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Nella vecchia fattoria

Juanita de Paola

Nei miei piani del futuro prossimo c’è quello di aprire una fattoria, abitazione e scuola, con le galline e se mi piglia il coraggio qualche bel maiale. Una rete wi-fi così sostanziosa da potere alimentare i frigoriferi, certo, e attrezzature informatiche dure, soffici, volatili all’avanguardia. L’importante è che la musica esca con i bassi, amo i bassi che mi rimbalzano sulla pancia – tutto il resto arriva secondo.

Mi dedicherò al marketing ma anche all’orto, non nel senso che tiro su i pomodori ma che li colgo e li affetto e li mangio. Magari posso anche innaffiare una o due volte al mese, ma l’atto pratico ripetitivo mi annoia a morte, quindi è bene che altri si dedichino al verde. Io, piuttosto, arrotolo i cavi.

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Sei un povero disgraziato? Buon per te.

juanitadepaola

Gente che non sa più come fare a nascondere un patrimonio. Dieci anni fa la mia amica F se ne andava alle terme di Petriolo, aveva venti e qualcosa, in una spa, con servizio – diciamo, con slancio generoso – di lusso. Ci andava col suo fidanzatino, oggi suo marito e padre delle sue tre figlie. Lui era un piegatore seriale di magliette in centro commerciale con pettorali a forma di fesa di tacchino, lei la figlia di un grande avvocato, assieme avevano trovato lei l’ammore che si suda, lui un destino lavorativo per impiegare il suo (ancora oggi) povero cervellino. Tralascio i copiosi tradimenti, che ho scoperto essere parte integrante del tessuto matrimoniale nazionale. Andavano lieti, nella macchina rombante, broum, broum, decappottata, con la musica a caso della radio digei. Mai fidarsi di quelli che dicono io ascolto di tutto – prima di tutto non è vero, e poi se è vero c’è qualcosa di marcio.

Io ho sempre detto a F che ammiravo la leggerezza con cui lei andava a Courchevel a vedere che c’era da fare quando noi facevamo colletta per salire all’Abetone, pur sapendo alla perfezione cosa c’era. Non c’era sforzo, non c’era sfarzo: forse ha ragione chi dice che la differenza fra essere ricche e essere povere è solo scegliere le calze nuove per infilarle sotto i jeans. Mettila un pò come ti pare, coi soldini giusti si sta proprio bene se ci si sanno godere. F gustava la mia ammirazione, come una amuse bouche. Siamo ancora amiche e pure care.

Il mio amico G, invece, soffre l’avere patrimonio di famiglia. Lo patisce. Al punto che si è inventato una vita di musica alternativa e escapologie messicane che puntualmente lo riconvergono alla base, magione di duemila metri quadri sapientemente tenuta nascosta agli amici – sai, è dei miei genitori, ma io ho già rinunciato all’eredità, non me ne frega un cazzo a me. Vagli a spiegare che non è vero. G ha un gusto spiccatissimo, fra noi scherziamo e diciamo che ha già messo un piede nella stanza di là, quella dell’omosessualità – e sia chiaro che chi scrive non ha assolutamente nulla da dire in proposito. Veste raffinato, leggero, pare che non abbia mai freddo. Organizza feste a tema dove tutti, dico tutti, sono bellissimi. Gente che lo stivale con la cerniera larga non sa nemmeno dove sta.

G si fa tutte le rassegne dai titoli più pesanti e vive in una specie di pauperismo a tempo: dalle sei del pomeriggio fino alle due della notte è G che ucciderebbe pur di essere un povero disgraziato. Pur di potere pronunciare la frase No, stasera non posso venire fuori a mangiare la pizza. Non ho i soldi. Ora, lui la butta lì lo stesso. Ma per permettersi di ripetere la sequenza senza che qualcuno che ne conosce la casata gli rompa il collo, c’è bisogno di un ricambio continuo di amicizie, tutte da pescare in posti tattici. C’è bisogno ogni giorno di una persona nuova per potersi reinventare un passato da poveretto. Naturalmente G sta con una cavalla purosangue, anche lei un pò bohemienne, che studia teatro, che fuma più di quel che mangia, che d’estate non raggiunge mamma al Forte. Campeggio.

Il mio amico R, infine, è un povero disgraziato. E’ uno che gli è andato tutto male: la salute, mentale soprattutto, il tempismo, la macchina. Ha una moglie terribile – cattiva, lo odia. Vota Banana, come tutti quelli che vengono dalla medio-bassa borghesia lavorante. Non mangia pizza se va al ristorante perchè quella è roba da disgraziati, piuttosto, una bella bistecca tagliata per tutti e poi niente calzini e mutande nuove per altri sei mesi. Sogna il riscatto ma nel frattempo cerca di fare felici i suoi familiari: la cintura di Quello, le scarpe di Quell’altro – pensa che imbecille, se solo sapesse che G compra le scarpe di pannolenci da venti euro in colori improbabili solo per sembrare ancora più trascurato.

Io dico che uno pagherebbe l’altro per rubargli la vita. Non per sempre, sia chiaro. E nemmeno stilisticamente, chè quel disgraziato di R compra solo cose con le marche che si vedono bene bene. Io dico che il vicco G, per provare la gioia di sentirsi come gli altri, coi problemi di arrivare a fine mese e quella roba lì – very cool, molto ghetto, si sopporterebbe anche la spesa con la famiglia il sabato mattina, col trepperdue. R, invece, a G lo schifa. Non lo capisce e tutte le volte che lo vede ne dice nere: ma guarda se si può vedere il figlio di Coso che va a giro vestito in quella maniera. I due segmenti si sono rubati l’etica e l’estetica, il che è buffo. Sarebbe ora che se le restituissero.

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Non mi sento preparato.

Juanita De Paola

Il mio amico F mi chiama spesso per piangere: la ragazza lo ha lasciato, no, la ragazza è rimasta incinta, no anzi la ragazza ora è moglie e non sono pronto a rinunciare a tutto, anzi no, oddio lei se ne è andata e non vedo più mia figlia. Vorrei essergli di grande consolazione giacchè siamo amici, appunto, la realtà è che vorrei solo rovesciargli un secchio di sangue caldo di bue in testa. Anzi, di maiale, come nella scena regina di Carrie sguardo di Satana, l’unico libro che ho letto in vita mia senza saltare nemmeno una pagina.

