmeno si muove quando cammina, dal tono muscolare acquisito. Invitarla a cena rimane poco simpatico, perchè nonostante non mangi nulla ordina il piatto più caro e lo lascia lì, dopo avere mosso pezzettini a destra e sinistra – fare le pecorine.
Con questa carena si è cuccata uno dei maschi alfa del paesino dove vivo: macchinone, poca spesa molto ristorante, stecche di sigarette, coca, viaggi, gioiello, pasticcini la domenica. Lui le ha impalmato varie dita, poi le ha appeso dei vetri alle orecchie, poi le ha aperto un conto al negozio di biancheria intima dove lei sceglie e lui passa dopo. Si è presa una Mini, di un colore sgargiante, e non mette scarpe senza la zeppa. Ha le meches, più chiare, come Jennifer Aniston, e i capelli lunghi fino alle scapole che si possono legare o lasciare sciolti e morbidi: in ogni caso ci pensa R, il parrucchiere col salone moderno. Lavarsi i capelli a testa in giù, e poi dove, nella vasca? non è proprio cosa.
C è una brava ragazza. E’ una che le sue amiche sanno che c’è, a meno che il loro fidanzato sia più ricco del suo – in quel caso C ha già comprovato di essere la migliore, mettendo a disposizione un sacco di buchi che le altre nemmeno se lo immaginano. Ma se, come capita quasi sempre, i rispettivi fidanzatini sono poveretti o meno abbienti del maschio alfa, allora c’è legame serio e duraturo. C non ha molto tempo da perdere in chiacchiere, un corpo come quello merita una manutenzione straordinaria ordinaria, quindi non è che la trovi al bar a ciaccolare o a dire cattiverie, perchè è impegnata e parecchio. Mi chiedo se C avrebbe avuto un futuro meno dismorfico, più incline alla sua natura bonacciona e tutto sommato cicciottella se fosse nata in un Paese senza elettricità, senza la televisione. Mi chiedo anche come lei intepreti la vicenda di Banana, il maschio alfa italiano per antonomasia, il vecchietto arzillo con il pipi ritto. Sarei curiosa, anzi, glielo chiederò.
Devo molto alla moglie dell’inglese, presto (?) ex moglie: lo ha preparato come un allenatore atletico alla sua seconda vita – spero ultima, quella con me. Questo vuole dire che lo ha patito come un difetto congenito quando beveva, diventava molesto, rientrava tardi e spendeva piu’ del previsto – l’inglese non fa parte della schiera dei probi viri, direi piuttosto che e’ un vero ragazzaccio, o piu’ semplicemente un uomo egoista quanto divertente. Lo ha menato, non abbastanza secondo me, e gli ha buttato i vestiti nella spazzatura quando li trovava appallottolati nell’armadio comune. Ha anche cercato di strozzarlo e ha passato settimane, anni d’inferno cercando di piegare quel filo di piombo liquido. Lui l’ha tradita, lei lo ha tradito, si sono riappacificati, hanno deciso di figliare, poi nulla, insomma hanno vissuto tutto il repertorio comune.
Ci siamo conosciute in un hotel, mi pare il Metropolitan, e lei indossava scarpe rosse col tacco mezzo, aveva il ginocchio fine e le gambe lunghe – dettagli che l’inglese aveva volutamente nascondermi per non fare nascere il senso di competizione o, piu’ verosimilmente, frustrazione. Balbettava, lo fa sempre quando e’ nervosa, ed era un palmo di mano piu’ alta di me. Poi mi sono ricordata di avere i tacchi: due palmi di mano. Ero incinta, all’epoca, con un discreto buzzotto, e avevo appena incontrato tutto il di lei passato: i loro amici di prima, le coppie che tradiscono lei e rimangono attaccate a lui, quelli famosi, quelli di quindici anni di loro due assieme. Avevo dormito a casa di G, la sua amica del cuore, e cenato in tutti i ristoranti in cui lui l’aveva portata. Lui l’aveva fatto apposta, of course, gli uomini fanno il taglia incolla esistenziale con grande talento.
La conversazione era stata un po’ freddina, ma avevo letto cose buone e lei pure. Le avevo detto: vi lascio da soli, avrete tante cose di cui parlare, e poi mi ero andata a strafogare di cioccolata alla mostra. Ripensandoci puo’ una mostra essere edibile? Era stato il primo incontro, poi ci eravamo viste di nuovo finche’ alla fine era scoppiato l’amore e avevo capito di preferire lei a lui: piu’ compassionevole, piu’ diretta, piu’ pratica. Sarei andata in vacanza con lei, non con lui. Difatti era venuta parecchie volte a casa mia in Toscana, e una sera che l’inglese era rientrato in condizioni poco raccomandabili alle sei del mattino l’avevamo riempito di cazzotti assieme, cosi’ come si fa nelle famiglie allargate perbene. Il giorno dopo gli avevamo lasciato il brodo pronto ed eravamo andate per musei: lei odia quello che io amo, uno spasso.
