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Juanita de Paola lavoro vita piccola

Vivere verso i cinquanta

Fra le poche persone felici che si vedono, ci sono quelle che cantano nelle macchine brutte, coi finestrini calati, senza aria condizionata o navigatore, odierni Ranulph vestiti per stare comodi e pronti a cambiare la cinghia o la vita. Se ci pensi, non hai mai visto uno che acchiappa il vento con le mani in un’Audi. Ridono invece nelle macchine usate da due lire, con la musica piena di bassi, o ti salutano dall’Ape, con il cane da caccia ed il cassone pieno di legna.

Non ho mai comprato macchine, o case, così, mi sono detta, se dovesse scoppiare la guerra, ci metto poco a partire con lo zaino. Non so quanto sia sano possedere nulla, probabilmente è solo la faccia tirchia e pauperista dell’ammassare ricordi, ma ultimamente mi rinfranca l’idea di essere come un Occhione, pronta a migrare, lontana dal rumore di lamiera squarciata che sono le notizie di oggi. Ho messo tutti miei ricordi nelle mensole virtuali del cloud e scannerizzato i documenti importanti, perché certe volte l’idea di potere ricominciare da capo, magari obbligati, rinfresca le speranze di una vita ancora da fare.

Stamattina ho preso l’agenda per fare il piano settimanale, nonostante tutto: la video chiamata per le Dolomiti la faccio prima o dopo la dichiarazione di conflitto nucleare? Vorrei terminare la pianificazione dei nuovi soggiorni in villa prima di Gennaio, per non ritrovarmi nelle acque melmose dell’estate appena passata, stagione in cui per reperire elicotteri e yacht ci siamo dovuti strappare le vesti. E’ questo il fatto più strambo di questi anni, che tutto procede in modo regolare, rassegnato, come se ineluttabile fosse la nostra condizione, il lavoro matto e disperato, la sofferenza degli altri, ma non la morte.

Mi mancano gli amici con cui passare pomeriggi a sognare di costruire una vita non convenzionale, perché il presente sa di smantellamento, e perché a questa età abbiamo tutti molto da fare, con niente da vivere. Mi mancano i calcoli sbagliati di un viaggio speciale, di quelli che al ritorno non si è accumulato niente di importante, che sono l’inizio di una consapevolezza nuova e la fine di un amore usurato. Qualcosa si è rotto negli ultimi tre anni, e poi si è ricostruito in modo inaspettato; forse voglio vedere cosa sono in mancanza di disciplina, di autorità. Forse la sensazione che il grosso sia dietro le spalle comporta scelte coraggiose, persino rivoluzionarie, per avere qualche storia da raccontare che sia meno tragica delle mie tiritere dell’ultima decade. Insomma, sono sopravvissuta come molti – ma non tutti, e questo dovrebbe contare. Ho scaricato Shazam, a proposito, per non ascoltare sempre le solite canzoni.

Immagine creata con intelligenza artificiale https://www.wombo.art
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Juanita de Paola vita piccola

Corro e penso ai baci

Se qualcuno mi chiede a fine anno cosa è successo di nuovo, gli dico che ho perso molta della mia paura ed iniziato a correre – qualche chilometro, a gambe divaricate per non strusciare le cosce, con i calzini rosa rinforzati, uno spettacolo grottesco. Non ho fiato, forse per le sigarette o forse perché non sono fatta per lo sport. Corro e penso ai baci, come se avessi sedici anni: mi abbraccerò con qualcuno, di nuovo, sul prato, sperando che non duri? Oh, il sadismo mortifero dei rapporti a lunga gittata, le aspettative tradite, l’affaccendarsi, la vita straziata dall’assistenza a titolo gratuito che una povera donna deve fornire in questo secolo strambo per fare parte della tribù – sei stata brava anche tu? No, non per me. Non per me la spesa fatta in due, uno ai detersivi e una al banco formaggi, ma la montagna scalata sotto lo sguardo benevolo di un amico innamorato, o la televisione per quattro giorni con il caffè americano, i crackers piccanti ed il turbante a contenere i capelli annodati, poi ci vediamo presto, quando?, presto. Sono diventata una teppa, vivo nell’anticamera della solitudine eterna, con troppe abitudini, cani, tazze e autoabbronzante.

