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Juanita de Paola vita piccola women

Il trigger.

Juanita

Ho l’impressione di avere passato troppo poco tempo in collo.  Ne ho la certezza da quando la nonna bassa e la nonna alta se ne sono andate, mi sono detta: ma perchè non sono stata loro più addosso? Perchè a una certa età si smette di saltare in collo alle persone che si amano? Forse perchè crediamo che tutto duri per sempre – o forse perchè si diventa troppo pesanti, in tutti i sensi. Forse perchè scambiamo le cose importanti con quelle futili: una canzone che amiamo a dieci anni, non si dimentica più; e cosa c’è di molto più importante di un suono che rimane piantato lì, fra la memoria e il sentire? Poco, davvero. Per me l’odore nel collo delle persone che amo, impresso qui, nella mia memoria più amata.

Forse perchè il contatto con la mamma e il papà sono dati per scontati, mi sono arrabbiata perchè ne ricordo pochi che siano sufficientemente lunghi: quand’è che ho iniziato a ritirarmi dagli abbracci? Come ho acquisito il concetto di tanto lo (ri)faccio dopo, non lo so. Ricordo il mare, Tirrenia, e pomeriggi di lenzuola fresche e tapparelle abbassate, sul divano letto, per riposarsi. I piedi neri di mamma che si abbronza come una turca. Ricordo i piedini ciccioni di sorella numero uno, con i palmi delle manine rosa. Ricordo noi schierate a doppia w nel dormiveglia pesantissimo che caratterizza il riposo pomeridiano.

“Papà mi voglio cancellare e riscrivere all’università, non voglio essere in ritardo”. E poi il braccio grande di papà che mi stringe le spalle, no amore, non funziona così. I grattini ai piedi che mi faceva nonna, con le dita artritiche ben incurvate e le unghie spesse di cheratina. Con lo smalto rosso dato dalla parrucchiera, certo. L’abbraccio possente di nonna di lassù, altissima, fortissima, l’odore di borotalco attorno a lei, nella sua stanza col pupazzo di Andreotti. Poi la piccola, sorella numero due: ore e ore sulla mia pancia. Lì. Con quel respiro di biscotto e gli occhi che si fidano. E perchè non ci siamo messi assieme nel lettone, una volta, tutti quanti, a respirare in silenzio, io non lo so.

Ho tirato fuori una scatolina, stasera, con una sciarpina rinvoltolata nell’angolo destro. Chissà da quanto tempo non la aprivo, ma l’odore della Vecchia mi si è conficcato nel naso, nelle orecchie, nel centro dei sensi tutti ed ha funzionato da trigger, da trampolino, da fattore scatenante: cosa ci facciamo, nella vita, senza dormire tutti assieme nel lettone? Ho svegliato l’Inglese e ho biascicato qualcosa, lui dormiva e non capiva, what?, what are you saying?: se Dio vuole ogni tanto la circostanze aiutano a sdrammatizzare. Mi sono messa sdraiata in terra, con la sciarpina appoggiata sul naso, a cercare di respirare gli odori della casa in cui sono cresciuta e che oggi pulisco freneticamente per paura che si sciupi, perchè ho timore di non esserne degnaa. Ci vorrebbe che fossimo tutti qui, tutti nel lettone. E’ pure nuovo.

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Nutritevi.

juanita

Passato il budello di strada che passa sotto il ponticino sbuco con l’auto e i fari sono proiettori, la piazzetta pisciosa è diventata un teatro neorealista. Alla finestra quei due fanno le cose, credo lo facciano apposta a farsi vedere, perchè hanno la luce dietro e lei sta con le braccia appoggiate alla ringhiera della finestra, lui dietro: colpi violenti, a intervalli regolari. Suono di ciccia che si batte addosso. Forse io che passo con la macchina sono parte del piano? Non mi fanno nè caldo nè freddo, mi volto solo per accertarmi che Mezza Pinta non stia guardando. Sta dormendo, infatti, russa. Mi giro di nuovo e guido piano verso l’uscita – un altro budello di viottolo, meno brutto, coperto di rampicante. Con la candida-cistite-infiammazione che mi ritrovo la cosa più sensuale che mi viene in mente è un bidet ripieno di granita al Chilly.

Poi ripensandoci tutti fanno, facciamo, le cose apposta per farci vedere. Come le coppie ben rodate, quelle che lei cucina e lui sparecchia – e guardano gli altri commensali per vedere se hanno capito, il timing, il tuning, il teaming. Oppure lui lavora e lei fa il parassita come quello degli squali, che gli pulisce i denti aguzzi e le pinne – pesce pilota? Mi pare. Lui ama la pesca a quadriglia, e all’improvviso lei sa tutto di esche, lo cita come fonte certa: ha detto Gionni che per la pesca a quadriglia l’orario migliore sono le diciassette e diciassette. E se lo dice Gionni. Il problema è che quando Giovanni diventa Gionni è tutto troppo tardi, è tutto finito. Chiamami con il mio nome per intero, penso sempre quando l’Inglese mi chiama, affinchè non si dimentichi di me dietro uno dei suoi baby, honey e segate varie. E’ più difficile tradirsi quando ci si ricordano ancora i propri nomi, quando non abbiamo ancora trasformato la persona in personaggio, l’uomo in compagno, la donna in assistente? Credo di sì.

Penso all’amatore disamato: la sua parabola eccezionalmente fortunata lo ho partato da vaccinatore di femmine a uomo innamorato e scaricato. Penso alla sua grazia, ancora tutta da riconoscere. Penso al cuscino finalmente nemico, allo stomaco chiuso, alla ruga che gli attraversa la fronte e si va ad appoggiare nel crasso: lo invidio. Penso alla donna che l’ha sniffato, mi piace, poi l’ha odorato perbenino, e via. Kaputt. E lui ora muore. E lei non è nemmeno vestita a festa: che ironia.

Penso a te, che ti sei scelta uno che ti somiglia terribilmente. A come scegli anche i ristoranti: è incredibile, che tu inanelli una serie di posti così uguali, ma cosa vi comunicate, con i feromoni? In tal caso le zanzare vi attaccheranno il doppio. Penso anche alle tue amiche, con gli occhi morti. A me voi mi fate paura, perchè sareste capaci di tutto, e di niente. Siete di ritorno dal tennis o da qualche posto dove vestirsi come un gelato all’amarena è di qualche attrattiva. Forse state andando ad ordinare un tagliere di verdure grigliate. Domani è venerdì, c’è l’aperi-qualcosa. Nutritevi, di qualcosa di buono, perchè avete gli occhi a fessura.

Poi, per ultimo, penso anche a me: non è serata da colonna sonora questa – ed è strano, perchè io pianifico prima la musica e poi le cose da farci. Spengo lo stereo e, approfittando del fatto che Mezza Pinta dorme stravaccata e con soddisfazione, accendo una sigaretta coi finestrini appena abbassati, guidando a quaranta chilometri orario come i vecchi, come guido io. La spengo e la butto via subito perchè mi sento in colpa: ma posso io turbare i suoi piccoli polmoni? La verità è che da quando esiste Mezza Pinta mangio le verdure e fumo massimo tre sigarette al giorno. Bevo acqua. Faccio sport dove non mi possono vedere. Provo a fissare esami, che poi non faccio perchè sono ipocondriaca di quelli seri, ma almeno ci penso. Provo a vivere a lungo per essere lì per lei: che non abbia a crescere senza nutrirsi.

Che non le vengano gli occhi morti quando ha trentanni. Che non baci quello con la macchina più grossa che la porta al ristorante quando ancora non distingue un tartufo bianco da uno nero, ma quello col cuore più intelligente che le fa assaggiare un frutto di stagione. Io, penso, devo essere lì a tirarle le padellate in testa per farle apprezzare la quiete. Poi ripenso a F, che è venuta su da sè, alla perfezione e mi placo. “Non puoi controllare questo”, mi dico, e respiro piano. Devo fidarmi del percorso, della Grazia. Vorrei che fosse felice come una pasqua, che non pensasse mai che io voglio che lei sia questo o quest’altro. Chè a me quelli piccoli col macchinone mi fanno venire l’angoscia: ma come, papà ti aveva dato tutti quei soldi e  la sola cosa che sei riuscito a riportare a casa è una berlina? Cristo. Ma magari a lei piaceranno – e io devo stare zitta. Come è difficile. Speriamo che mangi con gusto, almeno.

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David Bowie.

juanita

Anno Quinto dalla scoperta della pancera scosciata e dalla rimozione frudiana del tiralatte. La vita mi va bene, ho controllato il quadernino delle mie istruzioni scritto a diciassette anni e l’unico punto che ho fallito del tutto è il “ti auguro di essere già a New York” .  Faccio consuntivo e mi giro di centottanta gradi: guai a quelli che non si guardano mai indietro, diceva Mentore Uno, prima o poi li tampona un tir di ricordi. Non una bella metafora, ma si capisce bene. Me lo diceva sempre quando frignavo e mi disperavo di farlo: piangi, mi esortava, finchè ti addormenti. Al mattino mi faceva recapitare una colazione pagata. Mi giro, dunque, per incontrarmi qualche anno fa e per attingere gioia: domani è martedì, il mio giorno spreferito.

C sa mettere il disco nella plancia Pioneer con la soddisfazione di chi possiede un’auto d’epoca e la usa per andare alla Coop. Il tappeto bianco e peloso e staglia una cornice netta con il fuori, giardino selvaggio con rose e lumache senza guscio. Legno in terra, caminetto a gas e tutto al posto giusto. In giardino il piccolo cottage, con un fouton e un armadio pieno di fotografie che posso guardare la notte – io dormo qui, al riparo dagli attacchi predatori del mio padrone di casa, che mi chiama il suo migliore amico femmina. La colazione si fa fuori, piovesse o grandinasse, sotto quel cielo di quel celeste sporco che è solo lassù. Coccini bianchi, cucchiaini senza grumi di zucchero, lui col The Guardian e io con l’Independent, lui con il tea malefico, io con il caffè solubile – fonte sempiterna di gastrite e denti marroni. Perderà tutto quando, pieno di quattrino, lascerà questo bendiddio per muoversi in un palazzo a tre piani.

Ma siamo ancora qui, non è ancora stata venduta la casa con la stanza rossa ed i mobili cinesi, dove C è passato da figlio del contadino violento e beone a grande entrapreneur. Non c’è televisione, perlomeno, c’è ma non si accende. C’è un impianto Bose alto come me, e un giradischi con la puntina di diamante. Due scaffali, lunghi: i dischi sono allineati per colore ma anche per pregio. C sfila quella bianca, con David Bowie e L inizia a cantare – mi è venuta a trovare, è sul divano blue di camoscio da scarpe, credo che sia Ziggy Stardust, con quell’inizio perfetto. Un inizio non voluto, ma ritagliato, inventato lì per lì per suonare bene: questo è il genio, la forma che si frega il concetto e poi ci si incarna dopo avere riempito ogni spazio libero. Ziggy si è preso un settore del mio cervello, lì, davanti al tappeto peloso, fra il caminetto e il giardino selvaggio col sole, con L che ride, C che sorride, e a me mi esplode il cuore di gioia.

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Arietta pettegola.

juany

E’ andato tutto bene, stiamo tutti bene: un successo. Questa settimana nessuno si è rapito mia figlia per smembrarla in qualche campetto, l’Inglese non guida quindi non ha fatto incidenti, i miei genitori sono in salute e le mie sorelle una è al mare e una sta varando qualche campo, qualche iniziativa. Lo strozzino che mi è venuto a fare visita tramite segnalazione di un amico comune, che da ieri più amico non è, deve avere capito l’antifona e non si è fatto rivedere: per levarmi quella sensazione di unto di dosso mi ci sono volute quarantotto ore. Oppure, di nuovo, sono stata fortunata, e ha deciso di mirare a qualcunaltro. Ho saltato due giorni di ginnastica perchè ho una febbriciattola da stanchezza e cimurro starnutante, irritante, che mi gonfia gli occhi e restringe la testa.

Non ho implicazioni in appalti e non ho mai versato una mazzetta, quindi questo fine settimana non suderò freddo a pensare a quell’affare, a quelle tracce, a quell’avviso di garanzia. Non ho nemmeno uno yacht con licenza off-shore per portarci i miei amici nei venti metri che separano il molo dalla torre di comando, quindi non mi devo preoccupare di cosa farne a febbraio o della pensione dello skipper. Divido la macchina, car-share si chiama, ma ho rinunciato alla quota maggioritaria così non devo parcheggiare, così non devo richiedere il permesso. Vado in treno dappertutto e quando c’è ritardo faccio un sacco di amicizie. Oppure piango di rabbia. Mangio un toast a pranzo da anni, mille, e bevo solo vino buono dopo le sette e mezzo, perchè quell’arietta sonnolenta, pacificata, mi garba portarmela nei sogni.

Non ho cene importanti, a parte una a fine Luglio che mi dà un’ansia terribile, ma ho promesso all’Inglese: ci sarò. Non accetto inviti dai clienti o dai fornitori, per non dovere anche solo una volta mediare un giudizio ragionato. Non sono nel giro dei compleanni dei bambini chic, perchè i loro genitori arraffazzonano feste dove nessuno può smaialarsi in terra, e che gusto c’è ad essere bambini e a dover stare impediti sul parquet – quindi non ho un calendario serrato di regalini appariscenti da fare per queste magnifiche creature, i piccoli, che non sanno nemmeno cos’è un tallone o dove sta l’anima, che carichiamo di significati simbolici per poi stupirci che rubino per divertimento.

Non frequento le SPA, ma solo perchè mi sento brutta in accappatoio. Non frequento le spiaggie, ma solo perchè sono brutta in costume. Le due privazioni comportano che la depilazione di cera non stia fra le mie priorità quindicinali bensì una opzione annuale per quando ho desiderio di punirmi. E comunque la zona fronte retro non si tocca, ma siamo matti, non mi devo mica appiccicare ad un palo coperta d’olio e ballare a gambe aperte la lap. Non che non mi piacerebbe una volta, ma non riesco a toccarmi le caviglie quando sono in piedi.

Non ho un amico cui devo molti favori, quindi posso sempre dire mi dispiace, oggi non è giornata, lasciami dormire a chiunque. Non ho un ombrellone particolare dove voglio essere sistemata, anzi vicino al bar mi sta bene perchè ho sempre sete di acqua fresca frizzante, sudo moltissimo, quindi posso arrivare al mattino e prenotare un posto, a caso. Mi piace camminare, quindi la ztl cittadina del mio paesello, con l’ipotesi di poter fare camminare mia figlia senza che qualcuno me la falci, mi sembra una cosa straordinaria. Non ho la carta centurion e nemmeno la platinum, perchè Mentore numero due mi ha insegnato che al mattino bisogna sapere quanto si deve spendere, compresi gli imprevisti, e quello va portato dietro in moneta. Quindi non accumulo punti, non compilo questionari, non pago qualcuno perchè paghi qualcunaltro per darmi consigli se faccio i capricci. Meglio non fare le bizze e tenerli per una buona cena, con buon vino e buona compagnia.

Non sopporto i cocainomani, che si trascinano dietro ansie e billi ritti per i motivi sbagliati, quindi difficilmente mi invitano alle feste. Da un lato mi dispiace, dall’altro mi solleva dal dover comprare un vestitino estivo, che non so scegliere – l’Inglese dice che non saprei vestire un asino morto. Non so abbinare scarpe e vestiti. Mi metto quello che mi fa felice al mattino, cercando di rimanere rispettosa delle persone che ho attorno – non indosso il tutù quando sono felicissima. Non vado in palestra ma mi piace correre a piedi nudi.

Quindi hai ragione a dire che sono una povera imbecille, una contadina. Una che ha salito lo scalino. Una con i capelli crespi e il culo troppo grosso (largo, dici). Una che ma poi che vuoi che faccia al lavoro, guarda con che macchina di m** gira. Hai ragione a dire che sono una qualunque, anche perchè sono in ottima compagnia: conosco almeno venti persone che potrebbero più o meno stare in questa descrizione. Lascia che ti dica chi sono, queste persone: fanno spesso all’amore col marito o con la moglie – non con altri. Non stanno molto bene con un vestito da sera: vero. Ma vestono gli occhi di sorrisi. Hanno quanti figli rientrano nella famiglia senza tate a tempo pieno. Vanno al mare di martedì mattina e hanno sempre il divano impegnato da qualche amico che passa di lì. Invece di raccogliere fondi per il cancro fanno in modo che i dipendenti mangino bene, che siano ben pagati. Io non ti disprezzo anche se viviamo in mondi diversi, tu cerca di smettere di scrivere quelle cose – sei così pettegola, così cattiva. Eppure (di materiale) non ti manca nulla.

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90 (la Paura)

juany

La mia strategia contro la prova bikini è quella di avere creato una società che lavora al suo massimo dal primo di giugno al primo di ottobre. Ho ogni fortuna, perchè posso andare al mare di mercoledì mattina, alle sei e quaranta, noleggiare un barchino e andarmene al largo senza dovere tollerare figli e mariti che non siano cosa mia. E già è difficile coi tuoi. Oppure posso arrivare al primo di settembre bianca come un parmigiano reggiano, con l’aria trionfante di chi ha provato a risollevare le sorti dell’economia internazionale tutto da sola, con due braccia. In ogni caso posso saltare il vacare e lamentarmi acquisendo rispetto dalle folle – le dodici persone che frequento.

Devo stare attentissima a diradare gli incontri amichevoli nello stesso periodo, perchè sono tesa come come una rete da tennis a Wimbledon. “Ah, ma te sei questa qui?” si domandano con gli occhi tutto attorno quando vegeto, a sera, sulla seggiolina del parcheggio, l’unica dove non passo altro che io e i due matti ormai amici. Non respiro, sussisto. Rispondo a monosillabi, sono davvero preoccupata che i clienti siano felici, che Rupèrtolo, il dio che governa i canali stranieri, non abbandoni l’antenna della villa storica sopra Firenze – tanto bella, ma vecchia, disfunzionale. Prego che Tùbolo, la divinità che controlla le rotture dei tubi di domenica, mi sia amico. Che Coop non trasmetta l’escherichia coli ai miei clienti: non ho ancora imparato del tutto a separare pubblico, privato, lavorativo, personale, emotivo, razionale. Sta tutto lì, mescolato in un speriamo che mi vada tutto bene.

Passa un cane senza coda, è di sicuro un segnale nefasto. Lo segue F, che tutte le volte che lo vedo me ne capita una: scusa Madonnina, sono tanto superstiziosa, non lo faccio apposta. Lo ho visto ieri e mi si è presentato uno strozzino in ufficio sotto mentite spoglie, forse a sentire che aria tirava; vendo soldi, mi dice. Annuisco, non riesco a dire niente di quello che mi passa in testa – andate via, mostri. Accompagnato da un cieco e da un povero vecchio che invece di pensare ai soldi dovrebbe mettere in olio l’anima, risucchiata. F lo ho visto stamani, di nuovo, e un gruppo di anonimi orgiastici mi ha minacciato e ricattato telefonicamente per entrare in una villa senza darmi alcun nome – paghiamo in contanti: via, brutti lerci. Non nelle mie ville. (Madonnina, te l’avevo detto che quello porta più rogna di una maga che leva il malocchio).

Passa B a trovarmi, profuma come un mazzolino di fiori anche se si lamenta del caldo. Sembra un pasticcino, lei, sveglia come un furetto, con una ciliegina sulla testa. Mi portava a giocare a tennis tanto tempo fa.  Mi piacciono le persone che non cambiano gli occhi nel tempo, e i suoi sono ancora puliti, allegri, curiosi. Tutto il contrario delle fessure, morte, di quelli che sono venuti a turbare il mio piccolo mondo lavorativo: spenti, venduti. Il vostro feticcio è fetido, signori. Scherzavo, non lavoro qui, non vorrei essere qui, io suono la chitarra e sono felice così, portate via codeste carcasse che chiamate corpi, e non vi dimenticate le spugne putrescenti, le vostre anime: vi siete venduti ai soldi, e ora raccogliete quello che avete seminato. Il vuoto. Ma vi supplico, non venite a calpestare il mio orto: c’è qualche spinacio, due o tre pomodori, è tutto da fare è vero, ma ci sfama tutti ed è rigoglioso. Felice.

Mamma mi ha regalato Django Reinhardt, so che al quarto ascolto consecutivo starò meglio. Mi faccio tanti caffè. Oggi niente corsa, oggi niente capelli da asciugare, nessuna depilazione o fondo tinta: io, davanti allo specchio con la mia lieve cuperose, a darmi dell’imbecille: quante volte mi devo dire che il mio stomaco sa prima del mio cervello cosa devo fare? Avrei dovuto dire no, non venite. Avrei dovuto dire una bugia, forse, per mascherare la paura. Avrei dovuto fare la pazza, spaventarli, farli correre via. Meno male che c’è il gelato e che si può ancora andare a letto alle dieci senza che il governo ci metta una tassa. Meno male che c’è la lingua: devo raccontare questa storia a tutti, mi devo fare confortare, non ci sono segreti e non c’è vergogna quando non si fa nulla di male. L’Inglese dice che nulla succederà – e che devo smettere di dire sempre di sì. Io gli do retta stavolta.