Nel corso della nostra unione a delinquere ho chiesto all’inglese un’unica condizione: sincerita’ assoluta. Non credo che dire la verita’ dura e pura sia un valore in se’, e in genere se ne fregia chi non ha molto da accettare, ma so che quando ami qualcuno lo vuoi (devi) proteggere dalle sorprese, dalle figuracce: dimmi tutto quello che hai combinato, quello che non sveleresti nemmeno sotto tortura. Dammi tutto il bagaglio lurido, e’ con quello che partiamo. E cosi’ e’ stato: ce le siamo dette, subito, tutte. E questo mi ha aiutato parecchio ogni volta in cui mi hanno punzecchiato a sangue, come fanno quassu’, con il sorriso sulle labbra e gli occhi chiusi a mezza luna, in un atteggiamento pseudo protettivo. Ho una risposta unica per le stoccate, ed e’ sempre “so tutti i particolari, lo trovo eccitante a dire la verita’”. Piano piano hanno smesso di rivelarmi quello che sapevo gia’ e mi hanno fatto entrare nelle discussioni senza cercare di tagliarmi le gambe: avere una vita sociale soddisfacente, interessante, e’ irrinunciabile alla soglia dei quaranta.
L’inglese ha visto sbudellare il mio intestino (tenue e crasso credo), durante il cesareo, e il mio grosso grasso culo nudo andare su e giu’ nel capitolo piu’ animale della mia esistenza: il travaglio. Mi ha visto piangere per il dolore delle puppe gonfie di latte e ha avuto il privilegio di osservarmi urlare come un cane selvatico a delle mutande lasciate in terra. L’ho assistito nella sua stitichezza ospedaliera post operatoria e l’ho visto andare in depressione violenta quando ha perso il lavoro: non c’e’ niente che mi preoccupi nel futuro, non c’e’ niente che non sappia o non abbia visto – e viceversa.
Eppure ho una convinzione: conosco, del suo cuore, un millimetro quadro. Dei suoi sogni, avanzi e bricioline. Se qualcuno un giorno tornasse a casa con una foto di lui quando era una donna, potrei solo dire “a questo non c’avevo pensato”. Se un giorno bussasse alla porta un bambino che gli somiglia penserei “ma quando ha trovato il tempo e,soprattutto, i soldi”. La domanda che non mi farei mai sarebbe: ma come e’ possibile. Tutto e’ probabile, tutto e’ ammissibile, ogni cosa puo’ accadere – e l’amore non ha nessun controllo su questo, la nostra mente non modifica gli eventi. Siamo tutti capaci di costruire un mondo parallelo in cui difenderci da quel linguaggio familiare che ci inebetisce, da quelle concessioni emotive che doniamo e togliamo senza merito o motivo. E difatti, quando una storia lunga finisce, il problema vero e’ riappropriarsi del vocabolario per esprimersi fuori dal contesto protetto: si diventa di nuovo one in a million – e non c’e’ piu’ quell’altro che ti dice che non e’ vero.
Avere un mondo laterale, selvaggio, basico, aiuta a portare contenuti in quello quotidiano fatto di lavoro e di famiglia: non siamo stati generati per quest’ultimo, ma e’ quello abbiamo imparato a fare, cosi’ come il pesce pilota pulisce i denti al pescecane. Ci salva, il nostro giardino segreto, quando scopriamo che il tenero marito che pareva pensare solo alle esche amava in realta’ vestirsi di lattice e aveva una padrona, o che la moglie che abbiamo tradito con sensi di colpa si faceva pagare per farsi vedere nuda online, su un circuito rumeno. Ci fa sopravvivere, quando uno di nostri cari muore o si ammala terribilmente, perche’ nel mondo selvaggio c’e’ solo oggi sono qui, domani non si sa, e finche’ non si muore si vive. E’ una fonte d’acqua cristallina, che va a bagnare la spiaggia del nostro ordinario rendendola feconda, e che va difesa a tutti i costi: gli uomini lo sanno fare, le donne ancora no. Quasi per niente.
Un buon modo di fuggire questo oblio possibile, la perdita del nostro paradiso in terra, e’ abbracciare il passato di chi ci prepariamo ad amare e accondiscendere alle magagne presenti di chi amiamo da molto tempo – causa affezione o parentela. Che ci sia comprensione, massima. Di modo che quando impazziremo noi stessi e decideremo di appoggiare un culto vegano-buddista, qualcuno ci rimarra’ accanto e, se ce la mandano buona, provera’ a mangiare i fili d’erba con noi. Da qui la solidarnosc con la futura ex moglie, tante le volte: brucare in solitudine puo’ essere parecchio triste.
Se vado all’inferno questo avrà la forma di una spiaggia con gli ombrelloni ad Agosto, ci saranno solo libri scritti a dialoghi con le virgolette e una connessione internet a 33,600 con modem difettoso – ci sarà la telecom, quindi. Infame, sempiternamente maledetta sia la Telecom e chi mi priva del mio cablaggio ottico quotidiano. L’idea della vacanza di per sè già mi atterrisce: presuppone un periodo non vacante, impegnato, ovvero distingue la vita in obbligo e divertimento, senza un continuo. Ma se a questo aggiungo la visione di migliaia di nani avvolti in crema bianca protettiva con adulti che corrono loro dietro, se richiamo ai timpani della memoria il suono stridulo delle urla subito dopo il pranzo, mi ricordo perchè promisi a me stessa di non figliare mai: l’inestetismo esistenziale si accompagna alla prole. Se poi si parla della prole altrui, si arriva all’offesa.
Non volevo diventare mamma, l’avrei fatto solo per salvare una storia che si stava chiudendo e non avevo la più pallida idea di cosa mi aspettava. Per un anno intero dall’arrivo di quella lì, così la chiamavo dentro di me, pensavo che mi sentivo violentata, stragiata, come una mucca che allatta incatenata alla griglia d’acciaio, in un allevamento intensivo senza terra. Ho perso il mio corpo, il mio numero di piedi; il mio seno bellissimo è diventato una palla doppia, dolorosa e quando si è sgonfiato ha perso turgore: non è più il tempo della canottiera senza reggiseno, e nemmeno del vestitino rosso corto di lino. Ho abbandonato il sonno pesante per sempre aprendo la porta alla preoccupazione perpetua, e mi sono trovata a desiderare la morte fisica del mio compagno affinchè comprendesse un pezzettino del mio dolore, della mia rabbia. Finchè non ci sei, non lo sai – non ne sai niente. L’unico sollievo è pensare che quelli che ti hanno abbandonato – le amiche del sabato, gli amici della montagna, la compagnia del mare – ci passeranno. E tu ne sarai fuori quando loro inizieranno la discesa verso la Caienna. E tu saprai – e loro sapranno che tu sai, più importante.
Tutto passa un giorno, e viene superato da una nuova sensazione che non voglio definire per pudore, ma che spazza via ogni livore. In quel momento si fa come i bachi pelosi: si lascia lì una pelle e si diventa un insetto volante, apparentemente più bello ma in realtà semplicemente più visibile quanto più proiettato alla morte. Non conta più tanto, a dire la verità, se non nell’ottica non vorrei lasciarlo solo, perchè esiste quella pulsione, quel delirio di emozioni che un figlio rappresenta. Questo è il momento in cui ci si gira verso i propri genitori e si piange di vergogna, di riconoscenza: ma come hanno fatto a essere così bravi? Come avete fatto a sfangare tutto? Cresce la gratitudine, la comprensione. Conta solo una cosa: che i figli stiano bene. Devono stare bene. Che mangino. Che cachino. Che possano camminare in qualche modo. Che abbiano possibilità di studiare in una scuola decorosa. Che siano capaci di guardarci negli occhi: più di tutto.
Maledetti populisti che avete la formula della famiglia perfetta, a breve succederà una rivoluzione vera, altro che tutte in piazza con le dita a forma di figa e segni della pace sulle guance: sta per arrivare il giorno in cui la gente inizia a fare quel che deve fare senza delegare agli Azzeccagarbugli. Il giorno in cui la chiesa si leva il cappello dorato e comincia ad aprire le porte delle parrocchie per farci dormire la gente che ha freddo. Arriva il tempo della responsabilità e quello della ragione, che è il vestito migliore del cuore, in cui si entra dentro questi posti dove ci sono i bambini e ce li portiamo a casa: e gli facciamo la minestra, e gli diamo gli scapaccioni, e li obblighiamo a venire la domenica dai nonni a quei pranzi terribilmente meravigliosi, per insegnargli che la famiglia non è oggettiva, ma è la percezione del dintorno. E poco male se papà è sposato con papà, quando si vogliono tanto bene – state buoni se potete, tutto il resto è vanità.