La paura, da quando non ho più nulla, se n’è andata e spero che non torni. Non possiedo il mio tempo libero, dedicato ad una creatura cui guardo come i fiori al sole ed un’altra che è una punizione adeguata ad una vita precedente di omicidio e cannibalismo. Non ho una macchina, non ho una casa, ho tre pantaloni e due magliette, un paio di stivali lisi e un giacchettino con le maniche che si allungano, così sta anche legato in vita come una gonnellina. Non posso prendere uno zaino e andare a camminare in China, ancora, ma il 2026 non è così lontano.

Ho sognato questo ragazzo, elegante con la sua camicia aperta e la pancia tonda e soda, che mi piace tanto. Avevamo le mani intrecciate dietro la (mia) schiena, il salotto era pieno di persone e nessuno sapeva: era una sensazione così bella che mi porto il ricordo addosso da due giorni. Sono ridicola? Forse sono ridicola e grassa. Poi mi sono fermata sulle scale di pietra a fare micio a quello con gli occhi azzurri che mi chiama morina, ma non era un sogno, mi pare. Appena si è alzato sono corsa via, sia mai che si passi da una tenzone a una cena, poi un’altra, poi la reversibilità e la morte.

Posso rimanere qui, appiccicata alla tastiera, senza nessuna competenza che non sia lavorativa, in attesa di quelli che mi somigliano? Penso di si, fino a che la vita non venga a riscuotere conti seri di quelli che ti scavano l’intestino solo a pensarci, fino a che la salute e la musica ci accompagnino – o almeno, lo spero.

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Juanita de Paola

Come l’acqua tofana

Respiriamo a Londra un’aria che somiglia all’acqua tofana. Sotto la cotenna dura come di cinghiale di questa terra, che è un’isola (e questo conta molto quando si misura la la forza dei suoi abitanti), c’è un fascio di tendini stirati, un eccesso di acido lattico che si fa sentire ma continuiamo a camminare veloci, la paura di saltare in aria in qualche buco sottoterra o in un centro commerciale è una palla di lievito che fa il suo dovere. 

La città continua a produrre eventi, eccitazione, la gente continua a partecipare, ma camminando tremano un pochino le ginocchia, e tutti i volti che non ci somigliano, tutte le donne velate, gli uomini con la barba, tutti quelli che ridono troppo o troppo poco sono un richiamo alla prudenza ed un brivido freddo. Siamo, questa è la verità, ognuno il nemico dell’altro. Camminiamo di nuovo come animali, scrutando velocemente e continuamente attorno, per vedere se siamo prede o cacciatori, o tutte e due le cose. Tornare a casa la sera è di nuovo cosa per giusti, “routine” è una cosa bella, non un ciclo da esorcizzare sul lettino dell’analista.

Cambio le rotte consuete, evito il centro, piano piano provo a tenere la bambina a casa il Sabato, e poi la Domenica e poi, magari, il resto della settimana – perché le mamme pensano di essere anche scudi nucleari – e poi cambio idea: non sto mica crescendo uno scarafaggio, se si deve morire, che la morte ci trovi vivi. Penso ai bambini, quelli che saltano in aria da ogni parte, penso ai loro genitori, che strazio infinito, alle donne violate, agli uomini a pezzettini, a cosa siamo diventati, il tempo si incapsula e concentra, diventando una cosa diversa, questo è un modo nuovo: stiamo cambiando vita e come sempre non abbiamo scelto niente. Eppure.

La gioia è tornata a trovarci, forse perché abbiamo paura, usciamo di più, piangiamo parecchio, ci stringiamo ogni notte e ridiamo il Lunedì. Abbiamo fatto la pace con tutto e con tutti e iniziato un nuovo corso, una vita più piena, più degna. Parliamo degli amici, dell’amore, degli gnocchi che si fanno in casa. Torneremo in Italia probabilmente a Primavera, ma stavolta in macchina.

Ci abbracciamo come fanno i pinguini nella tormenta, per rimanere vivi, sul pack. 

Foto dei ghiacci di David Doubilet, vincitore del National Geographic Wildlife Photographer of the Year