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Senza pretese

La stagione degli affetti, dei regali appuntati di nascosto nelle note del cellulare e poi consegnati con un senso di vero trionfo, ti ricordi quando hai detto che ti si era bucata la maglia verde, eccone una nuova uguale, che bella la tua faccia sorpresa, dell’albero che ho lasciato nel corridoio, dei capelli tirati in code sempre più unte, della cioccolata raschiata via dalla torta con zampe di tasso, ma anche delle diete rigorosissime, cui mi sottopongo per purificarmi l’animo da ogni desiderio non ortodosso.

Il rito di passaggio fra due anni, quello che finisce e quello che arriva con la sua valigia di speranze sempre meno profumate, così catartico e così deludente, perché di feste ganze ne capita una ogni trent’anni, comunque pieno di significati antichi come un genitore che ti sgrida, impattanti, che tu lo voglia o no. Il tempo dilatato, come un gas senza contenitore, in cui affaticarsi per arrivare in fondo al respiro senza lasciare andare la mandibola. Sorridi. Il momento delle domande ficcanti a sorpresa, cosa hai fatto quest’anno, cosa farai il prossimo, non ti manca qualcuno accanto?

Il tempo della mancanza viscerale, perché a cinquant’anni la vita ti ha già separato da alcuni affetti straordinari. Mi mancano quel like su Facebook che appariva solo sulle boiate più poderose, come succede fra veri amici, i fantasmi di una foto che è un relitto fantastico, qualcuno da mandare di nuovo in cucina a prendermi il fruttino gelato: sono come buchi profondi nell’anima riempiti con punture di resina a tenuta stagna. Per me questo è anche il tempo del compleanno, in cui sentire la piena frequenza del suono muto ma spacca-timpano dell’attenzione, una piccola morte ad ogni augurio, cui vorrei rispondere mi sento sola quando c’è festa attorno, lasciami stare.

Allora Netflix, Prime, allora correre, allora un altro centinaio di pagine digerite – quante nozioni si possono accumulare mai? Uno, due, dieci oroscopi, a caccia di un segnale, un pianeta che si posizioni come Dio comanda per dirmi che passerà tutto, come sempre, e che a breve sarò sommersa di lavoro stagionale, l’antidoto potente, la routine sacra per chi, come me, litiga spesso con sé stesso. Forse faccio quella famosa maratona, o forse mi iscrivo a Pilates, che toccarmi i piedi mi è più difficile che correre quattro ore. Faccio un selfie.

Il senso di essere stata sconfitta in una battaglia mai iniziata, certi giorni, arriva per rimanere. Mi metto in silenzio e aspetto che gli spiriti della tristezza abbiano finito la loro parata, che è più sguaiata nei momenti in cui si suppone ci siano gioia e secchiate di affetto gratuito. Quando il carnevale nero si è allontanato, rimane il vuoto, nel quale sono a mio agio da sempre. Apro Quora. Poi conto le mie benedizioni, un esercizio di umiltà nei confronti del dolore, e cerco di pareggiare i conti: nel male ho trovato sempre il bene, nel bene sono rimasta spesso sconcertata della mia fortuna, che accolgo con sospetto. Pensa a questo, mi dico, pensa a quest’altro, quella roba lì si che è pesante, altro che questo senso di pioggia che non bagna, brutta ingrata che non sei altro.

Apro Facebook. Seguo il mio sentiero conosciuto, i commenti, le foto, gli amici, i profili di chi un tempo era nel mio raggio esistenziale e poi è uscito come una tangente, le foto di chi mi incuriosisce ma non ha mai colto una verdura nel mio campo. Leggo gli altri: che fanno loro quando il cane arrabbiato gli morde la mano? Non si capisce bene, ma qualcuno scrive la cosa giusta al momento opportuno, ho la presunzione di intenderne i significati dietro le parole, e allora ricomincio a respirare. Che scema che è questa, penso qualche volta, ma subito l’arbitro che mi vive dentro corre ad ammonirmi, a fischiarmi in faccia, a ricordarmi che le (mie) foto più belle le ho scattate negli anni in cui sono stata disperata.

Come ho fatto? Penso. Forse qualche credito lo devo aggiungere alla colonna dei più, quella in cui tengo il mio punteggio esistenziale. Posso essere soddisfatta, certo; non ne scrivo per rispetto a chi rimane, ma mi sono tuffata in una palude che era una fogna e, come in Shawshank Redemption, ne sono uscita in un’isola felice. Ci ho piantato le palme, ci ho dipinto la barca, ci ho costruito la casa, ci ho allevato cuccioli, senza concedermi molto oltre alla disciplina di titanio di cui mi sono armata.

Questa avventura di vivere non è cosa per i deboli di cuore, ancora meno per chi capta le emozioni altrui come un baracchino, ma vengono in aiuto le parole degli altri, che combattono guerre anonime, talvolta dolorosissime, fra un isee ed un caro da assistere, fra rinunce obbligate e cammini da intraprendere nonostante non ci sia nemmeno un metro di riparo. Ci riempiono di vita le persone attorno a noi, che ci rimangono accanto nonostante il mostriciattolo che ci abita dentro, che ci scusano e accolgono a modo loro, anche se questo non sempre ci è congeniale, che si inventano cose da fare assieme pur di lasciare una traccia in questa nostra piccola galassia magnifica quanto entropica.

Apro TikTok. È da non molto che ho scoperto che non ho nulla di esorbitante da dire, non ho contenuti interessanti da condividere, o in genere concetti che non siano una foto della mia faccia, o una canzone col mio amato gruppo. La mia vita è un libro senza indice, o una storia senza eroi, come molte, e alla fine quello che mi rimette al mondo è una risata o una passeggiata nel bosco. Non ho storie mirabolanti, o gambe lunghe da bikini, ho me e bisogna che me lo faccia bastare nei giorni come questi, in cui mi casca l’universo in testa e, miracolosamente, non mi schiaccia come una piattola. Il pensiero, stasera, va a quelli che capitano qui e che durante le feste si fanno mordere dal cane nero; che stanno affrontando mari ingestibili ma silenziosi, per aspettare assieme che la parata si allontani e il tempo ci renda la calma di una giornata normale, senza pretese.

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Come ci incontriamo?

Connessi, attivi sulle piattaforme e sui social dove stanno amici e conoscenti, mascherati con nomi atroci sulle piattaforme di incontri, siamo oggi più soli di quei matti che un tempo si rifugiavano sui monti per allontanarsi dall’inquinamento morale del progresso – ma in bella vista e circondati da molti. Per fare contento mio cognato, che anela a reciprocare le mie battutacce durante i pranzi a coppie, e per curiosità, ho scaricato un’applicazione per incontri e, per ben quattro minuti, mi sono immersa dentro il mondo del dialogo erotico contemporaneo.

Al quinto minuto avevo già cancellato il profilo ed eliminato l’applicazione, dopo una scorsa veloce di figure mitologiche con la coda, esseri viventi con duecento denti, donne senza mutande sullo scaleo e uomini con il pacco al mare. Più della vivace bruttezza, persino sana e vitale, delle foto salaci di chi vuole essere ammiccante, che fin da piccina mi fanno l’effetto dei culi rossi dei babbuini, mi ha colpito il mio senso di vuoto, la mia dolorosa incapacità di capire cosa avrei dovuto farci, lì dentro. Una volta, da ragazza, mi sono messa a leggere in un’oliveta in collina e ho desiderato con tutte le forze che quel ragazzo che mi piaceva tanto arrivasse: giuro che dopo mezz’ora quel ragazzo era lì, in moto, ci eravamo incontrati sulle mura. Questa cosa, la coincidenza, il desiderio che è preghiera, la capivo.

Non sono nuova all’argomento alienazione sociale, nel senso che persino nelle feste in spiaggia ero capace di individuare immediatamente la sdraio, la cabina lasciata aperta per sbaglio, il luogo deputato alla mia dormita, che mi avrebbe salvato dall’obbligo di parlare di nulla, con nessuno. Ma lì avevo vent’anni e qui ne ho cinquanta. Comunque. Dopo una serie di gag telefoniche con gli amici ed i soliti commenti sguaiati, mi sono chiesta come e cosa possano fare quelli che oggi hanno i figli abbastanza grandi ma non possono migrare, che non hanno una linea di demarcazione vera fra la domenica ed il lunedì perché hanno la partita iva, che non vanno a Zumba perché il nome è intollerabile, o al mare perché la domenica sera tornare in città è un anticlimax che è quasi suicidio assistito.

Dove si trovano, e di cosa parlano, le persone che non hanno ancora il femore di titanio ma che all’idea di dovere andare in un bar dopo le dieci di sera sentono che un altro pezzo di sé sta scivolando via come un calcolo renale? Dove stanno quelli che piuttosto che bere un cocktail in un bicchiere di plastica assumerebbero litri di pombe? Dove si conoscono le persone in profondità, senza doversi affiliare ad un culto?

Ho come l’impressione di avere serrato il mio portone talmente bene che nemmeno un escavatore della Kocurek potrebbe farci qualcosa, ma non credo che la mia domanda sia nuova, né originale, solo che non ho trovato alcuna risposta soddisfacente, né nel mondo reale né in quello parallelo, eugenetico, dei social. Gli amici dicono che la fase brutale in cui una persona affronta posti orribili per incontrare un numero di umani utile ad incontrarne almeno uno interessante, sia necessaria e persino catartica. Ma questa è semplicemente la tecnica di chi si mette le scarpe piccole e, quando le leva, sente un grande beneficio.

No, non credo che questa sia la via. D’altronde, nemmeno abbracciare una vita di gatti, cani e parrocchia potrebbe essere una risposta plausibile alla domanda delle domande: cosa ci facciamo, qui, se non riusciamo a connetterci in maniera profonda l’uno con l’altro?

Ed anche il problema del linguaggio non è cosa da poco: non parlo solo degli idiomi, ma anche del numero di parole che ci vogliono per dire una cosa, e come siamo più simili per quante parole conosciamo che per colore o stato sociale. Quindi, salvo il miracolo straordinario e sempre più raro di corpi che si riconoscono prima ancora di parlare, siamo destinati a sempiterne ripetizioni di ascendenti, diete e meteorologia, o a pubblicare su Facebook quanti libri siamo riusciti a leggere?

Ho ancora qualche anno prima di terminare il mio lavoro, e potermi ritirare con decoro. Viaggerò, allora. Forse per la strada, o di nuovo in mezzo ai campi, c’è qualcuno che sta sperando che io arrivi – non in moto. E se no, comunque vada, sempre meglio di Tinder.