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Stai un pò zitto.

ceciliajuanita

La mia amica M ha due cose: la prima è la capacità di amare senza guardarsi dai pericoli, la seconda è un cestino di vimini zibillo di guepieres per occasioni speciali. Le ha comprate al discount della biancheria intima, perchè sapeva di non dovere guardare in faccia la commessa e che nessuno l’avrebbe salutata, quando ha incontrato la sua metà. Mi dice che quando ha iniziato la sua storia con P lui la amava raffinata e lei non ha esitato: ha speso e spanso per adeguarsi al di lui ideale. Si è buttata di testa, “quando succede perdo la capacità di calcolare, divento perdente”. Dice perdente, come le persone troppo magre dicono di non avere fame ora: non se ne accorgono, che non gli va mai di mangiare, che ce l’hanno dentro. Perdente, le donne, ce l’hanno scalfito nell’animo, perchè così ci insegnano, tirano su, dileggiano. Perdente, invece, è chi non si fa ammazzare per amore.

Quando P la viene a trovare una, due, tre volte al mese, assieme scelgono un posto dove stare assieme, cenare al lume di candela, baciarsi e stare in intimità e poi, al momento di crollare nel sonno più becero, quello dove si russa, lei riparte come una fatina e torna nel suo letto, a casa sua: lui non vuole che lei lo senta russare. Gli uomini, questo gli va dato, sono dei campioni su pista. Sono come delle turbine di vaccate cui noi donne forniamo energia nucleare per fusione – e gratuita. “La prima volta”, mi dice M, “che siamo stati assieme mi sono portata il beauty case – la borsina cui noi donne deleghiamo la nostra presentabilità e i segreti più turpi: no gas giuliani, tamponi, piega ciglia, incanta peli, corrodi unghie, scalcina forfora – e ho detto a mia mamma non torno stanotte“.

“Arriviamo in questa bella casa, un rustico, così romantico: c’ho messo del mio a trovarlo. Stiamo a cena, si parla, si fa anche tardi e poi, certo”. Inizia a ridere. “Al momento di addormentarsi lui mi fa capire che non sta bene stare assieme dopo. Prendo il beauty e torno a casa”. Ripenso a quando sono stata tre anni con un fidanzato in un altro continente, senza vederlo più di due volte l’anno, dicendo a tutti che ci saremmo sposati. Quando? Ma che ne so quando, non posso mica pianificare ogni cosa. Ricordo gli sguardi di pena delle mie amiche. Ora, dico: una donna cosa deve fare per essere amata? Non lo so. Non l’ho mai capito. Fare presenza? Lanciarsi in acquisti facendo un mutuo in banca per adeguarsi al di lui ideale di noi stesse? Oppure deve latitare? O cercare di essere la fidanzata, moglie, compagna perfetta, quella che tutto sa e tutto capisce?

Interrogarsi sull’amore è come cercare una formula matematica per sapere quante piroette farà un ballerino con cinque minuti a disposizione e un palco di legno. Ma interrogarsi sui feticci che ci portano a fare sempre le solite scelte – a quelle che si immolano e a quelle che vivono tranquillamente senza – quello è d’obbligo: perchè la discesa senza freni arriva sempre dopo quella curva lì? Non potrebbe esserci un passaggio più veloce, meno infelice, abbastanza riparato? Perchè casco sempre e comunque da questa bicicletta? “Eri così?”, chiede M. “Così come?” – temo di sapere la risposta. Quello che non ti ho detto, M, è che una notte sono stata a strusciare la mia testa contro un’ascella che non era quella giusta, ad ascoltare musica retrò e guardare le foto di un piccolo paesino sul mare. Quella sera avrei lasciato tutto, ogni cosa: gli affetti, il lavoro, le chitarre, per andare lì. Quando il proprietario dell’ascella ha aperto le fauci, per il terrore che non me lo chiedesse, gli ho tappato la bocca con la grazia del macellaio. Schiò. Ho ancora il cestino di cotone con dentro le foto e il cd delle canzoni retrò, però.