La bambina ha una sequenza di foto con il papà, su facebook, nell’album “mio tesoro”. Non ci sono foto con i tre assieme, perchè probabilmente G, la ragazza ex, le ha bruciate tutte con rito animista: nulla ti mostra l’orrenda umana bruttezza come la nascita di un figlio –  il peggio, salta fuori e puzza. Lui ha continuato il calcetto, lei ha mollato la taglia quaranta e qualcosa. Lui ha riniziato la pesca e il silenzio, lei ha dovuto scoprire le tecniche per smacchiare il vomito dalle magliette di seta. Lui ha continuato a guardare le bollette come le mucche osservano i treni che passano, lei ha cominciato a scrivere sull’agenda della banca ogni euro.

Questo, se tutto è rimasto nei parametri della normalità. Perchè se vivaddio è arrivato un problema serio – la bambina con un ritardo  mentale, che so, una malattia degenerativa, o anche solo la perdita del lavoro di uno dei due – ce n’è da benedire e da santificare. Non voglio dire che lui si è infilato la tuta da coglione e lei quella da scimmia urlatrice che non si accoppia, non solo questo, certo. Lei ha smesso di ridere, ad esempio, o di mettersi le magliette senza reggiseno. Lui ha scoperto i calzini di spugna bianca. Lui ha deciso di imparare a suonare il contrabbasso, lei che non c’è più nulla da imparare, perchè la vita è finita – sono vecchia, ormai non esco più.

Fuck this shit! Ma non si può prendere alla leggera l’amico disperato, e allora lo chiamo qui, a casa. Ho un salotto ampio, con un divano immenso – ci vivo, ci leggo, ci dormo. Viene e mi racconta  la tragedia, come si è compiuta. Eppure io la amo, per me lei è ancora bellissima. Ma io pensavo che avrebbe sempre trovato il tempo per me. Ma io credevo che non sarebbe cambiato nulla. La bambina è la mia vita. I suoi genitori si mettono sempre nel mezzo. Non usciamo mai. Si lamenta sempre dei soldi. Vuole che trovi un lavoro fisso ma io in ufficio mi sento morire. E così via. Il fatto, F, è che tu eri pronto per trastullare una bambina, la tua, ma non per la sua mamma. Magari richiamala fra ventanni. Magari svegliati. Magari se le mandi cento euro al mese la bambina te la fa vedere. Magari era meglio se il servizio militare e l’economia domestica non li levavano di giro, mi pare a me.

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Attenzione ai moderati.

juanita

Non è fastidio quello che provo a vedere gli indignati, piuttosto cerco di cacciare il pensiero maligno che mi copre il cervello, me lo avvelena: quanti di voi pagano le tasse? Quanti dei ragazzi accampati hanno le carte per potersi indignare? Ci si indigna una o due volte nella vita, e la violenza che ne deriva è infinita – mi è successo una volta che ho visto un ragazzone schiaffeggiare una ragazzina, e mi è partito il cervello; sono diventata una belva, un animale che non si ricordava di avere quella forza, quell’odio dentro di sè. Non mi piace la violenza nè le leve che la azionano dentro di me. Soprattutto: ci vogliono requisiti, per protestare? Io penso di sì. Ma “io” è una creatura che prova ad essere democratica, ed in fin dei conti la poesia porta all’umanità più delle tabelline.

Provo un piccolo brivido di piacere quando sento che Lehman and Brothers è sotto assedio di uova: loro come indegni creatori, fra gli altri, di bolle immobiliari. Loro come parte di un olimpo che prevede guadagni stratosferici senza sforzo se non il rischio di capitale di qualcun altro, loro come merde squisite. Non è un buon brivido, il mio. E’ un segnale mortifero di un piccolo scatto di insofferenza che vuole offuscare la mia capacità di giudizio tiepido, una delle mie conquiste da quando ho scoperto che accettare le opinioni altrui non è solo buona cosa, ma condizione necessaria e quasi sufficiente per potere sopravvivere nella giungla umana. Se solo quei ragazzi fossero composti, se nessuno usasse la frase “stiamo cambiando il mondo”, se non pensassero di rappresentare anche me, allora potrei parteggiare, da casa. Io padrone, voi indignati che mi mandate i curriculum  per essere assunti. Io e voi siamo simili, mai come ora, eppure siamo nemici.

“Stiamo cambiando il mondo” mi rimbalza nella testa, genera un nuovo pensiero meschino: no, state imitando i cortei dei film romatici della novelle vague. Siete ologrammi a colori degli anni sessantaotto, siete come quelli che al liceo indossano la zampa di elefante e il dolcevita nella fase di riscoperta dei Led Zeppelin: siete, come me, carne morta. Voi siete la leva emotiva su cui fa perno la destra becera, quella che “guarda che massa di coglioni a spese dello stato”. Noi siamo la leva emotiva su cui fa perno la sinistra ormai intirizzita, quella che “guarda quegli stronzi a casa a lavorare, mentre i giovani sono in piazza”. Io, piccolo borghese che prova a farcela e si vergogna della macchina senza aria condizionata e apertura centralizzata. Voi, giovani virgulti che hanno la vita davanti e la presunzione di un futuro felice. Noi siamo a dieci centimetri l’uno dall’altro, ma è come se ci fosse un grand canyon nel mezzo: le mani si toccano, ma saltare è un rischio troppo grande. “Guarda che massa di inetti, che poveracci, tutti: leviamoli di lì, non sanno fare il loro lavoro”.

Devo mettere da parte la rabbietta, l’acqua che ristagna pronta per le uova di zanzara tigre, e areare il locale. Devo areare anche il mio cuore. Dovete spalancare il cervello. Dobbiamo stropicciarci gli occhi. Dobbiamo unirci, entusiasti e moderati, per svecchiare il sistema da dentro – senza farsene accorgere. Assumersi le proprie responsabilità civili: fare l’artigiano senza pagare le tasse è la stessa cosa che avere cento giornali e mille televisioni senza pagareil dazio, cambia solo il potenziale d’acquisto. Lasciamo che i “parenti di” continuino a esportare i loro capitali a Montecarlo o in Svizzera: non hanno più una patria che non sia la banca, di essi è il regno dei morti. Ma noi siamo vivi. La rivoluzione è la qualità, la moralità che odia i moralisti, un comportamento talmente probo che chi ci governa – non ci governa, accidenti, che disgrazia – si debba vergognare. Si devono indignare, loro, di sé stessi. Riprendiamoci la legge. Pitturiamoci gli ospedali. Aggiustiamoci le scuole. Coltiviamo i nostri frutti, invece di farli arrivare dalla Nuova Zelanda. Insegnamo volontari ai bambini degli immigrati: questo è un grande popolo, non c’è nulla che non possa fare – persino aldilà dell’evidente inettitudine di “quelli”.

E voi laggiù. Attenzione, sono i moderati che rovesciano i governi e che, se vedono un ragazzone picchiare una ragazzina, fanno la bava dalla bocca. Sono quelli che non protestano che, un giorno, si girano tutti assieme e compongono un corpo pesante, con anni di rabbia sommessa. Sono i moderati che tirano fuori le ghigliottine e fanno i danni più ingenti, quando sentono che non solo si è passato il limite, ma ci si è fatto un accampamento abusivo.

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Fzzz, fzzz, aggiustare la frequenza di ascolto.

juanita

Quel monumento alla femminilità che è la mia amica P passa il fine settimana con me. Non credo che riesca a capire la gratitudine che provo dalla mia faccia sempre seria sotto l’abat-jour, o dai miei silenzi, o da nessuna delle mie espressioni fisiche, ma vorrei che mi si accendesse una spia in testa sotto la scritta io sono felice che tu sia qui, vorrei – e credo che sia chiaro – che capisse come è unico stare zitti fra umani, quale livello di intimità e affetto richieda la convivenza allegra senza parole. Mi racconterà dopo cena di quanto si stia immolando per il suo uomo, le racconterò di una delle saghe a scelta: lavoro, famiglia di origine, famiglia di elezione.

Durante la discussione io penserò che è matta a rimanere ancorata in una situazione come quella, mentre lei mi guarderà chiedendosi cosa ci faccio ancora qui se il mio fidanzato, il padre di mia figlia, vive in un’altra Nazione. Non che le risposte importino davvero, bisogna scavallare i vent’anni di amicizia per capire che esistono luoghi franchi dove si ha il diritto di rimanere le ciofeche che siamo. Non ho amiche che a quarantanni vanno in discoteca, e mi dispiace: vuole dire che ho compiuto una selezione senza nemmeno accorgermene, rastrellando persone che mi somigliano – l’inizio della vecchiaia. P ne ha, però, e questo è un buon segno se è vero che l’osmosi o la proprietà transtiva esistono.

Più di tutto ho imparato ad amare le persone che fanno scelte (per me) imprevedibili con onestà di cuore e di parola. La mia giornata è ormai uno sforzo continuo per spiegare cosa sto facendo e perchè – dove sto cercando di arrivare e il supporto che richiedo per farlo – a chi mi sta attorno: è importante non lasciare zone buie, a meno che non si stia parlando di Vizi Salvifici Che Pratichiamo Nascondendoci Da Noi Stessi, luoghi in cui la mancanza di chiarezza generi sofferenza, senso di abbandono negli altri. Specialmente se questi sono persone che dovremmo amare.

Ascolto P disattivando il mio senso critico, aprendo le porte negli orecchi e chiudendo il cancello in bocca, per non generare riscontro. La ascolto, provo almeno, indossando le sue scarpe: è importante entrare là dentro, nella sua scatola nera, per capire cosa mi sta dicendo e perchè. Non vorrei di nuovo ritrovarmi a misurare una strada di un miglio con un righello da venti centimetri, il mio, per accorgermi che la giornata è finita e non ho nemmeno la certezza che il righello sia tarato alla perfezione. Meglio una misura approssimativa, diciamo, a suon di piedi che cercano di stare allineati – e con P è difficilissimo, perchè lei ha il femori lunghissimi.

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And the Oscar goes to.

Juanita

Mando uno dei miei messaggi che vengono dal centro sensi di colpa. C’è una muscolatura poco simpatica dentro di me che fa un unico sforzo: attirare esseri umani e le di loro confidenze presso di me. Se faccio un colloquio di lavoro, indipendentemente che sia dalla parte dell’intervistatore o dell’intervistato, l’altra persona mi racconta tutto. Sgrana gli occhi in senso di sorpresa, ma sono io quello che sta confessando di avere lasciato il passato incarico perchè mi sono accoppiato alla stagista? Oppure. Sono io quella che parla di karate come disciplina esistenziale dopo che mio marito è scappato di casa? Immagino le loro riflessioni, dopo.

Eppure, là sotto, esiste un recipiente pronto a ricevere la confidenza e archiviarla, per poi non mai più parlarne. Una scatola grata. Ogni volta che il coperchio si alza inizia una nuova vita, fatta delle luci in cucina di qualcun altro, del suo dolore o della sua gioia e non dei fatti miei: grazie, allora, per avermi distratto dalla mia personale boccetta di mediocrità. Certo, qualche volta vorrei essere sordomuta. Il centro mi manda un’allerta e mi ricorda che mi sono sbilanciata verso questa creatura di magnifica fattura e il suo altrettanto splendido metà, dopo una bella chiacchierata, dicendo loro che mi sarei presentata presso qualche posto, per bere un caffè. Un caffè americano, non un bicchiere di vino perchè ora mi sono privata di tutti i piaceri della vita. M’è venuta così.

Sono passati due mesi e ancora non ce l’ho fatta: la loro purezza, bellezza fisica, mi annienta. Il fatto che non si levino le manine da dentro le manine, che siano geneticamente stati premiati nella vita e che, oltre a questo, siano stati benedetti da grande ricchezza, mi lascia lì come la prima volta che capisci che non è comprarla la casa, che ti leva l’animo, ma mantenerla in piedi. Non che io lo sappia di preciso, io non possiedo per non essere posseduta – Dove la parcheggio? E chi la pulisce? E dove custodisco le pietre? Non fa per me. Piuttosto, partiamo domani per un anno, guarda dove sono i passaporti.

Stanotte pensavo a lei, che sembra un angelo. Ma anche un diavoletto perchè ha le fossette. Che ha gambe lunghissime. E a lui, che sembra la bella copia di James Franco. Pensavo a loro, al loro senso dell’autunno chiusi in casa a fare i porcaccioni col permesso dei genitori tutti, perchè ora sono una famiglia. Ripensavo a lei a quando mi ha detto ma il caffè prendiamolo in villa da me. Non era da te, prima, ma ora è tuo. Perchè gli uomini ti concedono tutto purchè tu arrivi al momento giusto o nulla, anche, se si sono stufati. Ma ora è tuo. E allora goditelo, e domani vedo di arrivare. Perchè tu non c’entri nulla con la mia storia personale e sei un fiore. E quanto sono meschina a pensare sempre a me, solo a me, a cosa mi è successo. A perchè me l’hanno fatto. Il punto è questo: probabilmente, mentre lo facevano, a me non ci pensavano nemmeno – ed è questo il pensiero forse più indigeribile.

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Un attimino, sono pronta.

Puoi passare un pomeriggio a truccarti ed acconciarti, ma se mentre ti avvii ad uscire trovi uno specchio o un vetro che rifletta bene la tua immagine, quello è il momento più importante ed utile del capolavoro che hai fatto di te.

Antonella Fabriani Rojas

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Non mi pensare

“L’ho visto in vetrina e ho subito pensato a te che hai la casa piena di cose belle e originali” (by Antonella)

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Fammi più brutta, ti prego. (Se insisti).

Juanita

Sono stata ingaggiata (e blindata) da una signorina famosa che vuole tornare in auge lasciando da parte la sua immagine di bonacciona e utilizzare l’altra sè – qualunque essa sia – e che legge il blog. Una missione a me congeniale, che mi dispiace solo perchè non ne posso parlare con sorella numero uno, alla quale affido i miei pensieri per farmeli rendere in ordine. Lavati e inamidati. Il problema della bella figliola in questione è che vuole una possibilità per dimostrare di non essere semplicemente un guscio magnifico ma di essere capace anche di pensieri, parole, opere e omissioni.

Esattamente il mio opposto problema, che più vado avanti e più penso di essermi persa qualcosa per la strada: cos’è che mi ha impedito di fare tennis? Perchè non ho bevuto succhi di frutta? Perchè non sono stata più leggera, in tutti i sensi? Mi piacerebbe ora, dico la verità, avere un passato di femminilità esercitata invece che analizzata. Quindi ora vorrei io potermi permettere una beauty-coach, una che mi si piazzi in casa e mi dica ma che cosa stai facendo, ti radi le gambe nel lavandino? Oppure che controlli i miei pasti, che mi spinga a mettere il balsamo, che mi porti dall’estetista a farmi piedi, mani, gomiti. Invece niente. Sono io a fare le raccomandazioni.

La mia cliente non ha assolutamente bisogno di me, ho provato a spiegarglielo. E’ come quelli che vanno dal dietologo per sentirsi dire mangia meno, dico, mica ci vuole un dottore. Solo che il farsi umiliare nella propria condizione di debolezza è l’unica partenza possibile per elevarsi, migliorare – in qualunque campo. Quindi partiamo proprio da questo elemento: le ho chiesto di tirare fuori tutto quello di cui si vergogna lasciando da parte gli aspetti fisici che sarebbero assolutamente pleonastici, data la sua conformazione. Ci sono volute due ore al telefono per riuscire a scovare il suo primo angolo nero – sono vendicativa. Ma questo non è un difetto, questo è un comportamento. E’ vero, mi ha detto, e c’è rimasta un pochino male. Ci siamo fermate lì, il (suo) compito della prossima settimana è mettersi allo specchio e cominciare a separare la conformazione dal comportamento. Non so dove stiamo andando a parare, io non mi assolderei mai, ma lei mi è sembrata felice.

Terminata la nostra prima sessione so che il mio compito sarà quello di investigare la sua immagine off e on-line, per allinearla alla nuova sè. Ad esempio dovranno sparire tutte le foto in cui sembra una coniglietta, posa che le viene benissimo e che, se mi venisse altrettanto bene, ma col cazzo che starei a remuginare da mane a sera su parole, opere e omissioni. Poi faremo in modo di vestirci come se ci fosse un domani. Faremo buone cose, attività umanitarie, per acquisire il glow di Angelina: non c’è rimedio, bisogna sperimentare l’altrui infelicità per diventare feconde, belle, eterne. Impareremo una seconda lingua molto bene, oltre all’Italiano, perchè bene o male i giornali vanno letti – se no poi ti portano il Tapiro. Poi allestiremo una pagina web interattiva – andremo a sbirciare i siti di Bjork e Madonna, di sicuro. Probabilmente anche quello di Sofia Coppola, se ce l’ha.

Finita la prima fase avremo creato i presupposti per comunicare, in maniera appropriata, quello che si vuole. Non ci saranno capezzoli volanti, pose da garage, bocche ammiccanti o sguardi orgasmici: ci sarà lei, punto. E lei è, come le ho detto, persona generosa nascosta nel corpo di cat woman. Nella seconda fase prenderemo lezioni di galateo, bon ton, e ripetizioni di italiano: oggi la grammatica è in mano a così poche persone che, chi ce l’ha, la usa come lo speed. Abbiamo accordato anche i seguenti acquisti: un viaggio a Berlino. La biografia di Jackie Kennedy. Un soggiorno in Toscana. Nella terza fase verificheremo se avere annullato ogni possibilità di scorciatoia erotica le avrà regalato quello che cercava: ascolto, a prescindere da quello che indossa. Nella quarta lei sarà di nuovo su un calendario col sedere in fuori e io starò facendo la dieta Pierre Dukan per vedere se mi riesce di somigliarle almeno un pochino.

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Basta non sia una tisana dimagrante.

juanita

“Passa un buon inverno”, mi dici. Mi sembra un buon augurio, in fin dei conti il mondo appartiene a chi è felice il lunedì o non aspetta l’estate per ballare su una spiaggia. E’ una frase che non vedo l’ora di dire ai miei figli, spero di averne altri nove, affinchè tutti mi detestino assieme dopo che sono morta – che non si sentano mai soli in questo, che sappiano che razza di ciofega avevano per progenitrice. Mi parli come se la sapessi lunga, e forse c’hai ragione. Una delle cose che noi donne facciamo è accasarci, non necessariamente con un uomo, e dimenticare che teppiste siamo state, quanto in basso si sia scese per trascorrere un discreto dopo cena. Qualcuna di noi si trasfigura nella casa, mi ci vedo quando pulisco il gabinetto con il bruschino per eliminare gli aloni, altre nel volontariato cellulitico, la maggioranza nella sindrome del triplo controllo – casa pulita, capelli fatti, vagina asciutta. Io no, non lo dimentico che ho compicciato, e forse mi si legge negli occhi.

L’inverno è straordinario perchè Chet Baker suona sempre come se fosse il 23 di Dicembre e perchè la luce è più gentile. Un mio amico che fa finta di avere una moglie – e lei, che fa? – mi conferma che l’estate è mortifera: tutta quella pelle scoperta non aiuta chi usa il cervello come volàno; certo, sarebbe meglio ci fosse una legge anti accoppiamento: le cose tornerebbero divertenti. Tu vuoi davvero che io passi un buon inverno, voglio dire, è questo che hai in mente mentre me lo auguri? Io penso di sì. Quindi aspettate un’altra bambina, cos’è, la sesta? Questo maschio non viene. Dipenderà dal fatto che tu eri l’unico uomo in una famiglia di cento donne, o forse perchè – come ti sussurrano dietro – non sei abbastanza virile. E’ sempre stato un cruccio per tua madre, ma a te ti faceva ridere. Anche perchè a te piace fare le cose, provare, scottarti un pochino: cosa ne poteva sapere lei, di quando ti mettevi la camicia pastello col colletto bianco sottile, a cosa andavi incontro sul serio? Roba ruvida, roba che non si vede nei film romantici che rincoglioniscono noi donne.

Spiegami come hai fatto a farle venire tutte bionde le tue piccole, perchè tu sei nero e scuro di incarnato: ma cos’è che fate, andate in una clinica eugenetica? Fate un test del dna precedente all’accoppiamento per vedere se la mescolanza viene fuori uber-caucasica? Ci vediamo questo inverno, dunque. Mi vuoi offrire un tea. Accetto volentieri, la conversazione con un uomo, per quanto stupido, non raggiunge mai il tedio e la disperazione di un dialogo fra donne – le lamentele, l’incapacità di alzare gli occhi, la concentrazione sulla fissa del giorno, lui che ha fatto, lui che ha detto, lui che non mi vuole, lui che non mi vuole abbastanza, lui che prima era meglio, lui che te non lo conosci, lui non è così. Se proprio devo parlare di lui, preferisco farlo con lui in persona. E’ bello l’inverno, è vero, mi hai fatto un buon augurio.

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Un certo peso.

Qualche anno fa sono stata invitata a valutare un immobile di grande pregio, con parco, con statue, con vigne, con piscina di acqua di mare a sfioro, con l’elicottero parcheggiato, con le torri romantiche, con il sono system nel parco, insomma con tutto quello che uno si aspetta nella magione di un milionario che è partito da niente. L’oggetto più interessante era sicuramente il figlio, mio coetaneo, che avrei valutato più approfonditamente senza nemmeno ricaricare la mia famosa parcella oraria. Avevo appena sgravato, con un peso corporeo specifico di ottantasei chili. Ne avevo persi solo sei durante il parto: avevo approfittato dei nove mesi per rifarmi di tutte le tagliatelle mai mangiate prima, per ingozzarmi di gelato e per bere litri di coca cola. Ricordo ancora con grande gioia l’ingollare tutto, sempre, senza problemi.

Dopo un’ispezione accurata ci eravamo seduti, ci avevano dato vino bianco fresco e succhi di frutta. Per non fare vedere le braccia come cosce e le cosce come alberi ero vestita come a febbraio, con uno sciarpino che coprisse il doppio mento. Il giovane coetaneo, invece, era in magliettina bianca fina fina e jeans accomodati su terga strepitose. C’erano anche i suoi dodici figli biondi e, dopo poco, la ninfa che aveva sottratto al suo habitat naturale e sposato. La valutazione era finita nel sangue, come al solito, e non se ne era fatto di nulla – la magra consolazione è che il castello è ancora lì, e che forse avevo ragione a dire che dentro di sè, loro non lo volevano vendere per niente. Mi ero alzata sperando di vanificarmi, eppure come un pachiderma ero rimasta, fisica, ad occupare uno spazio di ottanta chili circa. Il giovane figlio mi aveva accompagnato, così come si fa con le vecchie senza denti, e aperto lo sportello della macchina. Ero sparita, purtroppo non del tutto.

Qualche mese dopo ci eravamo risentiti, il giovane aveva preso le redini di un carro che non aveva assolutamente bisogno di essere guidato e voleva che ci mettessimo in affari insieme: ero piaciuta. Daltronde donne di stazza chilometrica e con figli sono statisticamente un jolly da assumere perchè non comportano complicazioni come storiacce sul lavoro e in genere: solide di caviglia, solide di morale. Ci eravamo rivisti, a quel punto io navigavo sempre nella settantina di chili – e mi sembra straordinario ricordarmi il mio peso giorno per giorno ma dimenticare i nomi delle persone: che cos’è, una sindrome? Voleva un ufficio assieme, avevamo vagliato qualche posto, poi era sparito.

Qualche anno dopo ci siamo sentiti ancora, mi aveva invitato. Sarei dovuta andare al castello, per celebrare il suo nuovo accoppiamento con la donna cerbiatto, un esemplare di caratura ancora superiore al precedente, di circa ventidue anni. Mi avevano spedito le foto, lui ci teneva al fatto che io, e molti altri probabilmente, vedessimo quale popò di femmina si era accaparrato. Avevo declinato perchè non ho nulla da mettere in queste situazioni e perchè avrei passato la sera a piangere, a pensare a quanto sono inadeguata, a vergognarmi perchè non so attaccare discorso se non riguarda il lavoro o un passato comune.

Oggi navigo nella sessantina (chili e anni interiori). Di tanto in tanto vado su internet a cercare le foto del giovane uomo che anni fa incontrai nel castello e davanti al quale agitai due chiappe improponibili. Mastodontiche. Lo ritrovo con la cerbiatta, su qualche rivista, in qualche flickr, su Getty Images. Cerco lei, prima di tutto, perchè le forme del suo volto sono perfette e io spero che un giorno, a forza di guardarle, mi capitino pure a me. Lui ora ha i capelli striati di grigio e il naso rosso di chi ha sbevazzato un pochino troppo e veste di bianco sempre, o forse tutte le foto sono di Saint Tropez. Forse vivono a Saint Tropez, in piscina, con un sacco di gente vestita da gladiatori – quella foto lì non l’ho capita bene. Spero che lui mi chiami fra dieci anni, per allora sarò nella cinquantina, sia esterna che interna.

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I piedi gonfi delle zitelle (Antonella)

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Il perché alcune ragazze di paese si votino inconsciamente alla zitellaggine lo leggiamo in questo dialogo che ho ascoltato anni fa in una balera friulana: “Mi chiamo Giacomo, balli?” – “Mi spiase, ho i piès cionfi”.

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La moda ci consiglia (Antonella)

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nicolasdelargilliere_labellestrasbourgeoiseLa moda ci dice come mostrarci belle e noi siamo contente di seguire i suoi consigli.

D’Archivio e di altre bellezze – a cura di Antonella Fabriani Rojas

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D’archivio e di altre bellezze.

avaHo bisogno di abito elegante, scollato, e mi immagino come lei. Ci spendo un occhio della testa, me lo infilo e allo specchio somiglio invece alla sua poltrona. [Antonella F.R.]

(Antonella scrive attraverso le immagini e pensieri personali per il Ministero delle Dispari Opportunità)

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Nonna Gemma watussa col machete. E di pedate.

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Acchiappa il pulcino Juanita, ammazzalo. Così inizia la mia entratura nella piquattro della mia prima infanzia, con il bambino M che mi incita ad ammazzare una creatura per fare parte della banda dei maschi. Le vaccate che non ho combinato in vita mia per avere l’approvazione degli altri. Sono dentro il pollaio, schivo i due galli, le galline, piglio un pucìno e l’ammazzo. Così, lo strozzo. Questo è nulla rispetto a quando ho inforcato un maiale – ma quello doveva morire, ci facevano le salsicce mica scherzi, il piccolo pollo, invece, l’ho deliberatamente fatto fuori.

Il bambino M era molto popolare, viveva in campagna ma era di città. Noi altri bimbi, invece, si era di lì, si era cresciuti lì, e per essere ammessi nella sua casa con quel marmo orrendo e quelle macchinine che andavano per conto loro, avremmo lavato un tir con un cotton fioc. Io ero la più piccola, se si esclude O, che era proprio un’infante. A me toccavano le prove più tremende – levare i tappi delle botti, ammazzare creature di piccola taglia, leccare la coda di una lucertola dopo averla staccata, affettare le vespe col coltello, schizzare i panni stesi della F con il fango, provare a mettere in moto il trattore quando non c’erano i grandi. All’età di sei anni ero riuscita a farcela in tutti i campi.

Il mio inserimento nell’arancia meccanica della campagna pisana era riuscito alla perfezione, finchè un pomeriggio in missione ero stata intercettata dalla nonna Gemma, non la mia, che mentre spennava una gallina seduta nel garage mi aveva visto arrivare, essere incitata, inseguire il pulcino e strozzarlo. Poi lasciarlo lì. Nonna Gemma, duecento anni di muscoli e mani che ancora oggi menerebbero tutti gli amici maschi che ho, l’avevo sentita correre verso di me quando ormai era troppo tardi: una pedata. Fragorosa. Due pedate. Tre pedate. Ricordo i salti che facevo con il sedere dolorante. Quattro pedate. Mille pedate. Quando ormai sentivo il buco del sedere sotto la faringe e pensavo che mi avrebbe seppellito nel campo mi aveva fermata (bloccata) per le braccia.

Mi aveva preso per la manina con sguardo pieno di dolore, la nonna Gemma mi teneva sempre in collo e mi scarruffava i capelli, e strizzandomi cone una ricotta mi aveva riportato dal pulcino. Prendilo. L’avevo fatto, fra le due manine, e la seguivo in silenzio. Sperando che i miei non fossero da quelle parti, perchè non oso immaginare la punizione che avrei ricevuto se fossi stata scoperta. Mi aveva fatto camminare fino al pollaio e mi aveva fatto portare il piccolo corpo accanto alla gallina, una delle trenta, credo una a caso. Chiedi scusa alla sua mamma. Quello che fino ad allora era un giochino giallo peloso che correva senza senso, era stato assegnato ad una mamma. All’improvviso un dolore così forte mi aveva preso. Scusa. Poi mi si erano riempiti gli occhi di lacrime e rotto il cuore in briciole, per avere distrutto la vita di quella povera famiglia del pollaio accanto.

Nonna Gemma mi aveva preso in collo, sollevato lassu’ a quattordici metri (la sua altezza) e mi aveva abbracciato forte. Mi aveva detto guarda che dentro tutto, dentro gli animali, gli insetti, c’è la vita: non la puoi tirare fuori te. Se ce l’hanno, non gliela puoi levare: gliel’ha data Gesù. Nemmeno ai moscini? Nemmeno ai moscini. (Ma non lo pensava). Poi mi aveva rilasciato. Quello è il giorno in cui avevo abbandonato il clock work orange di Ghezzano e quello in cui avevo incominciato a temere di pestare cosi viventi mentre ero nel prato. Anzi, colta da redenzione, avevo anche spiegato alla nonna dove si appostavano i grandi per fare quali danni, e si erano visti ragazzini volare col culo acciaccato per metri, nel cielo, fra le urla e le bestemmie della watussa.

Non erano stati convocati genitori, la legge del silenzio imperava, e non avremmo mai tradito la nonna Gemma. D’altronde, se l’avessimo fatto, ci avrebbe aspettato con un machete dietro l’angolo e squartati vivi. Non erano state profferite parole: la lezione era stata imparata, chi da un lato e chi da un altro. Questo per dire che l’altro giorno al ristorante, quando un bambino si è rivolto al maitre urlando lo voglio ora, portamelo ora, ho sentito dentro di me lo spirito di Gemma – invendicato perchè i suoi genitori sorridevano, senza fare nulla. Poi mi è passata, poi ho avuto pena: non riuscirà a lasciare il gruppo dell’arancia meccanica lui, perchè non lo fanno pigliare a calci dalla nonna watussa.

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Pùm.

Ci metto un minuto a ritrovarmi lì dove mi hai lasciato. Ritengo questo un privilegio, un errore magnifico del mio cervello e un dono per questa vita qui, quella da Juanita che lavora come un calvinista ma pensa come un messicano obeso. In questo turno mi è stato affidato un corpo tutto sommato gradevole ed una faccia espressiva, purchè io non sia accigliata e allora sembro mio padre con un mocio in testa – mio padre è un bell’uomo, ma non è punto una bella donna. Quindi io sono sempre qui, me ne accorgo perchè quando ti rivedo te sei diverso e io sono quella di prima. Per farti un esempio: se tu mi chiedessi qual è la scultura più bella d’Italia come facevi di notte davanti alla chiesa in piazza, quando mi guardavi ed ero abbastanza per tutto o per niente, io ti risponderei senza esitare “Emicrania”, che è quella statua al Galluzzo sotto la quale io e te abbiamo cantato (?) e suonato tutta la musica possibile. Tu, non te la ricordi, io lo so. Ogni tanto la chiamavamo “Lunedì”. Ci vediamo all’Emicrania.

E io arrivavo coi tacchi, ci mancherebbe altro, sull’asfalto malefico fiorentino – che non mi è mai appartenuto – con un cappello a tesa larga per farmi notare il più possibile. (E il poncio d’Inverno). E il vestitino bianco d’estate, quello con le maniche  a sbuffo appena accennato – Mezza Pinta dice, mamma quelle sono eleganti, non quelle corte. Cambiati mamma. Poi ci dirigevamo in una direzione pericolosa, che non avremmo dovuto camminare, e si rideva come pazzi – ma di cosa poi. Ma l’eccitazione, la gioia pura, quello io ce l’ho scritto ancora qui: eravamo il popolo eletto, i due che avrebbero ricreato il genere umano partendo dalla citronella. Non è successo, ci siamo ritirati tutti e due senza infierire, senza inventare: basta così? Basta così. Si può dire di tutto, ma non che si sia stati pavidi, o volgari. Noi con lo schiocco di un dito ci siamo annoiati e dimenticati.

Non avrebbe resistito quella cosa ad una routine di tre per due, fidaty card, iscriviamo la bimba qui, no lì, no cattolica, no stilita. Quella cosa, a dire la verità, non avrebbe nemmeno dovuto varcare la cucina: per continuare avremmo dovuto comprare un attico mansarda senza aree comuni, con una vasca coi piedini e molto spazio balcone con le piante sconnesse, disordinate: solo un popolo geniale come quello inglese poteva inventare un giardino che si bea della sua sporcizia. Non saresti piaciuto a mio padre, questo te lo posso sottoscrivere, per via della tua abitudine a vestirti come una checca – pare che questo sia un tratto per me attrattivo.

Insomma ti sposi. Insomma ti sposti. Torni nelle materne terre mallevadrici, nella bifamiliare rosa. Mamma sotto e te sopra, così come nei di lei sogni reconditi. Si somigliano un pochino le due, parecchio a dire la verità ma te ne accorgerai a breve, non ora che sei ancora accecato dall’idea che sia possibile cominciare da zero dopo i dodici anni. E che male c’è? Nessuno. Solo che te non ricordi, che una sera, sotto “Lunedì” io e te, con la chitarra in mano, abbiamo guardato due disgraziati passare ed essere brutti, con lui che blandiva la belva feroce che aveva al fianco – e più lui guardava in giù, e più lei sibilava come un’aragosta nell’acqua. E tu mi hai detto “se divento come quello sparami”. Eccomi. Pùm.

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David Bowie.

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Anno Quinto dalla scoperta della pancera scosciata e dalla rimozione frudiana del tiralatte. La vita mi va bene, ho controllato il quadernino delle mie istruzioni scritto a diciassette anni e l’unico punto che ho fallito del tutto è il “ti auguro di essere già a New York” .  Faccio consuntivo e mi giro di centottanta gradi: guai a quelli che non si guardano mai indietro, diceva Mentore Uno, prima o poi li tampona un tir di ricordi. Non una bella metafora, ma si capisce bene. Me lo diceva sempre quando frignavo e mi disperavo di farlo: piangi, mi esortava, finchè ti addormenti. Al mattino mi faceva recapitare una colazione pagata. Mi giro, dunque, per incontrarmi qualche anno fa e per attingere gioia: domani è martedì, il mio giorno spreferito.

C sa mettere il disco nella plancia Pioneer con la soddisfazione di chi possiede un’auto d’epoca e la usa per andare alla Coop. Il tappeto bianco e peloso e staglia una cornice netta con il fuori, giardino selvaggio con rose e lumache senza guscio. Legno in terra, caminetto a gas e tutto al posto giusto. In giardino il piccolo cottage, con un fouton e un armadio pieno di fotografie che posso guardare la notte – io dormo qui, al riparo dagli attacchi predatori del mio padrone di casa, che mi chiama il suo migliore amico femmina. La colazione si fa fuori, piovesse o grandinasse, sotto quel cielo di quel celeste sporco che è solo lassù. Coccini bianchi, cucchiaini senza grumi di zucchero, lui col The Guardian e io con l’Independent, lui con il tea malefico, io con il caffè solubile – fonte sempiterna di gastrite e denti marroni. Perderà tutto quando, pieno di quattrino, lascerà questo bendiddio per muoversi in un palazzo a tre piani.

Ma siamo ancora qui, non è ancora stata venduta la casa con la stanza rossa ed i mobili cinesi, dove C è passato da figlio del contadino violento e beone a grande entrapreneur. Non c’è televisione, perlomeno, c’è ma non si accende. C’è un impianto Bose alto come me, e un giradischi con la puntina di diamante. Due scaffali, lunghi: i dischi sono allineati per colore ma anche per pregio. C sfila quella bianca, con David Bowie e L inizia a cantare – mi è venuta a trovare, è sul divano blue di camoscio da scarpe, credo che sia Ziggy Stardust, con quell’inizio perfetto. Un inizio non voluto, ma ritagliato, inventato lì per lì per suonare bene: questo è il genio, la forma che si frega il concetto e poi ci si incarna dopo avere riempito ogni spazio libero. Ziggy si è preso un settore del mio cervello, lì, davanti al tappeto peloso, fra il caminetto e il giardino selvaggio col sole, con L che ride, C che sorride, e a me mi esplode il cuore di gioia.

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Arietta pettegola.

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E’ andato tutto bene, stiamo tutti bene: un successo. Questa settimana nessuno si è rapito mia figlia per smembrarla in qualche campetto, l’Inglese non guida quindi non ha fatto incidenti, i miei genitori sono in salute e le mie sorelle una è al mare e una sta varando qualche campo, qualche iniziativa. Lo strozzino che mi è venuto a fare visita tramite segnalazione di un amico comune, che da ieri più amico non è, deve avere capito l’antifona e non si è fatto rivedere: per levarmi quella sensazione di unto di dosso mi ci sono volute quarantotto ore. Oppure, di nuovo, sono stata fortunata, e ha deciso di mirare a qualcunaltro. Ho saltato due giorni di ginnastica perchè ho una febbriciattola da stanchezza e cimurro starnutante, irritante, che mi gonfia gli occhi e restringe la testa.

Non ho implicazioni in appalti e non ho mai versato una mazzetta, quindi questo fine settimana non suderò freddo a pensare a quell’affare, a quelle tracce, a quell’avviso di garanzia. Non ho nemmeno uno yacht con licenza off-shore per portarci i miei amici nei venti metri che separano il molo dalla torre di comando, quindi non mi devo preoccupare di cosa farne a febbraio o della pensione dello skipper. Divido la macchina, car-share si chiama, ma ho rinunciato alla quota maggioritaria così non devo parcheggiare, così non devo richiedere il permesso. Vado in treno dappertutto e quando c’è ritardo faccio un sacco di amicizie. Oppure piango di rabbia. Mangio un toast a pranzo da anni, mille, e bevo solo vino buono dopo le sette e mezzo, perchè quell’arietta sonnolenta, pacificata, mi garba portarmela nei sogni.

Non ho cene importanti, a parte una a fine Luglio che mi dà un’ansia terribile, ma ho promesso all’Inglese: ci sarò. Non accetto inviti dai clienti o dai fornitori, per non dovere anche solo una volta mediare un giudizio ragionato. Non sono nel giro dei compleanni dei bambini chic, perchè i loro genitori arraffazzonano feste dove nessuno può smaialarsi in terra, e che gusto c’è ad essere bambini e a dover stare impediti sul parquet – quindi non ho un calendario serrato di regalini appariscenti da fare per queste magnifiche creature, i piccoli, che non sanno nemmeno cos’è un tallone o dove sta l’anima, che carichiamo di significati simbolici per poi stupirci che rubino per divertimento.

Non frequento le SPA, ma solo perchè mi sento brutta in accappatoio. Non frequento le spiaggie, ma solo perchè sono brutta in costume. Le due privazioni comportano che la depilazione di cera non stia fra le mie priorità quindicinali bensì una opzione annuale per quando ho desiderio di punirmi. E comunque la zona fronte retro non si tocca, ma siamo matti, non mi devo mica appiccicare ad un palo coperta d’olio e ballare a gambe aperte la lap. Non che non mi piacerebbe una volta, ma non riesco a toccarmi le caviglie quando sono in piedi.

Non ho un amico cui devo molti favori, quindi posso sempre dire mi dispiace, oggi non è giornata, lasciami dormire a chiunque. Non ho un ombrellone particolare dove voglio essere sistemata, anzi vicino al bar mi sta bene perchè ho sempre sete di acqua fresca frizzante, sudo moltissimo, quindi posso arrivare al mattino e prenotare un posto, a caso. Mi piace camminare, quindi la ztl cittadina del mio paesello, con l’ipotesi di poter fare camminare mia figlia senza che qualcuno me la falci, mi sembra una cosa straordinaria. Non ho la carta centurion e nemmeno la platinum, perchè Mentore numero due mi ha insegnato che al mattino bisogna sapere quanto si deve spendere, compresi gli imprevisti, e quello va portato dietro in moneta. Quindi non accumulo punti, non compilo questionari, non pago qualcuno perchè paghi qualcunaltro per darmi consigli se faccio i capricci. Meglio non fare le bizze e tenerli per una buona cena, con buon vino e buona compagnia.

Non sopporto i cocainomani, che si trascinano dietro ansie e billi ritti per i motivi sbagliati, quindi difficilmente mi invitano alle feste. Da un lato mi dispiace, dall’altro mi solleva dal dover comprare un vestitino estivo, che non so scegliere – l’Inglese dice che non saprei vestire un asino morto. Non so abbinare scarpe e vestiti. Mi metto quello che mi fa felice al mattino, cercando di rimanere rispettosa delle persone che ho attorno – non indosso il tutù quando sono felicissima. Non vado in palestra ma mi piace correre a piedi nudi.

Quindi hai ragione a dire che sono una povera imbecille, una contadina. Una che ha salito lo scalino. Una con i capelli crespi e il culo troppo grosso (largo, dici). Una che ma poi che vuoi che faccia al lavoro, guarda con che macchina di m** gira. Hai ragione a dire che sono una qualunque, anche perchè sono in ottima compagnia: conosco almeno venti persone che potrebbero più o meno stare in questa descrizione. Lascia che ti dica chi sono, queste persone: fanno spesso all’amore col marito o con la moglie – non con altri. Non stanno molto bene con un vestito da sera: vero. Ma vestono gli occhi di sorrisi. Hanno quanti figli rientrano nella famiglia senza tate a tempo pieno. Vanno al mare di martedì mattina e hanno sempre il divano impegnato da qualche amico che passa di lì. Invece di raccogliere fondi per il cancro fanno in modo che i dipendenti mangino bene, che siano ben pagati. Io non ti disprezzo anche se viviamo in mondi diversi, tu cerca di smettere di scrivere quelle cose – sei così pettegola, così cattiva. Eppure (di materiale) non ti manca nulla.

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Che bellissimo.

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Più di tutto mi piace leggere di altri quando non mi sottopongono i loro manoscritti. Per questo mi piace leggere i blog, snasare fra i tag, trovare storie ordinarie: non amo quello che sbuca fuori, che è troppo diverso. Mi piace la signorina Felicita, mi appassiona chi si contenta, chi fa un lavoro invece di un altro perchè così può tornare a casa a suonare la fisarmonica – deve essere per questo che faccio quello che faccio. Non c’è coerenza su questa terra. Fra i pensieri in rete favorisco quelli di autori di età non verdissima, dico, dai cinquanta in su, salvo pochissime eccezioni. Mi commuove ancora leggere i resoconti del primo viaggio fiorentino fatto dalle ragazze di sessantanni, che hanno messo da parte un bel pò ed eccole qui, a girellare per i negozi di artigianato sognando una nuova vita medieval-romantica.

Mi chiedono sempre la stessa cosa: troverò un uomo italiano come quello dei film? Sì, asserisco sicura. Perchè loro stanno pensando a La Dolce Vita, mentre io ad Alien 4. Rinasce una grazia bambina nelle donne che viaggiano dopo essere state incatenate alla famiglia tutta la vita: figli o non figli stiamo parlando di un master in real estate developement, crisis management, food and beverage stockage, human resources recruitment, lungo almeno trent’anni – a un uomo gli danno centomilaeuro per un lavoro del genere. Alleggerite dai pensieri, per almeno un mese, fumano sigarette camminando, bevono troppo, sognano con gli occhi di essere col cervello e il cuore di ora, ma col corpo dei trenta, per una sera. Qualcuna, più smaliziata, si porta i tacchi alti: con i soldi per cento taxi in tasca, si può fare eccome.

Così il giardino dei Boboli ha spalancato le mascelle alla mia amica C, che ha perso la figlia, la unica, di vent’anni per un’operazione di routine: allergica all’anestesia se n’è andata così, come un respiro affannato. Faceva le foto ai fiori, la bimba, era una designer di giardini, e quando siamo entrate nel parco C ha cominciato a tremare, a piangere, a pregare e anche a bestemmiare. Poi c’era S, che il marito le ha rubato tutto anche la moto, e ha deciso che verrà qui – le serve un piccolo appartamento con mansarda, bisogna avere poco spazio sulla testa per potersi difendere dalle avversità. E anche B, la più grande delle tre, che non smetteva di avere la diarrea. