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Piccolo inno alla gioia.

Juanita de Paola

La strada è libera e c’è la canzone con la chitarra molto alta: si sente che c’è aria di rivoluzione quando uno strumento prevale sugli altri. Infatti la notte fuori è tersa e buia come la buca di un tasso: i pensieri sono chiari, la gioia mi esplode nello stomaco. Sono io, è la macchina, è la musica alta senza che nessuno possa chiedere di abbassare – è anche la sigaretta più pesante del solito, perchè io non ci so fare coi distributori automatici e mi ritrovo con due camel 100’s invece che le pall mall celesti. Mi emoziono, io: sbaglio la benzina, non so aprire il tappo, non so selezionare. Ho sempre paura che non mi rendano il resto, a me che calcolo i centesimi, e difatti stasera ho dovuto utilizzare il credito di dieci euro per un altro pacchetto. Ho sbagliato anche quello.

Mi fermo lì e penso che la mia vita è così: mantengo il buon umore con due pacchetti di sigarette sbagliati, ma ancora non ho capito qual è la tecnica per ordinare, ottenere proprio quello che voglio. Ho il pudore dei desideri, mi contento. Non importa. Faccio la strada normale, vorrei che durasse tutta la notte. Mi ricordo di quanto sia bella l’America, aldilà di tutto, della sensazione che ti dà quando la percorri in macchina e passano ore così, senza un arrivo. Quella potenza del sapere che si può provare, è lecito pensare in grande: te lo impediranno, certo, ma non sarà un foglio che non hai firmato. Piuttosto qualcuno che ti dichiara guerra – ma quello è più facile da affrontare.

La notte che abbiamo camminato a piedi nudi per New York ho pianto spesso, perchè c’era talmente tanta gente che pensavo di essere morta e risorta. C’erano anche queste porte piccole che sembravano chiamarti l’anima di sotto, da qualche parte. E con la testa in su c’era il grigio, poi gli edifici altissimi, poi tutto il resto dell’universo. Eravamo tre, la prima volta, e due la seconda. Un pò come in carcere, quando con un filo di cotone e il vuoto siderale si fanno nascere un alfabeto e un traffico illecito di stupefacenti, l’animo umano dimostra nelle piccole cose di essere pieno di risorse. Un pò come gli esseri umani, che fanno partorire una galeotta e la separano da un figlio per farla tornare in galera, l’animo umano è pieno di bottino, e punisce quello che non sa risargire. Stasera, nella mia macchina con la mia musica e la notte ruggente, là fuori, penso al mio filo di cotone, al mio alfabeto, al mio traffico illecito di gioia senza motivo apparente. E che duri.

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Che bellissimo.

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Più di tutto mi piace leggere di altri quando non mi sottopongono i loro manoscritti. Per questo mi piace leggere i blog, snasare fra i tag, trovare storie ordinarie: non amo quello che sbuca fuori, che è troppo diverso. Mi piace la signorina Felicita, mi appassiona chi si contenta, chi fa un lavoro invece di un altro perchè così può tornare a casa a suonare la fisarmonica – deve essere per questo che faccio quello che faccio. Non c’è coerenza su questa terra. Fra i pensieri in rete favorisco quelli di autori di età non verdissima, dico, dai cinquanta in su, salvo pochissime eccezioni. Mi commuove ancora leggere i resoconti del primo viaggio fiorentino fatto dalle ragazze di sessantanni, che hanno messo da parte un bel pò ed eccole qui, a girellare per i negozi di artigianato sognando una nuova vita medieval-romantica.

Mi chiedono sempre la stessa cosa: troverò un uomo italiano come quello dei film? Sì, asserisco sicura. Perchè loro stanno pensando a La Dolce Vita, mentre io ad Alien 4. Rinasce una grazia bambina nelle donne che viaggiano dopo essere state incatenate alla famiglia tutta la vita: figli o non figli stiamo parlando di un master in real estate developement, crisis management, food and beverage stockage, human resources recruitment, lungo almeno trent’anni – a un uomo gli danno centomilaeuro per un lavoro del genere. Alleggerite dai pensieri, per almeno un mese, fumano sigarette camminando, bevono troppo, sognano con gli occhi di essere col cervello e il cuore di ora, ma col corpo dei trenta, per una sera. Qualcuna, più smaliziata, si porta i tacchi alti: con i soldi per cento taxi in tasca, si può fare eccome.

Così il giardino dei Boboli ha spalancato le mascelle alla mia amica C, che ha perso la figlia, la unica, di vent’anni per un’operazione di routine: allergica all’anestesia se n’è andata così, come un respiro affannato. Faceva le foto ai fiori, la bimba, era una designer di giardini, e quando siamo entrate nel parco C ha cominciato a tremare, a piangere, a pregare e anche a bestemmiare. Poi c’era S, che il marito le ha rubato tutto anche la moto, e ha deciso che verrà qui – le serve un piccolo appartamento con mansarda, bisogna avere poco spazio sulla testa per potersi difendere dalle avversità. E anche B, la più grande delle tre, che non smetteva di avere la diarrea. Cancro, mormoravano le altre a pranzo, quando lei andava al bagno. Poi lei tornava e lei aveva gli occhi di chi è sano ma sembra malato: quella è una stirpe che dura duecento anni.

L’esitare, davanti ad un panorama famoso, davanti al David, è lecito. Quello di cui ci siamo convinti è che si debba dire qualcosa di straordinario davanti ad opere d’arte o viste mozzafiato, invece è una boiata: “che bello, wow, oddio” sono esattamente quello che Michelangelo, Vasari e Cristo hanno voglia di sentire da lassù. Ma te l’immagini che palle il commento critico alle colline del senese. “Guarda caro, gli ossidi ferro e argilla: che nuances. Certo, nota che finezza questi grani, osserva l’indice di rifrazione”. Molto meglio un “Mi, che colori”. E questo è proprio quello che intendo: le mie ragazze, quelle che mi piacciono tanto, non hanno bisogno di dire nulla di più di quello che il cuore comanda. Senza tanti accenti, accessori, pause. La libertà deve ancora arrivare, per questo è importante conservare la bellezza del cammino.

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Lo hai fatto apposta.

Juanita de Paola

Essere a favore del Tibet senza avere vagliato le ragioni di Stato della Cina è una delle caratteristiche principali di questa epoca in cui la critica emotiva ha preso campo sulla lettura della storia – ma anche sulla modestia dello stare zitti quando non si sa di cosa si sta parlando. Certo, non è che c’è tanto da interrogarsi: la violenza è violenza e la bruttura tende al peggioramento – e in un mondo civile la pena di morte e la soppressione dovrebbero rimanere nei sussidiari, nel capitoletto “quando eravamo idioti”. Così non è, e questo si suppone sia il mondo più civile possibile, perchè è quello che è resistito fino a stamattina. Avendo conosciuto lo sguardo di qualche militare delle forze speciali o di molti ragazzi in auto dubito che quel capitoletto nei libri di storia sarà mai scritto: l’uomo si diverte a combattere, e se l’umanità gliene fornisce la scusa eserciterà il suo diritto a farlo.

Comunque le kefie a caso, l’amore incondizionato per le minoranze, i partiti del bianco o nero, la coerenza d’acciaio, hanno incominciato a insospettirmi fin dalla tenera età: non per la causa in sè, ma per chi la sposava. Stesso effetto, più da grande, mi hanno fatto la chiesa, la moda, il liberismo, le assicurazioni e gli antidolorifici: tu hai mai visto una persona sana di mente abusare di anti dolorifici? O una persona uscire di chiesa senza maltrattare l’accattone, quello che puzza e c’ha la Bentley parcheggiata lì sotto? Embè, non si diceva la mano destra non sappia quello che fa la sinistra? Dare, senza chiedersi dove va l’obolo? Ma figurati: sono belve impellicciate, nella maggioranza dei casi. Detto questo ho amato il rito del bar dopo la messa, del cappuccino dopo la piccola pasqua che è la celebrazione domenicale, del vestirmi a modino per farmi vedere dal mio fidanzato, della passeggiata a braccetto con la nonna per andare a giocare al superenalotto.

Con lo stesso spirito amo i circoli arci: salto accuratamente le scritte dementi sul Chapas e la rivoluzione armata – chiedi a uno a caso all’ultima turnata di tasse quanto hanno versato, poi a un altro, poi un altro, poi un’altra, e vedrai come mai all’ospedale si dorme in corsia – e mi soffermo sul lato folcloristico della cena partecipata a quattro euro, cucinata egregiamente da qualche socio; oppure sull’aperitivo proletario, che è uguale a quello chic solo che costa meno ed è presentato peggio. Mi piacciono anche le serate musicali con sagra della bistecca, penso che potrei addirittura fare volontariato da vecchia. Poi nei circoli non si sente mai la musica del Buddah Bar, e questa mi pare una gran cosa. Non mi sono fatta mancare nemmeno ostriche e champagne – non vorrei farmi definire ontologicamente da un gestore di bar o da un altro, non vorrei farmi definire punto e basta. Ho seguito il consiglio della mamma, e mi sono adattata ad ogni ambiente, portando con me sempre i trucchi in borsa e una salvietta per profumare le ascelle.

Pensavo a (tutto) questo mentre mi spiegavi perchè non mi hai invitato alla cena dell’altra sera con la tua amica F. Hai, c’è da dire, un tono di flauto che rende accettabile qualunque cosa tu dica: mi arrendo senza combattere. C’era tutta la frangia estremista dell’università che avanza, dei duri e puri, avrei fatto una delle mie battutine lasciando poi intendere che non essendomi laureata posso sparlocchiare a caso. C’era anche la tua amica B, quella che legge un libro a settimana da quando ha dodici anni ed è in assoluto una delle persone più cretine che abbia mai conosciuto. C’era G, che viaggia come una palla da ping pong a destra e sinistra, tutti i fusi, a fare cosa diosololosa – anche lui un’incredibile creatura che avendo conosciuto più di venti civiltà continua a comprare maglioncini celesti di cachemire e calzini intonati come quando aveva sei anni. Ti chiedo, P: perchè non mi hai invitato? Con tutti i nervi che ho in questo periodo sarebbe stata la migliore cena del mese.

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Che coppia meravigliosa. Peccato lei viva da un’altra parte.

Juanita de Paola
L’amore è un patto delinquente e fetente. A questo pensavo ieri sera mentre facevo il primo pezzo del bagno (dalla coscia in giù) e covavo un’ansia terribile, che mi sono trascinata fino alle tre del mattino: la piccola ha la tosse cavernosa, quindi ho pensato che le stesse venendo la broncopolmonite, poi sono andata dieci volte al suo lettino a sentire se respirava, se scottava, se era viva. Ho preso lo stetoscopio per sentire se aveva un rantolo. Mi sono chiesta se fosse il caso di dormire assieme per ascoltarla tutta la notte, poi ho cominciato il giochino che devo fare quando inciampo in uno dei miei feticci: smetti, devo dire, è solo la notte. Perchè a me la notte mi vengono in mente le cose più nefande, ed è (anche) per questo che non mi piace fare tardi, intrattenermi quando i discorsi diventano vaghi e l’atmosfera rarefatta.

Però pensavo che la tentazione di prendere la piccina e metterla lì era fortissima. Mi avrebbe chiesto mamma perchè mi prendi con te? E le avrei detto “perchè stai male”, che è proprio quello che voglio non dire. Più che altro devo stare attenta alle espressioni, agli occhi disperati quando lei tossisce, insomma, a non trasmetterle quest’ansia cubica che stanotte sono riuscita a placare solo con il documentario animale più truce del ventennio: pianeta carnivoro. Un film sui leoni, le compagne, sul come il dominante deve mangiare i cuccioli per rimettere le femmine in calore. Scena del maschione che sbrana i piccini. Scena di copula. Penso che le donne e gli uomini possono esseri mostri da depilati ma anche da pelosi. Poi le iene saltano su un bufalo: lo divorano mentre è ancora vivo, cioè, gli mangiano il sedere e lui ancora muove la testa e fa gli occhi tristi. Ho pensato che la tosse non fosse così terribile, in fondo.

Quello che voglio dire è che trasformare l’amato in qualcosa che non vuole essere è un istinto fetente dell’uomo: se i bambini ci dessero retta sarebbero sordi, ciechi, muti e immobili. Stai fermo lì. Non sudare. Cerca di tossire piano. Cerca di dormire. Non ti muovere. Aspettami qui. Non correre. Bevi piano. Invece no, sono vivi, fanno quello che devono anche a costo delle botte. I grandi, noi, invece no. Quindi spengo il telefono perchè ho paura che l’inglese non chiami: sto provando a trasformare la mia amata me nella fidanzatina e quella figura non viene chiamata. Vado a guardare le foto su facebook – spulcia caricamenti dal cellulare – per cercare segni di tradimenti, trovo niente  e insisto. Stanno tutti festeggiando il compleanno dell’inglese, ma io sono qui con la cucciola malata. Sono, loro, da Nobu, seicento euro per tre pezzi di pesce crudo. C’è coso, cosa, coso famoso, cosa moglie di tizio. Un gioiello bello di regalo, ma non si fanno alle donne quelli, accidenti. Peccato che non è per me. Peccato che nelle mie storie d’amore ci sono sempre io da un’altra parte.

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Deve essere ferragosto.

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Oggi ho fatto quel gioco allo specchio in cui ti guardi come saresti migliore se quello fosse più su, quell’altro più giù, qualcosa più corto e altro allungato. Ho passato ore nell’acqua, e quindi in bagno, e quindi allo specchio. Stamattina, per iniziare, mentre le piccole dormivano, per eliminare la peluria. Non mi piace, per non dire che mi fa schifo, immergermi nel bagno e pensare di dovere fare qualcosa di utile allo stesso tempo: deve essere il tempo dell’ammollo, della mollezza, del quasi buio, dell’acqua che fa rumore di spelonca. Quindi le due operazioni vanno fatte in separata sede, una da seduta in doccia e l’altra navigando nella vasca.

Con la faccia coperta di vapore e lo specchio come un ricordo notturno mi guardo bene e ho piccoli feticci per sopportare il volto che cambia nel tempo, amarlo, senza concentrarmi sul come era prima ma piuttosto su come evolve, cresce, assieme a me. E’ l’unica via per non impazzire della malattia che chiamiamo vecchiaia, che se fisicamente non mi turba affatto, mi atterrisce quando penso agli impeti, alle urgenze che passeranno in secondo piano. Quindi assecondo la prima piccola procedura: metto i capelli nel turbante-asciugamano bianco, pettino le sopracciglia e mi metto un lucidalabbra pastoso. Spargo la cremina, una a caso, e stendo il mascara bene, per non rimanere con occhi ebeti mentre mi asciugo i capelli.

Faccio in modo di non trovarmi mai in una posizione sfavorevole, di non essere io la prima causa della mia infelicità. Accendo le luci piccole, spengo le grandi: nessuno verrà ad un centimetro dal mio volto con una torcia a vedere se ho imperfezioni, perchè dovrei farlo io? Iniziano i profumi e le letture, il secondo feticcio. Questo limbo, la gravidanza artificiale in cui mi trovo, la pancia-bagno calorosa e silenziosa, dove nemmeno chi amo può (finalmente) entrare, mi fanno vorace di riviste, libri regalo, ricette, tutto. Mi stordisco, leggo finchè non mi viene la nausea, e quando mi annoio a morte finalmente passo al trucco: leggero, veloce, cui segue l’apertura dello scrigno con gli anelli e gli orecchini giganti. Scelgo e metto. Mi vesto. Terzo feticcio: non ci si asciugano i capelli in mutande, ma mi vesto di tutto punto, anche se poi non esco, di modo che quando l’ultimo pelo sarà asciutto, sarò rinata. Morta e rinata. Con i tacchi. Esco dal bagno: cling, cling, cling, gli stiletto risuonano in corridoio.

Sono uscita alle dieci circa, come un canovaccio da una lavatrice: una resurrezione in acqua. Le orecchie ovattate e il caldo di un bagno bollito mi hanno tenuto serena, pacata, per molto. Alle quattro la piccola ha finito di ballare le sue musichine, e tutta sudata mi ha chiesto di fare il bagno. Noi facciamo il bagno assieme, è il nostro rito. Allora ho ricominciato: tutto. Stasera sono rallentata, ma felice. L’acqua del bagno, purtroppo, è l’unica in cui posso nuotare da molto tempo – io lavoro per fare andare gli altri in vacanza. Oggi sono stata al mio mare per due volte: deve essere ferragosto.

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Attualità comparata.

juanita

Entro nel Vaticano della mia personale religione: la cucina con il forno acceso. Ci ho sistemato dentro un pane lunghissimo e privo di consistenza che non mangerò, ma che come un ambipur diffonde aromi sani, buoni. Positivi. E’ tempo di non bere, di lasciare i vini migliori a quando spunteranno fiorellini e frutti, di fare fioretto. La baguette sta nel forno d’acciaio ricco, tiro fuori il burro e il sale. Stracchino. Pesto aperto. Cucchiaino di maionese. Due ravioli freschi non cotti. Apro la schiacciatina secca che scrocchiola e giro la prima pagina di Gente, probabilmente il migliore peggiore giornale di sempre.

Posso sedermi solo lontana dalla porta, perchè sdraio le gambe quando mi siedo e tutti ci inciampano. Il cane si appropinqua: ci odiamo con amore, lui dorme solo accanto a me per il gusto di russarmi accanto, di disturbarmi, mentre io lo nutro più del dovuto solo per farlo diventare obeso. Un pò come nelle famiglie vere, dove l’amore certe volte ti avvelena e dove le botte nel sedere fanno meglio delle carezze, anche io e l’orrenda creatura spelacchiata abbiamo stabilito un patto di convivenza dove non ci rompiamo gli zebedei.

Le cose più belle ci arrivano dalla stanchezza, le più brutte dall’insofferenza: è incredibile che io possa amare ed essere così irritata allo stesso tempo dalla piccola, che non sta mai zitta. Non so leggere mentre preparo da mangiare mentre apparecchio mentre ascolto, quindi devo mettere da parte il giornaletto e correre. Questo itinerario demente tocca alle mamme, ripenso alla mia e mi chiedo come abbia fatto con tre di queste a sopravvivere alla famiglia: ascolta il bisogno, rispondi, soddisfa, ascolta il nuovo bisogno, rispondi, soddisfa. Nel frattempo ricordati della bioraria. E chiudi le finestre quando è buio. Operazioni manuali, ripetute all’infinito, che mi tolgono il bianco dagli occhi.

Facciamo festa, dico alla piccola donna. Non posso essere quella che sta col muso di Venerdì. Cosa vuoi fare, piccola? – Si è spaccata il labbro stasera, saltando su Winnie The Pooh gonfiabile, una specie di seggiola sotto vuoto e pelosa: è rimbalzata ed è cascata di faccia. Poi ha rovesciato lo yogurt, tutto, per pulirsi la bocca. Poi ha bevuto la Fanta dalla bottiglietta, si è ingozzata, ha fatto il verso del vomito e ha sputato tutto in terra: ho dato il cencio. Dò il cencio, spesso. Le ho messo il ghiaccio, poi le ho dato il gelato tanto avevamo anche la scusa, e abbiamo parlato. Ho ascoltato più che altro, i bambini perdono interesse velocemente. “Voglio addormentarmi con te alla televisione”. Non le è permesso, mai, ma stasera sì.

Domani sarà il giornalaio, il caffè caldo con due brioches: quella alla crema e quella ai mirtilli, che questa secchissima creatura si mangia ogni mattina. Con i quotidiani, il cane, il pane fresco e i tacchi altissimi arriveremo al nostro tavolino del bar giallo con le cameriere gentili. Passeremo davanti alle case delle persone che vediamo da trentanni senza condividerci niente e le saluteremo con la stessa felicità. Mi diranno che la bambina è cresciuta, diremo loro Buongiorno Signora tutte impettite e con la faccia in su, se no non si sente e non si vede.

Poi parleremo di Sofia, di Letizia, di Alessia, Andrea, Gaia, le maestre e i segreti che non si possono dire – a quegli altri. Rideremo delle solite cose, mi arrabbierò perchè vuole l’estathea freddo gelato e fa male al pancino. Vivo nell’oblio di una gioia espansa, costante, pregando che duri così senza scossoni. Penso alla mamma delle bambine e a quella dei bambini bruciati nel campo, e mi chiedo di nuovo come si faccia a non avere un bottone che, in quei casi, ci possa far spengere subito. Senza ulteriore dolore.

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Stai un pò zitto.

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La mia amica M ha due cose: la prima è la capacità di amare senza guardarsi dai pericoli, la seconda è un cestino di vimini zibillo di guepieres per occasioni speciali. Le ha comprate al discount della biancheria intima, perchè sapeva di non dovere guardare in faccia la commessa e che nessuno l’avrebbe salutata, quando ha incontrato la sua metà. Mi dice che quando ha iniziato la sua storia con P lui la amava raffinata e lei non ha esitato: ha speso e spanso per adeguarsi al di lui ideale. Si è buttata di testa, “quando succede perdo la capacità di calcolare, divento perdente”. Dice perdente, come le persone troppo magre dicono di non avere fame ora: non se ne accorgono, che non gli va mai di mangiare, che ce l’hanno dentro. Perdente, le donne, ce l’hanno scalfito nell’animo, perchè così ci insegnano, tirano su, dileggiano. Perdente, invece, è chi non si fa ammazzare per amore.

Quando P la viene a trovare una, due, tre volte al mese, assieme scelgono un posto dove stare assieme, cenare al lume di candela, baciarsi e stare in intimità e poi, al momento di crollare nel sonno più becero, quello dove si russa, lei riparte come una fatina e torna nel suo letto, a casa sua: lui non vuole che lei lo senta russare. Gli uomini, questo gli va dato, sono dei campioni su pista. Sono come delle turbine di vaccate cui noi donne forniamo energia nucleare per fusione – e gratuita. “La prima volta”, mi dice M, “che siamo stati assieme mi sono portata il beauty case – la borsina cui noi donne deleghiamo la nostra presentabilità e i segreti più turpi: no gas giuliani, tamponi, piega ciglia, incanta peli, corrodi unghie, scalcina forfora – e ho detto a mia mamma non torno stanotte“.

“Arriviamo in questa bella casa, un rustico, così romantico: c’ho messo del mio a trovarlo. Stiamo a cena, si parla, si fa anche tardi e poi, certo”. Inizia a ridere. “Al momento di addormentarsi lui mi fa capire che non sta bene stare assieme dopo. Prendo il beauty e torno a casa”. Ripenso a quando sono stata tre anni con un fidanzato in un altro continente, senza vederlo più di due volte l’anno, dicendo a tutti che ci saremmo sposati. Quando? Ma che ne so quando, non posso mica pianificare ogni cosa. Ricordo gli sguardi di pena delle mie amiche. Ora, dico: una donna cosa deve fare per essere amata? Non lo so. Non l’ho mai capito. Fare presenza? Lanciarsi in acquisti facendo un mutuo in banca per adeguarsi al di lui ideale di noi stesse? Oppure deve latitare? O cercare di essere la fidanzata, moglie, compagna perfetta, quella che tutto sa e tutto capisce?

Interrogarsi sull’amore è come cercare una formula matematica per sapere quante piroette farà un ballerino con cinque minuti a disposizione e un palco di legno. Ma interrogarsi sui feticci che ci portano a fare sempre le solite scelte – a quelle che si immolano e a quelle che vivono tranquillamente senza – quello è d’obbligo: perchè la discesa senza freni arriva sempre dopo quella curva lì? Non potrebbe esserci un passaggio più veloce, meno infelice, abbastanza riparato? Perchè casco sempre e comunque da questa bicicletta? “Eri così?”, chiede M. “Così come?” – temo di sapere la risposta. Quello che non ti ho detto, M, è che una notte sono stata a strusciare la mia testa contro un’ascella che non era quella giusta, ad ascoltare musica retrò e guardare le foto di un piccolo paesino sul mare. Quella sera avrei lasciato tutto, ogni cosa: gli affetti, il lavoro, le chitarre, per andare lì. Quando il proprietario dell’ascella ha aperto le fauci, per il terrore che non me lo chiedesse, gli ho tappato la bocca con la grazia del macellaio. Schiò. Ho ancora il cestino di cotone con dentro le foto e il cd delle canzoni retrò, però.

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Fai quadrare il cerchio, E. Se vuoi.

Juanita

I problemi delle donne sono più semplici del manuale di istruzioni che portano con sè – il loro peso. Le risoluzioni dei problemi delle donne sono ancora più elementari, e per questo dirompenti, distruttivi: l’amante, la dieta, i soldi. I figli – quelli che ci sono, quelli che non ci sono, quelli che non si volevano. Non sono sicura di voler mettere il marito qui, lo sposterei piuttosto sotto la categoria “sforzi sovraumani per ottemperare ai miei doveri antichi”, oppure anche quella “la mia possibilità di essere felice senza accorgermene”. Rimedio, come balsamo per una ferita, come soluzione veloce ad un problema impellente: questo non è un marito. E nemmeno un fidanzato.

Le donne si sentono minacciate dalle altre donne, e questo è un buono schema della natura – funziona. Dice che quando hai trovato il pinguino reale che siederà sulle uova mentre tu vai in cerca di pesce, devi fare di tutto per tenertelo stretto. Quindi la pinguina non accetta di buon grado, ad esempio, che un’altra pinguina discinta le stia in casa, o che il maschio lasci l’uovo allo scoperto per fare il pavone – uccelli sono comunque – con un’altra. Magari più giovane, magari meno ricca, magari assai più brutta, non importa: la quantità è maschia, e continuo a non trovarci nulla di male.

Le donne, inoltre, non sanno le regole della buona convivenza umana: inutile vendersi per un Vuitton quando si è un portafoglietto di eco pelle, o per un samaritano quando si è un imperatore nudo. La storia è quella: un universo non è abbastanza per due donne sole, a meno che una delle due non sia (più) brutta, (più) grassa o omosessuale. Negare il fatto è possibile ed allettante, ma andando a contare le amiche che si frequentano di più ci accorgeremo che sono quelle che non ci minano mai sui punti forti. Ci completano, certo, ci somigliano, ovvio, ci amano, ma non sono pericolose – quelle si conservano per un venerdì sera, quando ci si è appena lasciate.

Nel dubbio cerca di fare un esercizio, E. Mettiti allo specchio e comincia: io sono questa. Io sono proprio questa qui. Io non sono quello che so fare – anzi. Io non sono i vestiti che porto ma amo far vedere il monastero da cui provengo. Io sono io, e tu sei tu, e io ti amo molto ma occhio. Io amo le cipolle ma anche le scarpe rosse. Io sono completa come un rotondo e sfuggente come una faccia di prisma: guai a darmi una fodera sola. Io sono quello che hai cercato per anni e che ti ho concesso, con gioia infinita, di possedere. Io amo perdermi nelle notti di Cabiria, ma so tutto di tachipirina, preiscrizioni, pannoloni, orli rotti, umiliazioni e glorie istantanee. Io non so scrivere un pezzo non perchè non mi riesce, ma perchè mi annoia. Sì, mi annoia. Ma mi piace stare su un palco – e ci sto come una lampada liberty accesa in un negozio senza luci a soffitto. Io detesto l’Umbria, e sai perchè? E’ come la Toscana, ma troppo verde, troppo rustica, troppo improvvisamente florida. Ecco, ripetiti, io sono come la Toscana. Quelle sono come il Molise. Con tutto il disrispetto possibile e dovuto.

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Dimmi figliolo. Ma perchè mi rompi gli zebedei solo ora che sei nelle bratte? (Jesus)

Juanita

C’ è un sistema pratico efficacissimo per allontanarsi da qualunque tentativo di intraprendere un cammino di fede, e questo è farsi una chiacchierata con una suora o un prete di media caratura. Purtroppo è impossibile andare a trovare un gesuita, così, il pomeriggio, e porgli dei quesiti impropri – perchè io no e loro sì? – sperando di vedere quella luce negli occhi che viene dalle sfide più salienti. Come pure è difficile sapere dove trovare una santa – ne ho conosciuta una anni fa. Emanava un affetto tale da volere passare il resto della vita in quel grembo secco e modesto. Quindi ci si ritrova davanti qualche uomo pieno di forfora e un alito di cantuccino che schioderebbe un’abside dal terreno, o una femmina di crotalo, pingue, incattivita contro le gonne, le cosce, le guance rosa, l’ombretto azzurro, i capelli cotonati, tutto quello che è allettante quando sei piccina. Tutto quello che sarebbe eliminabile prontamente con una sola lettura di Vogue, altro che anatemi.

Certo, la pratica di associare le persone alla fede è vacua, quasi vile: di Dio si tratta, mica di uomini. Si ma allora. Discutere di fede o di politica è pratica che riscalda gli animi e non porta quasi mai a nulla, fatto sta che la fede la mastica meglio chi non sa parlarne, certe volte, di chi ci scrive i trattati. Dunque Suor F si affaccia e bussa alla porta della mia amica G, deviata – le piacciono le donne, mica gli uomini. Si avvicina con fiato di menta, come chi non fuma, e salsiccia. Le brandisce le mani con dolcezza, come si fa con i morti all’ultimo saluto, e comincia a spargere il suo veleno: è vero che, ma è possibile che, ma tu sai che l’amore di Dio, ma l’uomo con la donna e la donna con l’uomo, e così via. Persino il mio animo pacifico comincia a rovesciarsi in preda all’ira, quella dantesca, al mio cervello arrivano parolacce e bestemmie, quasi, che trattengo. Sto zitta. Mi brucia la faccia.

Devo sempre pensare a un ruscello e una cascata per placarmi, quando sento dolore. O alle punte degli alberi che si muovono con il vento. Ci penso e provo a chiudere le orecchie per non sentire un ultimo atto di violenza contro G, persona rispettabilissima, che molto ha sofferto per arrivare alla decisione di amare chi si sentiva di amare. Suor F, tracagnotta, di polpaccio largo e denti inconocchiati, chiude gli occhietti a maiale, strizza l’espressione in segno di disappunto. L’intensità è di quelle da buffet coi crostini vecchi di due giorni. Di torta con lo zucchero risicato per la festa dei bambini poveri: mai la panna, non se la meritano, sono poveri. Solo le cose necessarie, ai poveri. Non si spreca nulla delle vite altrui.

Mi placo piano, perchè non ho il diritto di saltare alla gola di un interlocutore che non è il mio. G dice a Suor F, che sembra Maradona col velo, che la perdona. Che non sa quello che dice. Che la sua fede è qualcosa di prezioso, da tenere nascosta da quelle come lei, bigotte e pure brutte. C’è di bello che G è in controluce, un raggio le illumina e ingentilisce le guance mentre calma calma spiega la sua vita all’ombra dell’amore. L’altra è controluce, inscurita come un diavolo livido, e mi sembra una nuova annunciazione dove peccatori e santi si sono scambiati i vestiti. Poi mi immagino Cristo che, una volta tanto, non ha da pigliarsi le preghiere di un marito fedifrago per tenersi la moglie, o agire nel derby Pisa Fucecchio per fare sì che il giovane Michele faccia canestro, me lo vedo girarsi verso il basso, accarezzare la mia amica G con una mano ruvida, capiente, larga, e girarsi verso Suor F per dirle ma stai zitta cicciona.

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La prima volta.

Juanita

Kate Moss non accenna a perdere un colpo e quando la guardo sento una fitta di invidia pura. Le mie labbra si assottigliano come l’energia per uscire il venerdì sera. Andare a comprare le verdure in piazza della Sala in un pomeriggio, così, non programmato, è diventata un’avventura: ho subito una lobotomia? No. Sono diventata mamma. Programmo tutto con anticipo, io che non ho mai fatto una valigia la sera prima di partire per viaggi ciclopici: il succo di frutta nella borsa, di modo che fra scuola e danza ci sia una pausa liquida, un cambio sempre dietro tante le volte la piccina si facesse qualcosa addosso, salviette pulisci tutto, fazzolettini, crackers all’uranio impoverito che durano dodici anni per placare fami improvvise. Le canzoni che piacciono a lei, perchè le mie le fanno (già) schifo.

So a menadito quanti soldi ho dovunque. Quella che chiede l’estratto conto in banca perchè si sente in colpa, fa finta di guardarlo incrociando gli occhi e poi con faccia pseudo rasserenata chiede cinquanta euro all’ometto sono io, cinque anni fa. E’ impressionante: so gli spiccioli, so quelli grossi, so quelli che non si possono toccare ma poi si toccano, so quelli nella banca del fidanzato e anche quelli della società. So quelli sparsi in borsa. So tutto. Ergo la spesa folle, che so, la borsa colore viola in nappa di topo, non la posso più fare, perchè mi appare vivido davanti un maxi foglio di excell in 3d, all’interno del quale vedo le entrate, le uscite, gli arrivi e le partenze presunte, il gruzzolo per le emergenze, il budget della spesa e quello per gli aerei. Impossibile. Nella conoscenza, dunque, sta il segreto di un livello soddisfacente di frigidità esistenziale.

In questi giorni beati di malattia, settantadue ore senza telefono, senza famiglia, sola con i conati del vomito e un’emicrania che mi avrebbe distolto da un parto naturale, sono rinata. La pace, profonda, di una dormita necessaria. Il resto della famiglia che ti si stringe attorno e fa in modo che tu non senta pio, che nessuno transiti nella tua stanza, che suoni si propaghino a meno che non strettamente necessari, ovvero “come stai?”; “vuoi ancora tea?”; “prendi queste, ti faranno dormire”. Ho ripercorso le tappe fondamentali della mia vita in un dormiveglia convulso e caldo: la prima volta in cui mi sono resa conto di cosa avrei potuto combinare e non l’ho fatto, la prima volta che ho provato a buttarmi dall’alto e ho volato come un gabbiano in un sogno tremendo, la prima volta che ho sognato la casona verde che ricorre nei miei incubi da quando sono piccola, la prima volta che ho smesso di avere paura che la piccina morisse durante la notte. La prima volta che mi sono sentita di nuovo donna dopo l’esperienza animale del parto, e che mi sono rimessa un vestitino con delle forme. La prima volta che ho capito di essere stata molto fortunata, e molto amata.

Mi sono alzata, tremula sulle gambe, con la voglia di uscire e farmi corteggiare a cena per ore. Purtroppo l’inglese è lontano e questo non mi è dato. Ma è lo stesso: l’importante è sapere di potere, qualche volta, più che l’esecuzione in è per sè. Ho passato ore a strusciarmi i piedi uno contro l’altro sotto la coperta di pile, come fanno i gatti, e a non pensare assolutamente a niente; ho anche letto fumetti, ancora incellofanati dopo anni dal loro acquisto, giornali che mi erano passati indifferenti, bevuto litri di succo di frutta. Ho fatto il pollo lesso col brodino consolatorio. Ho fatto un bagno caldissimo che mi ha fatto arrossare le vene in faccia. Poi mi sono chiesta se nella vita mi sarà possibile avere due giorni di pura rilassatezza solo quando sono debilitata o in preda a un virus violento. La risposta è probabilmente sì.

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I doni.

Juanita

La professoressa dice che non posso scrivere quando sono felice o sono triste. Dice che non posso fare i temi personali perchè non controllo quello che voglio dire, anzi, scrivo per vedere dove vado a parare. Mi dà un quadernino verde e mi dice che devo scrivere un tema al giorno, solo su cose che mi annoiano. Lo faccio e passo in due mesi da un quattro a un sei meno, una gloriosissima sufficienza, festeggiata in casa come una laurea in medicina. Prenderò un fra il sei e il sette, uno solo, su Dante e la figura salvifica di Beatrice. “Complimenti”, dice. Penso a un nove, ma è un sette meno in pratica. Il quadernino ha le pagine strappate, quelle più schifose, che lei elimina non tanto per sè, ma per fare in modo che nessun’altro al mondo le debba leggere – che pena.

Quando la vado a cercare in corridorio per sapere se ha controllato il tema del giorno prima – un tema al giorno, vuole – mi guarda con noia, fastidio, tutta la gamma che arriva appena prima della repulsione. Mi fa vedere i temi delle mie compagne, in particolare una che non amo molto, mi dice: vede, guardi, la scioltezza. Io annido tutto, maledizione. Scrivo a macchina prima: l’unico modo in cui posso fare questo è fingendo di essere qualcun altro. Rispolvero la macchina rossa di papà, quella delle perizie mediche, e scrivo a pomeriggi, trascurando il resto. Tanto non ci dedicavo un gran tempo comunque, a parte chimica che mi tocca studiare perchè mi rimane ostile e incomprensibile, il resto lo leggicchio, lo studicchio, lo faccicchio. Mi chiedo perchè nessuno mi voglia baciare.

L’inaspettato tutto, che si cela dietro le facce che riteniamo poco importanti, è il mio tutto. Già allora. Il percorso alternativo, la fuga, sono già temi presenti e pesanti, ma ha ragione la professoressa, prima di intraprendere il cammino scelto bisogna capire i vestiti da mettersi, le riserve da portarsi dietro. Dopo la versione, dopo l’interrogazione, dopo l’ansia della giustificazione non sprecata ma necessaria, si esce: mi è andata ancora bene. Noi che si prende il treno per tornare a casa camminiamo veloci, ma nemmeno troppo, poi ci fanno uscire dieci minuti prima. Mi fermo al baretto, mi ordino un waffel: non dovrei, i ragazzi non mi guardano con gli occhi speciali. Al tavolino mi siedo, perdo il treno, sto sotto il sole di inverno e mi faccio parlare da gente sconosciuta: dovrei preoccuparmi dei compiti, ma ho già capito che non servono a nulla. Mi sento in colpa, per un dono che mi fa pensare alle cose come se avessi già novantanni – poi mi guardo attorno: siamo in parecchi.

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A mille ce n’è.

Juanita de Paola

“Non serve la cartella bella per venir con me, basta un pò di fantasia e di bontà”. Così finiva la sigla delle fiabe sonore, cinquemila anni fa, nell’epoca in cui gli ultimi dinosauri si ritiravano nelle Fregate Island e in Italia si varava l’ultima legge utile agli italiani. Le fiabe sonore sono state inventate da qualche genitore geniale e con problemi di respirazione – chi non sa inspirare ed espirare mentre legge finisce per sbadigliare ogni x parole. La ragazza che suda perchè le si chiede di leggere in classe la versione greca da tradurre sono io, non tanto perchè non capirò nulla, ma perchè alla terza frase sbadiglierò. E il professore si arrabbierà come un cane senza coda.

Cammino strascinandomi da una stanza all’altra, aspettando che la piccola col virus stia meglio. E’ un pecorso come quando smetti di pensare a qualcuno all’improvviso: stupita, liberata, rimbecillita. Dolorante. Ripercorro la memoria veloce, per vedere se qualcuno che conoscevo ha fatto una fine migliore della mia – mi consola pensare ai fallimenti altrui nei giorni in cui non riesco a finire nulla di quello che avevo iniziato, come oggi. Penso sempre alle tre persone di prima: quella stupida come una pigna che ora ha il Porche e una laurea presa al Conad, probabilmente. Quello che c’era e poi non c’era più, e alla fine s’è messo con la copia di sua madre. Quella che era una tigre e poi un agnello e poi un niente, e da dove venissero la tigre e l’agnello lo sanno Cristo e la mia testa bacata.

Cerco rifugio in internet, la mia mansarda esistenziale da quando ho diciassette anni. Mi dà noia che mettano annunci mirati in ogni video musicale e sito personale, ora: sì, sono azzeccati. No, continuo a non guardarli, non mi interessa. E anche se mi interessasse non ci cliccherei solo per farvi dispetto: sono fatta così. Chiedete agli ex. Dunque i tre di prima se la passano piuttosto bene, economicamente dico. Ma come è possibile, dico, ma è corrente, coerente, che le persone più imbecilli nella cerchia di quelle che ho conosciuto abbiano tutte avuto un successo strepitoso in amore? Ma cos’è, fanno le graduatorie al contrario? Oggi mi sento come quello che ha una caccola sulla guancia e tutti lo guardano e poi lui pensa, ecco, allora sono un bel ragazzo. Invece ha una caccola sulla guancia.

Comunque non c’è tempo, questi sono pensieri futili, dannosi. Apro il libro con la canzoncina A Mille ce n’è in testa, faccio scegliere alla Minima una favola e comincio a leggere. Mi scuso con lei, sbadiglierò molto perchè non so respirare mentre leggo – qualche volta mi esce una specie di rutto, e io sono una persona che queste cose non le fa, mi danno noia. Come le ciabatte e i capelli unti, la tuta e le scarpe comode: che schifo. Inizio la lettura, e quella bambina che ascolta finalmente pacificata una favola, senza avere paura che termini senza il suo controllo, sono io. Sono sopravvissuta all’infanzia. E all’adolescenza, quando le favole bisogna fare finta che non ci piacciano più: dovrei essere felice punto e basta. La Minima si addormenta, sono le una della notte, questo virus è la cosa più vicina alla nemesi storica che io abbia mai incontrato sul mio cammino.

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Colazione con vecchio pappone.

Juanita de Paola

Quel signore che mi chiede il giornale locale, appoggiato senza educazione sotto la mia tazzina di caffè cattivo che inaugura la domenica, è lo stesso che una volta mi ha rincorso per tanti secondi che non dimentico, perchè gli ho urlato maiale alzandogli il dito medio con vigore teatrale. Non mi riconosce, ma io sì che lo rivedo bene. Erano i novanta e qualcosa, passavo davanti al bar R svestita come si permette alle bambine in estate, e lui aveva sgranato gli occhi e fatto un gesto inequivocabile con il bacino, come a dire, potessi darti un colpo. Correvo veloce senza farmi venire il bruciore al petto: era uscito mostrandomi il pugno dopo che lo avevo offeso, e io volavo via a piedi, per lasciarmelo dietro le spalle. Quando ci ripenso dico, ma cosa avrebbe fatto, poi?

Glielo dò il giornale, all’avvocato. Aggiungo il pleonastico “tenga pure, non leggo la locale”, riservando per me la parte esterna del giornale e rifilandogli la cronaca di Frittole. Penserà che sono una delle tante donne che ieri sera non si sono divertite, che sono acida. E avrà parzialmente ragione. Ha la testa come un bue, è invecchiato, e le mani gli sono diventate ciccione e rosse. Io, d’altro canto, non ho foto di me con le treccine d’estate, sotto il cappello di rafia, abbronzata e con un bikini: questo lo pagherò, è uno dei pochissimi rimorsi che ho – ma d’altronde non riesco a fare nessuna concessione alla mia età, specialmente di stampo lezioso. Il mondo si divide in due grandi gruppi: quelli che vivono, e quelli che vivono per trovare bellezza. Io sto nel secondo gruppo – se fosse una perversione sessuale? Sarebbe il feeder. Non avrei potuto dedicarmi a fare gli altri ancora più belli se avessi saputo come stare bene con le treccine.

Comunque il vecchio ciccione commenta la cronaca ad alta voce, e non mi fa nè caldo nè freddo. Mi chiedo se abbia una famiglia. La cronaca locale di Frittole gli va a pennello, a lui, con quei titoli spropositati e giudicanti: dagli al dottore, al commercialista, al politico. Fondamentalmente, dagli al ricco. La lotta sociale diventa più fratricida man mano che la cittadina si impicciolisce: attacchi personali, giornalisti che hanno preso il tesserino a grandi scuole radioelettra, sgarri di condominio che si trasformano in attualità. Meno male che c’è internet. Il ciccione guarda verso la mia postazione, sono andata a fare colazione col rossetto rosso. Mi gratto la fronte con il dito medio, mano destra of course, in un gesto molto poco teatrale, segreto – eppure esplicito. Stavolta non si alza e non mi rincorre: primo perchè non ha capito. Secondo perchè è vecchio e grasso. Terzo meno male perchè dopo trenta metri a velocità schianto anche io.

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Ma sono tutte orfane?

Juanita de Paola

C’era una volta la scuola. C’erano i professori che terrorizzavano gli alunni e i genitori che facevano sponda: non si discute una figura di autorità, nemmeno quando ha torto. Questo ci dicevano, questo si faceva. E se no botte o mesate senza potere uscire. La mia professoressa fumava in classe e ne avevamo così paura, così tanta ammirazione, che credo nessuno di noi l’abbia detto a casa per il terrore che qualche genitore, notoriamente più imbecille della progenie, facesse la spia: lo sguardo della magnifica W non l’avremmo retto a cose normali, figuriamoci se si fosse incazzata. Recitava la Commedia a mente, traduceva Soul Bellow per non so quali editori, mi introdusse a Roth – non parlava con me, mi considerava un errore, un male necessario. Non esistevo.

Alla ricreazione, quindici minuti di puro piacere che nemmeno un etto di cocaina, arrivava l’omino pelato (Capello) con la moglie, portavano le schiacciatine con la maionese e il tonno, l’estathe e le paste bisunte. Qualcuno fumava nel chiostro, e mi sembrava uno spreco enorme soffiare nell’aria quando il Signore aveva mandato per noi a Caana milioni di focaccine. I professori non scendevano, stavano nella sala privè, dove avevo imparato  a trafugare i compiti di greco dopo la consegna. Non si masticava la gomma in classe, i vocabolari erano cose correnti e con una media inferiore al sette si doveva lavorare d’estate. Era così che avevo potuto leggere Carrie lo sguardo di satana, operando come cassiera presso cartoleria al mare: finalmente un libro interessante, dopo la noia letale del Gattopardo, il tedio dei Promessi Sposi, il tentato suicidio per noia post Maria Bellonci e il suo Rinascimento privato.

Pochissime cose attraevano la mia attenzione, in particolare le uniche letture che mi avevano dato un pò di fiato erano stati i poeti maledetti con le loro oscenità e, pur considerandoli assolutamente privi di tridimensione, era divertente ricostruirci una scenografia. Avevo letto tutti i librini di Beverly Hills 90210, portavo occhiali da vista finti e mi tagliavo i jeans nei punti sbagliati. Mi piaceva la televisione al mattino ed essere malata, ma anche andare a casa di C, o il fatto di arrivare in treno: noi che si arrivava a scuola dalla stazione facevamo un chilometro a piedi al mattino e uno alla mezza – e si usciva prima. Ero innamorata del ragazzo biondo che faceva l’artistico, in una maniera quasi religiosa. Gli dimostravo il mio impulso andando nel vagone da lui più lontano, e non ci siamo mai parlati – l’ho conosciuto due anni fa, finalmente, ha un negozino meraviglioso.

Nei discorsi in macchina con papà, interminabili, si parlava un pò di tutto. Mi diceva sei un tesoro, sei un gioiello, stai attenta a quello che fai , però non diventare una di quelle bigotte, quello sì che è terribile. Avevo una gonna corta di jeans tagliata strana, la mettevo forse due volte in un anno, e a diciassette anni mi stavo per spogliare la prima volta con un ragazzino. Se un uomo, un adulto, mi si fosse avvicinato con strane intenzioni avrei chiamato la polizia, ma senza destare attenzione, senza urlare, senza piangere – me l’aveva insegnato il babbo per darmi una chance in più, in caso, insomma. Se fossi stata nuda ad una festa con dei signori anziani, papà e mamma, avendolo scoperto, mi avrebbero scuoiato viva. Gettato il sale sulle ferite. Donato gli organi a qualcuno più meritevole. Ho una figlia femmina, e ho smesso di leggere il giornale da due settimane per non portarmela a vivere dentro un bunker.

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L’amore. Che sfugge a chi ce l’ha.

Juanita de Paola

L’amore, caro Filodemo, si nasconde nei cassetti che dimentichiamo, quelli dove finiscono le mutande vecchie che non abbiamo il coraggio di buttare via, i calzini spaiati color topo-finito-in-lavatrice, le lettere che non hanno più nessun significato se non ricordarci che una volta, molto tempo fa, lì dentro stava ogni significato. L’amore sono le cose volgari e scontate, come il regalo il giorno del compleanno, invece di io preferisco i regali i giorni a caso: non è vero, tu sei semplicemente una persona tirchia.

Non riesco a pensare a nient’altro che alla tosse della mia bambina questa notte, e mi ferisce più di ogni pena di cuore che io abbia mai passato, eppure mi ricordo perfettamente di ogni stretta forte al petto: ne ho avute molte. Certo non mi sono risparmiata fette, ho elargito pezzi di me appena ne ho avuto l’occasione – A dice che li ho buttati via, ma io credo che lui sotto sotto mi invidi per non avere mai saputo tracciare la linea decisa fra me e l’altro. I bambini non tossiscono, abbaiano, e alle mamme sembra un latrato. E’ come uno squarcio.

Ho fatto l’amore, qualche volta, anche per pietà. Ho pensato che anche se non era nulla di che, valeva comunque la pena: ci sarebbe potuta essere bellezza da qualche parte, dico un gesto inaspettato che rischiarasse la stanza, un’espressione da tenere a mente. Non deve essere un caso che ricordo tutto, ogni particolare, di questi abbracci, mentre dimentico ogni cosa del resto. Forse è successo anche con me, probabilmente qualcuno dei baci che ho segnato sul diario sono stati dati per darsi la buonanotte senza parlare, o per acquietare il mio sguardo indagante: e allora?

L’amore è sottovalutato. E malinteso. Lo si legge negli occhi dei vecchi – categoria orizzontale – che sperano sempre che il tuo finisca, che tu impazzisca, che tu trovi qualcuno nuovo: è a sè che parlano, perchè hanno perso la poesia del proprio riflesso. Non si piacciono più, quindi non capiscono che ci si impegni ogni giorno a farsi piacere gli altri, specialmente se con questi si vive, si mangia, si va dal dottore, si duplicano le chiavi. La posta è diventata orrenda da quando ci sono le emails, perchè le lettere belle finiscono tutte nel computer – a comando, si sente l’esigenza di parlare a qualcuno e si scrive, sapendo che entro poco saremo letti -, ma le bollette continuano ad arrivare col postino. E l’amore, anche, è diventato così: la parte magnifica se la cucca l’immaginazione, quello che ancora non abbiamo, mentre la dedizione se la piglia il cane, il lavoro, la macchina. Siamo strani.

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Rudimenti di rivoluzione sociale, appendice a.

Juanita de Paola

L’altro ieri sono scesa ad un semaforo, come fanno i pazzi, a chiedere spiegazioni al signore che mi aveva tagliato la strada per mettersi in fila. Ho bloccato tutto, credo di avere spaventato qualcuno, ma non ero arrabbiata: ormai mi interessa capire più che farmi capire. Ho bussato al finestrino e gli ho chiesto di abbassare, si vedeva che questo pover’uomo era spaventato – forse credeva che l’avrei menato. Avrà avuto sessantanni, non di più. Ha abbassato eventualmente, tirandosi un pò indietro, Grazie di darmi questa possibilità, gli ho detto. Si è calmato e mi ha guardato con rinnovata noia. Era alto e grosso abbastanza per ammazzarmi di botte. Non importa – ho pensato.

Guardi, la fila era ferma, stavo passando perchè lei aveva rallentato; ho una bambina sul seggiolone. Lei si è fermato facendomi credere di darmi spazio e poi mi ha tagliato la strada sgommando per mettersi davanti a me, in una fila ferma, col semaforo rosso, perchè ci stavo mettendo troppo. Se non fossi la nevrotica che sono in macchina sarei partita senza aspettare quei secondi in più che mi fanno sempre suonare da dietro e lei avrebbe preso in pieno mia figlia. Cioè, voglio che capisca che lei ha rischiato un omicidio colposo nel peggiore dei casi, per mettersi un metro e mezzo davanti a me. Col rosso.

E’ arrivato il verde, mi ha guardato come chi vuole ripartire senza aprire bocca e così ha fatto. All’improvviso mi è presa una rabbia così forte che pensavo mi venisse un infarto, mi sono levata la scarpa e gliel’ho tirata dietro con una forza che ancora mi fa male tutto dietro l’ascella, e il collo dalla parte della schiena. Poi sono andata a riprendermela a qualche metro di distanza, saltellando sull’altro piede come quando si gioca alla settimana, da piccini. Sono rientrata in macchina, Cecilia si stava sbudellando dal ridere, il traffico era paralizzato ma nessuno ha avuto il coraggio di suonare. “Mamma sei matta, chi è quel signore?”. Un amico, ho detto, stavamo giocando a rincorrino. Poi ho messo la nostra canzone, Sweet disposition, e lei fa le corna, dice rock’n roll e agita la testa come in Wayne’s world.

Nessuno ha avuto nemmeno la voglia di scendere, dico, o di abbassare il finestrino. Non avevo ragione, non avevo torto, ma ero lì nel mezzo con un piede di fuori e la faccia iraconda di chi comunque ha qualcosa da dire. Ecco, nella piccola Pistoia è successo quello che succede tutti i giorni in Italia: qualcuno sbraitava, qualcuno urlava, qualcuno se ne fregava. Molti stavano a guardare. Manca poco ci scappava il morto.

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La vera febbre del sabato sera.

Juanita de Paola

A forza di chiudere i boxini delle pubblicità in alto sulla finestra di facebook ed indicarne la ragione come “è offensivo”, ho confuso l’algoritmo, che mi propone honda civics rosse usate con motore turbolento, t-shirts con le parolacce e  concorsi di Lufthansa. Certe volte ci capito sopra per vedere cosa si nasconde dietro l’icona –  vogliono che salvi qualche cellula staminale a San Marino, dico io, tanto tanto a Torino, o a Pompei, ma a San Marino no – , le guardo con lo stesso entusiasmo di B, il bambino che a otto anni ha già visto i suoi genitori sposarsi tre volte con persone diverse. Nelle fotografie fatte dalla mia amica che riprende tutte le persone in vista  – oggi sono tutti importanti, quelli che fanno i tappini di gomma, quelli che stampano i tondini di cemento – si vede B che batte le manine con gli occhi morti di un varano.

La famiglia non è più quella delle fiabe di quando ce le raccontavano, è invece un tessuto connettore di persone sempre più diverse, più tolleranti nel migliore dei casi, e più inclini ad allontanarsi. Non esistono nemmeno i bei tempi andati, sono solo un trucchetto del nostro cervello affinchè si smetta di dargli il tormento con nuove spinte, nuove pulsioni: l’allarme dovrebbe suonare ogni volta che cerchiamo di ripetere sensazioni piacevoli del passato, dovrebbe bruciarci un dito all’improvviso, così ci ricorderemmo. Che dicevo? Ah. La famiglia. Non prendo la mia ad esempio, perchè peggio di me e dell’inglese credo che abbiano fatto solo Squitieri e la Cardinale, ma in genere è tutto aperto, espanso come gli elettroni negli orbitali, sparso come i bastoncini del Mikado.

Quella che negli anni ottanta era chiamata la famiglia allargata oggi è un esempio di (dolore e) civiltà che convivono assieme, perchè chi ne era parte ieri lo è anche oggi e non può essere altrimenti, ma il cervello si farebbe venire un buco nel mezzo pur di non dovere essere sottoposto a variazione, cambiamento. Nel confronto con la famiglia tradizionale pare quasi che il destino si stia divertendo a promuovere questo nuovo nucleo partecipato, meno violento, incestuoso, infognante dell’altro: Sarah Scazzi docet.

La famiglia che parte all’avventura con la macchina per fermarsi al baracchino del panino la domenica si vede solo nei film di Virzì – e chi ci sale in macchina con una moglie senza avere prenotato? Davanti al tabacchino stasera ce n’era una che aspettava il marito in macchina, aveva una faccia truce, crudele: povera coppia, destinata ad una cena di coppie, soporifera come il farsi i peli con la pinzetta – meno male che c’è il dolore, se no la gente ci schianterebbe per la noia. Entro dentro al circolino per vedere se c’è P, lo volevo salutare. C’è una famiglia invece, anche lì, e sembrano disperati. Possibile che l’unico sistema per amare intensamente le persone sia non doverci passare il sabato sera?

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Un uomo? E’ quello che ne facciamo.

Juanita de Paola

Quando è finito il mio primo filarino ero al mare, non sapevo dove sarebbe ritornato quel ragazzo moro scuro, alto e dinoccolato che portava la moto e che mi aveva salutato la sera prima. So che aveva l’accento romano, ma vattelapesca: Roma va da Napoli a Firenze. Non ci eravamo dati un appuntamento per salutarci, cioè, lui aveva tentato ma io gli avevo detto ma ho quattordici anni, non posso uscire così, per dire addio. Mamma mi avrebbe fatto andare, credo, ma non stava bene chiederlo. Mi ero “messa” con Marco ma mi piaceva Gianni, che però era innamorato di Francesca.

Lui mi aveva detto che lei era bellissima, e poi era già sviluppata – io no, e si vedeva. Francesca scherzava e diceva “oggi sono chiusa per lavori”, che voleva dire che non potevano fare l’amore perchè lei aveva le mestruazioni. Avevo un costume a righe bianche orizzontali, celeste, con topolino sulla pancia – che da quanto era larga topolino era diventato gamba di legno. Avevo sopracciglia larghe, occhi belli, un ruolo di prestigio in quanto nipote del comandante e figlia del dottore, una mamma buffa che suonava la chitarra e un pianoforte. Avevo tutto. Fuorchè le mestruazioni. E le tette. Francesca era di Milano e per me da allora tutte le ragazze di lassù erano da tenere alla larga: come fidarsi di esseri così fisicamente più avanzati di me?

Ero tornata a casa e dopo poco avevo incontrato il mio primo grande amore, Luca, che era un ragazzino diverso, così intelligente e buffo. Bellissimo. Gli piacevo perchè ero diversa, mi piaceva perchè era speciale. E così siamo rimasti appiccicati per quattordici anni, con interruzioni più o meno importanti. Ogni tanto lo accompagnavo al campetto di pallacanestro, poi dopo, ogni tanto lo accompagnavo all’università, poi dopo ancora lo avevo salutato – questa volta avevo il permesso per l’arrivederci. Se n’era andato in America a fare il tatuatore e dopo un pò è anche diventato famoso. Le settimane passavano, i mesi, anche gli anni, e ci vedevamo sempre meno. Quando mi aveva confessato di avere trovato un’altra ragazza mi aveva colpito un dolore cane, sebbene avessi fatto di tutto perchè succedesse: l’avevo lasciato solo.

Certo, aveva tradito, ma io non ho combattuto, non era più cosa: ci eravamo dati un addio, ma l’avevamo chiamato a dopo. L’avevo lasciato solo nel momento del bisogno, peggio, avevo preferito far sì che la mia immagine ideale, perenne, prendesse il sopravvento sulla fidanzata che vuole sanare il suo uomo, che gli impedisce di bere, che lo mette a dieta, che lo obbliga a scelte terribili per sua comodità, che gli impone un laccio al collo e al fronte di tanta sofferenza si sacrifica anche lei, e ingrassa, pulisce, invecchia. Gli sta accanto e lo ossessiona così come si fa con chi si ama. Bugie, codardia, destino, chi lo sa. Fatto sta che la ragazza dei sogni aveva vinto, lasciandomi con un senso di colpa micidiale, che ho impiegato anni a digerire.

Gli uomini, strano a dirsi, cercano di essere definiti da una donna anche quando non lo sanno. Non passano la vita con quella che li fa impazzire, ma con quella che li ama, che li fa crescere, che li castra. Scelgono quella di cui si potranno lamentare, perchè lei è genuina, è quella giusta: se sa piegare me, saprà accudire i miei figli. Che poi le donne sfondano i muri senza muovere le cornee. Gli uomini amano abusare il loro corpo perchè hanno più paura di morire di noi donne, che crepiamo e rinasciamo cento volte al giorno, e lo testano con qualunque scusa: alcol, droghe, troppo lavoro. Hanno bisogno di qualcuna che li sgridi perchè hanno i calzini puzzolenti mentre loro hanno capito di dovere essere licenziati. Immagino che Francesco Nuti abbia bevuto parecchio, e che sia stato un partner irresponsabile, un marito orrendo e un padre egoista dedito alla bottiglia – oltre che un genio gentile e divertente assieme. Qualcuno che è stato meglio perdere che trovare nella vita umana – dico, probabilmente. Immagino che la Malipiero gli sia stata accanto come fa una donna innamorata: con devozione, pietas. Allora non riesco a immaginare come abbia potuto stare qui e qui. E perchè.

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Sudori palpabili.

Juanita de Paola

La discoteca mi sembra oggi un acquario punitivo per pesci umani, un castello degli orrori dove doversi divertire e, quindi, parecchio triste – il motivo è ovvio, come scontata è la gioia di chi ci va a sedici anni, venti, trenta con la speranza nel cuore di trovare leggerezza, ritmo, un poco di stordimento. Io non ce l’ho con le discoteche, anzi, in tempi di genitori che sniffano e preti che si fanno i ragazzini all’oratorio, rimane tutto sommato uno stanzone caldo, sufficientemente stretto per compicciarci qualcosa, dove passare l’inverno senza morire di noia e appoggiarsi a vicenda – come dice C.

Non ho mai capito perchè nei ministeri dove si fanno cose per i diversamente adulti non sia capitato nemmeno per sbaglio qualcuno che sia stato, un tempo, giovane o intelligente. Ad esempio: perchè non ci hanno mai fatto dormire in brandine dentro la discoteca a chiusura? “Sei stanco? Adagiati sul materassone gonfiabile coi tuoi amici!  E domattina brioches calde per tutti. Per favore appoggiare le scarpe nel sacchetto di plastica”. Altro che afterhours: tutti lì, sudati e teneri, a fare le bave fino al mattino – e i nostri genitori a letto in pace. Suda e dormi. Svegliati e scappa. Quella che dorme sul divanetto fetido della discoteca a ventanni accanto alla cassa alta due metri sono io. “Ndiamo”. Quella che viene svegliata di soprassalto dai suoi amici per andare alla macchina con sedici gradi sotto zero e tornare finalmente a casa sono ancora io, elevata alla radice di stizza laterale sopra le orecchie.

Il paese dove vivo io è luogo difficile per i ragazzini, e la discoteca almeno ha sempre rappresentato un obiettivo che, alla fine, è risultato più innocuo delle tetre serate al chiuso a base di cannabis e depressione: tante delle ragazzine che cominciavano a prepararsi dodici ore prima per essere desiderate in pista, oggi sono mamme, donne più o meno realizzate, persone abbastanza stabili. Tanti dei ragazzini che si massacravano di domande e riflessioni attorno al cilum hanno invece intrapreso un percorso di implosione, tristezza, peggio, fuga dalla realtà. Qualcuno se n’è proprio dipartito, qualcunaltro è rimasto in stato semivegetativo, qualcunaltro ancora è in comunità: pochi hanno abbracciato la vita del mutuo, auto, partite, Lido di Camaiore.

Questo per dire che non tutti quelli che non vanno in discoteca sono contrariati da quelli che la frequentano, e non necessariamente rimanere a casa il venerdì a giocare a Trivial è segno di intelligenza più dell’entusiasmarsi per la serata house speciale con Dj Betrus. E per ribadire che mens sana in corpore sano, mi dico che in fondo si tratta di cardio diluita, fitness e step sui tacchi del dodici o dentro giubbottini abbastanza sgargianti (gay) come usa oggi: insomma, se io sono libera di ordinare da sola il tagliere da quattro di salumi e il menù degustazione per due, non vedo perchè qualche altro cristiano non possa decidere, nel pieno delle sue facoltà mentali, di andare in luoghi stretti e bui a sudare con la consapevolezza di non poter pisciare facilmente e dovere utilizzare bicchieri di plastica. Ci mancherebbe. Il peccato mortale, infatti, si annida altrove: nella playlist degli anni ottanta della discoteca che giace vicino casa mia. E nella selezione dei rum.

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Grattarsi fino a spellarsi.

Juanita de Paola

Da un mese a questa parte due volte al giorno almeno mi prende un prurito tremendo in qualche posto – ogni giorno cambia – dove scopro un pezzo di pelle in evidenza, gonfio come quando ti punge una medusa di striscio, che devo grattare se no impazzisco. Dopo un minuto in cui cerco di scarnificarmi viva, l’alien se ne va e mi lascia come è arrivato, solo con qualche graffio che chi non mi conosce imputa a rotolamenti suini (e mi sorride). Oggi è il turno dell’avanbraccio sinistro – temo che un giorno il tutto approcci la faccia. Il mio amico W mi ha detto che è una sindrome neurotica, cioè che sono come quei pazzi che si strappano le ciglia o si tagliano.

Non mi dispiace che il mio corpo mi comunichi qualcosa sotto forma di scabbia isterica, solo che non capisco cosa dovrei intuire; osservo allora i segni rossi fosforescenti, sento anche la temperatura diversa, più calda, dove ho grattato con le unghie, mi sento impotente come se dovessi leggere le istruzioni per scampare ad un incendio imminente in una lingua che non conosco. Brucio, in pratica, dalla testa ai piedi. Non ho il coraggio di andare dal dottore, perchè non troverebbe nulla, e allora dovrei rassegnarmi all’idea di fare parte della schiera dei pazzi. Quindi preferisco alimentare fantasie strambe, come allergie improvvise a cose che sto mangiando, bevendo, facendo, e depennandole dalla lista di quelle che mangerò, berrò, farò.

Così se n’è andato il pane fresco, la lana, il vino rosso, le calze, lo stare a sedere più di due ore di fila, un deodorante per l’ambiente dai colori troppo accesi per essere benigno, il riscaldamento in luoghi con tappeti, i tappeti e la cioccolata. Il prurito può prendere anche sotto la doccia quando l’acqua è molto calda, per cui ora metto il miscelatore su quel caldino che non serve a mandare via la stanchezza. Forse il mio corpo vuole convincere la mia mente a obbligarmi a non fare più nulla, ad abbracciare una nuova era di pigrizia e risultati senza fatica – un periodo opposto a quello passato negli ultimi dieci anni, in cui ho dovuto sudare anche l’acqua del rubinetto. Oppure sto facendo qualcosa dicendomi che mi piace, e poi invece mi fa schifo. Dove stanno i traduttori da io-dentro a io-prudo?