Categorie
Juanita de Paola vita piccola women

Non mi sento preparato.

Juanita De Paola

Il mio amico F mi chiama spesso per piangere: la ragazza lo ha lasciato, no, la ragazza è rimasta incinta, no anzi la ragazza ora è moglie e non sono pronto a rinunciare a tutto, anzi no, oddio lei se ne è andata e non vedo più mia figlia. Vorrei essergli di grande consolazione giacchè siamo amici, appunto, la realtà è che vorrei solo rovesciargli un secchio di sangue caldo di bue in testa. Anzi, di maiale, come nella scena regina di Carrie sguardo di Satana, l’unico libro che ho letto in vita mia senza saltare nemmeno una pagina.

La bambina ha una sequenza di foto con il papà, su facebook, nell’album “mio tesoro”. Non ci sono foto con i tre assieme, perchè probabilmente G, la ragazza ex, le ha bruciate tutte con rito animista: nulla ti mostra l’orrenda umana bruttezza come la nascita di un figlio –  il peggio, salta fuori e puzza. Lui ha continuato il calcetto, lei ha mollato la taglia quaranta e qualcosa. Lui ha riniziato la pesca e il silenzio, lei ha dovuto scoprire le tecniche per smacchiare il vomito dalle magliette di seta. Lui ha continuato a guardare le bollette come le mucche osservano i treni che passano, lei ha cominciato a scrivere sull’agenda della banca ogni euro.

Questo, se tutto è rimasto nei parametri della normalità. Perchè se vivaddio è arrivato un problema serio – la bambina con un ritardo  mentale, che so, una malattia degenerativa, o anche solo la perdita del lavoro di uno dei due – ce n’è da benedire e da santificare. Non voglio dire che lui si è infilato la tuta da coglione e lei quella da scimmia urlatrice che non si accoppia, non solo questo, certo. Lei ha smesso di ridere, ad esempio, o di mettersi le magliette senza reggiseno. Lui ha scoperto i calzini di spugna bianca. Lui ha deciso di imparare a suonare il contrabbasso, lei che non c’è più nulla da imparare, perchè la vita è finita – sono vecchia, ormai non esco più.

Fuck this shit! Ma non si può prendere alla leggera l’amico disperato, e allora lo chiamo qui, a casa. Ho un salotto ampio, con un divano immenso – ci vivo, ci leggo, ci dormo. Viene e mi racconta  la tragedia, come si è compiuta. Eppure io la amo, per me lei è ancora bellissima. Ma io pensavo che avrebbe sempre trovato il tempo per me. Ma io credevo che non sarebbe cambiato nulla. La bambina è la mia vita. I suoi genitori si mettono sempre nel mezzo. Non usciamo mai. Si lamenta sempre dei soldi. Vuole che trovi un lavoro fisso ma io in ufficio mi sento morire. E così via. Il fatto, F, è che tu eri pronto per trastullare una bambina, la tua, ma non per la sua mamma. Magari richiamala fra ventanni. Magari svegliati. Magari se le mandi cento euro al mese la bambina te la fa vedere. Magari era meglio se il servizio militare e l’economia domestica non li levavano di giro, mi pare a me.

Categorie
aesthetic Juanita de Paola vita piccola women

Un certo peso.

Qualche anno fa sono stata invitata a valutare un immobile di grande pregio, con parco, con statue, con vigne, con piscina di acqua di mare a sfioro, con l’elicottero parcheggiato, con le torri romantiche, con il sono system nel parco, insomma con tutto quello che uno si aspetta nella magione di un milionario che è partito da niente. L’oggetto più interessante era sicuramente il figlio, mio coetaneo, che avrei valutato più approfonditamente senza nemmeno ricaricare la mia famosa parcella oraria. Avevo appena sgravato, con un peso corporeo specifico di ottantasei chili. Ne avevo persi solo sei durante il parto: avevo approfittato dei nove mesi per rifarmi di tutte le tagliatelle mai mangiate prima, per ingozzarmi di gelato e per bere litri di coca cola. Ricordo ancora con grande gioia l’ingollare tutto, sempre, senza problemi.

Dopo un’ispezione accurata ci eravamo seduti, ci avevano dato vino bianco fresco e succhi di frutta. Per non fare vedere le braccia come cosce e le cosce come alberi ero vestita come a febbraio, con uno sciarpino che coprisse il doppio mento. Il giovane coetaneo, invece, era in magliettina bianca fina fina e jeans accomodati su terga strepitose. C’erano anche i suoi dodici figli biondi e, dopo poco, la ninfa che aveva sottratto al suo habitat naturale e sposato. La valutazione era finita nel sangue, come al solito, e non se ne era fatto di nulla – la magra consolazione è che il castello è ancora lì, e che forse avevo ragione a dire che dentro di sè, loro non lo volevano vendere per niente. Mi ero alzata sperando di vanificarmi, eppure come un pachiderma ero rimasta, fisica, ad occupare uno spazio di ottanta chili circa. Il giovane figlio mi aveva accompagnato, così come si fa con le vecchie senza denti, e aperto lo sportello della macchina. Ero sparita, purtroppo non del tutto.

Qualche mese dopo ci eravamo risentiti, il giovane aveva preso le redini di un carro che non aveva assolutamente bisogno di essere guidato e voleva che ci mettessimo in affari insieme: ero piaciuta. Daltronde donne di stazza chilometrica e con figli sono statisticamente un jolly da assumere perchè non comportano complicazioni come storiacce sul lavoro e in genere: solide di caviglia, solide di morale. Ci eravamo rivisti, a quel punto io navigavo sempre nella settantina di chili – e mi sembra straordinario ricordarmi il mio peso giorno per giorno ma dimenticare i nomi delle persone: che cos’è, una sindrome? Voleva un ufficio assieme, avevamo vagliato qualche posto, poi era sparito.

Qualche anno dopo ci siamo sentiti ancora, mi aveva invitato. Sarei dovuta andare al castello, per celebrare il suo nuovo accoppiamento con la donna cerbiatto, un esemplare di caratura ancora superiore al precedente, di circa ventidue anni. Mi avevano spedito le foto, lui ci teneva al fatto che io, e molti altri probabilmente, vedessimo quale popò di femmina si era accaparrato. Avevo declinato perchè non ho nulla da mettere in queste situazioni e perchè avrei passato la sera a piangere, a pensare a quanto sono inadeguata, a vergognarmi perchè non so attaccare discorso se non riguarda il lavoro o un passato comune.

Oggi navigo nella sessantina (chili e anni interiori). Di tanto in tanto vado su internet a cercare le foto del giovane uomo che anni fa incontrai nel castello e davanti al quale agitai due chiappe improponibili. Mastodontiche. Lo ritrovo con la cerbiatta, su qualche rivista, in qualche flickr, su Getty Images. Cerco lei, prima di tutto, perchè le forme del suo volto sono perfette e io spero che un giorno, a forza di guardarle, mi capitino pure a me. Lui ora ha i capelli striati di grigio e il naso rosso di chi ha sbevazzato un pochino troppo e veste di bianco sempre, o forse tutte le foto sono di Saint Tropez. Forse vivono a Saint Tropez, in piscina, con un sacco di gente vestita da gladiatori – quella foto lì non l’ho capita bene. Spero che lui mi chiami fra dieci anni, per allora sarò nella cinquantina, sia esterna che interna.

Categorie
Juanita de Paola vita piccola women

Nutritevi.

juanita

Passato il budello di strada che passa sotto il ponticino sbuco con l’auto e i fari sono proiettori, la piazzetta pisciosa è diventata un teatro neorealista. Alla finestra quei due fanno le cose, credo lo facciano apposta a farsi vedere, perchè hanno la luce dietro e lei sta con le braccia appoggiate alla ringhiera della finestra, lui dietro: colpi violenti, a intervalli regolari. Suono di ciccia che si batte addosso. Forse io che passo con la macchina sono parte del piano? Non mi fanno nè caldo nè freddo, mi volto solo per accertarmi che Mezza Pinta non stia guardando. Sta dormendo, infatti, russa. Mi giro di nuovo e guido piano verso l’uscita – un altro budello di viottolo, meno brutto, coperto di rampicante. Con la candida-cistite-infiammazione che mi ritrovo la cosa più sensuale che mi viene in mente è un bidet ripieno di granita al Chilly.

Poi ripensandoci tutti fanno, facciamo, le cose apposta per farci vedere. Come le coppie ben rodate, quelle che lei cucina e lui sparecchia – e guardano gli altri commensali per vedere se hanno capito, il timing, il tuning, il teaming. Oppure lui lavora e lei fa il parassita come quello degli squali, che gli pulisce i denti aguzzi e le pinne – pesce pilota? Mi pare. Lui ama la pesca a quadriglia, e all’improvviso lei sa tutto di esche, lo cita come fonte certa: ha detto Gionni che per la pesca a quadriglia l’orario migliore sono le diciassette e diciassette. E se lo dice Gionni. Il problema è che quando Giovanni diventa Gionni è tutto troppo tardi, è tutto finito. Chiamami con il mio nome per intero, penso sempre quando l’Inglese mi chiama, affinchè non si dimentichi di me dietro uno dei suoi baby, honey e segate varie. E’ più difficile tradirsi quando ci si ricordano ancora i propri nomi, quando non abbiamo ancora trasformato la persona in personaggio, l’uomo in compagno, la donna in assistente? Credo di sì.

Penso all’amatore disamato: la sua parabola eccezionalmente fortunata lo ho partato da vaccinatore di femmine a uomo innamorato e scaricato. Penso alla sua grazia, ancora tutta da riconoscere. Penso al cuscino finalmente nemico, allo stomaco chiuso, alla ruga che gli attraversa la fronte e si va ad appoggiare nel crasso: lo invidio. Penso alla donna che l’ha sniffato, mi piace, poi l’ha odorato perbenino, e via. Kaputt. E lui ora muore. E lei non è nemmeno vestita a festa: che ironia.

Penso a te, che ti sei scelta uno che ti somiglia terribilmente. A come scegli anche i ristoranti: è incredibile, che tu inanelli una serie di posti così uguali, ma cosa vi comunicate, con i feromoni? In tal caso le zanzare vi attaccheranno il doppio. Penso anche alle tue amiche, con gli occhi morti. A me voi mi fate paura, perchè sareste capaci di tutto, e di niente. Siete di ritorno dal tennis o da qualche posto dove vestirsi come un gelato all’amarena è di qualche attrattiva. Forse state andando ad ordinare un tagliere di verdure grigliate. Domani è venerdì, c’è l’aperi-qualcosa. Nutritevi, di qualcosa di buono, perchè avete gli occhi a fessura.

Poi, per ultimo, penso anche a me: non è serata da colonna sonora questa – ed è strano, perchè io pianifico prima la musica e poi le cose da farci. Spengo lo stereo e, approfittando del fatto che Mezza Pinta dorme stravaccata e con soddisfazione, accendo una sigaretta coi finestrini appena abbassati, guidando a quaranta chilometri orario come i vecchi, come guido io. La spengo e la butto via subito perchè mi sento in colpa: ma posso io turbare i suoi piccoli polmoni? La verità è che da quando esiste Mezza Pinta mangio le verdure e fumo massimo tre sigarette al giorno. Bevo acqua. Faccio sport dove non mi possono vedere. Provo a fissare esami, che poi non faccio perchè sono ipocondriaca di quelli seri, ma almeno ci penso. Provo a vivere a lungo per essere lì per lei: che non abbia a crescere senza nutrirsi.

Che non le vengano gli occhi morti quando ha trentanni. Che non baci quello con la macchina più grossa che la porta al ristorante quando ancora non distingue un tartufo bianco da uno nero, ma quello col cuore più intelligente che le fa assaggiare un frutto di stagione. Io, penso, devo essere lì a tirarle le padellate in testa per farle apprezzare la quiete. Poi ripenso a F, che è venuta su da sè, alla perfezione e mi placo. “Non puoi controllare questo”, mi dico, e respiro piano. Devo fidarmi del percorso, della Grazia. Vorrei che fosse felice come una pasqua, che non pensasse mai che io voglio che lei sia questo o quest’altro. Chè a me quelli piccoli col macchinone mi fanno venire l’angoscia: ma come, papà ti aveva dato tutti quei soldi e  la sola cosa che sei riuscito a riportare a casa è una berlina? Cristo. Ma magari a lei piaceranno – e io devo stare zitta. Come è difficile. Speriamo che mangi con gusto, almeno.

Categorie
Juanita de Paola travel vita piccola women

State buoni, se potete.

Se vado all’inferno questo avrà la forma di una spiaggia con gli ombrelloni ad Agosto, ci saranno solo libri scritti a dialoghi con le virgolette e una connessione internet a 33,600 con modem difettoso – ci sarà la telecom, quindi. Infame, sempiternamente maledetta sia la Telecom e chi mi priva del mio cablaggio ottico quotidiano. L’idea della vacanza di per sè già mi atterrisce: presuppone un periodo non vacante, impegnato, ovvero distingue la vita in obbligo e divertimento, senza un continuo. Ma se a questo aggiungo la visione di migliaia di nani avvolti in crema bianca protettiva con adulti che corrono loro dietro, se richiamo ai timpani della memoria il suono stridulo delle urla subito dopo il pranzo, mi ricordo perchè promisi a me stessa di non figliare mai: l’inestetismo esistenziale si accompagna alla prole. Se poi si parla della prole altrui, si arriva all’offesa.

Non volevo diventare mamma, l’avrei fatto solo per salvare una storia che si stava chiudendo e non avevo la più pallida idea di cosa mi aspettava. Per un anno intero dall’arrivo di quella lì, così la chiamavo dentro di me, pensavo che mi sentivo violentata, stragiata, come una mucca che allatta incatenata alla griglia d’acciaio, in un allevamento intensivo senza terra. Ho perso il mio corpo, il mio numero di piedi; il mio seno bellissimo è diventato una palla doppia, dolorosa e quando si è sgonfiato ha perso turgore: non è più il tempo della canottiera senza reggiseno, e nemmeno del vestitino rosso corto di lino. Ho abbandonato il sonno pesante per sempre aprendo la porta alla preoccupazione perpetua, e mi sono trovata a desiderare la morte fisica del mio compagno affinchè comprendesse un pezzettino del mio dolore, della mia rabbia. Finchè non ci sei, non lo sai – non ne sai niente. L’unico sollievo è pensare che quelli che ti hanno abbandonato – le amiche del sabato, gli amici della montagna, la compagnia del mare – ci passeranno. E tu ne sarai fuori quando loro inizieranno la discesa verso la Caienna. E tu saprai – e loro sapranno che tu sai, più importante.

Tutto passa un giorno, e viene superato da una nuova sensazione che non voglio definire per pudore, ma che spazza via ogni livore. In quel momento si fa come i bachi pelosi: si lascia lì una pelle e si diventa un insetto volante, apparentemente più bello ma in realtà semplicemente più visibile quanto più proiettato alla morte. Non conta più tanto, a dire la verità, se non nell’ottica non vorrei lasciarlo solo, perchè esiste quella pulsione, quel delirio di emozioni che un figlio rappresenta. Questo è il momento in cui ci si gira verso i propri genitori e si piange di vergogna, di riconoscenza: ma come hanno fatto a essere così bravi? Come avete fatto a sfangare tutto? Cresce la gratitudine, la comprensione. Conta solo una cosa: che i figli stiano bene. Devono stare bene. Che mangino. Che cachino. Che possano camminare in qualche modo. Che abbiano possibilità di studiare in una scuola decorosa. Che siano capaci di guardarci negli occhi: più di tutto.

Maledetti populisti che avete la formula della famiglia perfetta, a breve succederà una rivoluzione vera, altro che tutte in piazza con le dita a forma di figa e segni della pace sulle guance: sta per arrivare il giorno in cui la gente inizia a fare quel che deve fare senza delegare agli Azzeccagarbugli. Il giorno in cui la chiesa si leva il cappello dorato e comincia ad aprire le porte delle parrocchie per farci dormire la gente che ha freddo. Arriva il tempo della responsabilità e quello della ragione, che è il vestito migliore del cuore, in cui si entra dentro questi posti dove ci sono i bambini e ce li portiamo a casa: e gli facciamo la minestra, e gli diamo gli scapaccioni, e li obblighiamo a venire la domenica dai nonni a quei pranzi terribilmente meravigliosi, per insegnargli che la famiglia non è oggettiva, ma è la percezione del dintorno. E poco male se papà è sposato con papà, quando si vogliono tanto bene – state buoni se potete, tutto il resto è vanità.

Categorie
Juanita de Paola travel vita piccola women

Che bellissimo.

juanitadepaola

Più di tutto mi piace leggere di altri quando non mi sottopongono i loro manoscritti. Per questo mi piace leggere i blog, snasare fra i tag, trovare storie ordinarie: non amo quello che sbuca fuori, che è troppo diverso. Mi piace la signorina Felicita, mi appassiona chi si contenta, chi fa un lavoro invece di un altro perchè così può tornare a casa a suonare la fisarmonica – deve essere per questo che faccio quello che faccio. Non c’è coerenza su questa terra. Fra i pensieri in rete favorisco quelli di autori di età non verdissima, dico, dai cinquanta in su, salvo pochissime eccezioni. Mi commuove ancora leggere i resoconti del primo viaggio fiorentino fatto dalle ragazze di sessantanni, che hanno messo da parte un bel pò ed eccole qui, a girellare per i negozi di artigianato sognando una nuova vita medieval-romantica.

Mi chiedono sempre la stessa cosa: troverò un uomo italiano come quello dei film? Sì, asserisco sicura. Perchè loro stanno pensando a La Dolce Vita, mentre io ad Alien 4. Rinasce una grazia bambina nelle donne che viaggiano dopo essere state incatenate alla famiglia tutta la vita: figli o non figli stiamo parlando di un master in real estate developement, crisis management, food and beverage stockage, human resources recruitment, lungo almeno trent’anni – a un uomo gli danno centomilaeuro per un lavoro del genere. Alleggerite dai pensieri, per almeno un mese, fumano sigarette camminando, bevono troppo, sognano con gli occhi di essere col cervello e il cuore di ora, ma col corpo dei trenta, per una sera. Qualcuna, più smaliziata, si porta i tacchi alti: con i soldi per cento taxi in tasca, si può fare eccome.

Così il giardino dei Boboli ha spalancato le mascelle alla mia amica C, che ha perso la figlia, la unica, di vent’anni per un’operazione di routine: allergica all’anestesia se n’è andata così, come un respiro affannato. Faceva le foto ai fiori, la bimba, era una designer di giardini, e quando siamo entrate nel parco C ha cominciato a tremare, a piangere, a pregare e anche a bestemmiare. Poi c’era S, che il marito le ha rubato tutto anche la moto, e ha deciso che verrà qui – le serve un piccolo appartamento con mansarda, bisogna avere poco spazio sulla testa per potersi difendere dalle avversità. E anche B, la più grande delle tre, che non smetteva di avere la diarrea. Cancro, mormoravano le altre a pranzo, quando lei andava al bagno. Poi lei tornava e lei aveva gli occhi di chi è sano ma sembra malato: quella è una stirpe che dura duecento anni.

L’esitare, davanti ad un panorama famoso, davanti al David, è lecito. Quello di cui ci siamo convinti è che si debba dire qualcosa di straordinario davanti ad opere d’arte o viste mozzafiato, invece è una boiata: “che bello, wow, oddio” sono esattamente quello che Michelangelo, Vasari e Cristo hanno voglia di sentire da lassù. Ma te l’immagini che palle il commento critico alle colline del senese. “Guarda caro, gli ossidi ferro e argilla: che nuances. Certo, nota che finezza questi grani, osserva l’indice di rifrazione”. Molto meglio un “Mi, che colori”. E questo è proprio quello che intendo: le mie ragazze, quelle che mi piacciono tanto, non hanno bisogno di dire nulla di più di quello che il cuore comanda. Senza tanti accenti, accessori, pause. La libertà deve ancora arrivare, per questo è importante conservare la bellezza del cammino.

Categorie
Juanita de Paola vita piccola women

Attualità comparata.

juanita

Entro nel Vaticano della mia personale religione: la cucina con il forno acceso. Ci ho sistemato dentro un pane lunghissimo e privo di consistenza che non mangerò, ma che come un ambipur diffonde aromi sani, buoni. Positivi. E’ tempo di non bere, di lasciare i vini migliori a quando spunteranno fiorellini e frutti, di fare fioretto. La baguette sta nel forno d’acciaio ricco, tiro fuori il burro e il sale. Stracchino. Pesto aperto. Cucchiaino di maionese. Due ravioli freschi non cotti. Apro la schiacciatina secca che scrocchiola e giro la prima pagina di Gente, probabilmente il migliore peggiore giornale di sempre.

Posso sedermi solo lontana dalla porta, perchè sdraio le gambe quando mi siedo e tutti ci inciampano. Il cane si appropinqua: ci odiamo con amore, lui dorme solo accanto a me per il gusto di russarmi accanto, di disturbarmi, mentre io lo nutro più del dovuto solo per farlo diventare obeso. Un pò come nelle famiglie vere, dove l’amore certe volte ti avvelena e dove le botte nel sedere fanno meglio delle carezze, anche io e l’orrenda creatura spelacchiata abbiamo stabilito un patto di convivenza dove non ci rompiamo gli zebedei.

Le cose più belle ci arrivano dalla stanchezza, le più brutte dall’insofferenza: è incredibile che io possa amare ed essere così irritata allo stesso tempo dalla piccola, che non sta mai zitta. Non so leggere mentre preparo da mangiare mentre apparecchio mentre ascolto, quindi devo mettere da parte il giornaletto e correre. Questo itinerario demente tocca alle mamme, ripenso alla mia e mi chiedo come abbia fatto con tre di queste a sopravvivere alla famiglia: ascolta il bisogno, rispondi, soddisfa, ascolta il nuovo bisogno, rispondi, soddisfa. Nel frattempo ricordati della bioraria. E chiudi le finestre quando è buio. Operazioni manuali, ripetute all’infinito, che mi tolgono il bianco dagli occhi.

Facciamo festa, dico alla piccola donna. Non posso essere quella che sta col muso di Venerdì. Cosa vuoi fare, piccola? – Si è spaccata il labbro stasera, saltando su Winnie The Pooh gonfiabile, una specie di seggiola sotto vuoto e pelosa: è rimbalzata ed è cascata di faccia. Poi ha rovesciato lo yogurt, tutto, per pulirsi la bocca. Poi ha bevuto la Fanta dalla bottiglietta, si è ingozzata, ha fatto il verso del vomito e ha sputato tutto in terra: ho dato il cencio. Dò il cencio, spesso. Le ho messo il ghiaccio, poi le ho dato il gelato tanto avevamo anche la scusa, e abbiamo parlato. Ho ascoltato più che altro, i bambini perdono interesse velocemente. “Voglio addormentarmi con te alla televisione”. Non le è permesso, mai, ma stasera sì.

Domani sarà il giornalaio, il caffè caldo con due brioches: quella alla crema e quella ai mirtilli, che questa secchissima creatura si mangia ogni mattina. Con i quotidiani, il cane, il pane fresco e i tacchi altissimi arriveremo al nostro tavolino del bar giallo con le cameriere gentili. Passeremo davanti alle case delle persone che vediamo da trentanni senza condividerci niente e le saluteremo con la stessa felicità. Mi diranno che la bambina è cresciuta, diremo loro Buongiorno Signora tutte impettite e con la faccia in su, se no non si sente e non si vede.

Poi parleremo di Sofia, di Letizia, di Alessia, Andrea, Gaia, le maestre e i segreti che non si possono dire – a quegli altri. Rideremo delle solite cose, mi arrabbierò perchè vuole l’estathea freddo gelato e fa male al pancino. Vivo nell’oblio di una gioia espansa, costante, pregando che duri così senza scossoni. Penso alla mamma delle bambine e a quella dei bambini bruciati nel campo, e mi chiedo di nuovo come si faccia a non avere un bottone che, in quei casi, ci possa far spengere subito. Senza ulteriore dolore.

Categorie
Juanita de Paola vita piccola women

La prima volta.

Juanita

Kate Moss non accenna a perdere un colpo e quando la guardo sento una fitta di invidia pura. Le mie labbra si assottigliano come l’energia per uscire il venerdì sera. Andare a comprare le verdure in piazza della Sala in un pomeriggio, così, non programmato, è diventata un’avventura: ho subito una lobotomia? No. Sono diventata mamma. Programmo tutto con anticipo, io che non ho mai fatto una valigia la sera prima di partire per viaggi ciclopici: il succo di frutta nella borsa, di modo che fra scuola e danza ci sia una pausa liquida, un cambio sempre dietro tante le volte la piccina si facesse qualcosa addosso, salviette pulisci tutto, fazzolettini, crackers all’uranio impoverito che durano dodici anni per placare fami improvvise. Le canzoni che piacciono a lei, perchè le mie le fanno (già) schifo.

So a menadito quanti soldi ho dovunque. Quella che chiede l’estratto conto in banca perchè si sente in colpa, fa finta di guardarlo incrociando gli occhi e poi con faccia pseudo rasserenata chiede cinquanta euro all’ometto sono io, cinque anni fa. E’ impressionante: so gli spiccioli, so quelli grossi, so quelli che non si possono toccare ma poi si toccano, so quelli nella banca del fidanzato e anche quelli della società. So quelli sparsi in borsa. So tutto. Ergo la spesa folle, che so, la borsa colore viola in nappa di topo, non la posso più fare, perchè mi appare vivido davanti un maxi foglio di excell in 3d, all’interno del quale vedo le entrate, le uscite, gli arrivi e le partenze presunte, il gruzzolo per le emergenze, il budget della spesa e quello per gli aerei. Impossibile. Nella conoscenza, dunque, sta il segreto di un livello soddisfacente di frigidità esistenziale.

In questi giorni beati di malattia, settantadue ore senza telefono, senza famiglia, sola con i conati del vomito e un’emicrania che mi avrebbe distolto da un parto naturale, sono rinata. La pace, profonda, di una dormita necessaria. Il resto della famiglia che ti si stringe attorno e fa in modo che tu non senta pio, che nessuno transiti nella tua stanza, che suoni si propaghino a meno che non strettamente necessari, ovvero “come stai?”; “vuoi ancora tea?”; “prendi queste, ti faranno dormire”. Ho ripercorso le tappe fondamentali della mia vita in un dormiveglia convulso e caldo: la prima volta in cui mi sono resa conto di cosa avrei potuto combinare e non l’ho fatto, la prima volta che ho provato a buttarmi dall’alto e ho volato come un gabbiano in un sogno tremendo, la prima volta che ho sognato la casona verde che ricorre nei miei incubi da quando sono piccola, la prima volta che ho smesso di avere paura che la piccina morisse durante la notte. La prima volta che mi sono sentita di nuovo donna dopo l’esperienza animale del parto, e che mi sono rimessa un vestitino con delle forme. La prima volta che ho capito di essere stata molto fortunata, e molto amata.

Mi sono alzata, tremula sulle gambe, con la voglia di uscire e farmi corteggiare a cena per ore. Purtroppo l’inglese è lontano e questo non mi è dato. Ma è lo stesso: l’importante è sapere di potere, qualche volta, più che l’esecuzione in è per sè. Ho passato ore a strusciarmi i piedi uno contro l’altro sotto la coperta di pile, come fanno i gatti, e a non pensare assolutamente a niente; ho anche letto fumetti, ancora incellofanati dopo anni dal loro acquisto, giornali che mi erano passati indifferenti, bevuto litri di succo di frutta. Ho fatto il pollo lesso col brodino consolatorio. Ho fatto un bagno caldissimo che mi ha fatto arrossare le vene in faccia. Poi mi sono chiesta se nella vita mi sarà possibile avere due giorni di pura rilassatezza solo quando sono debilitata o in preda a un virus violento. La risposta è probabilmente sì.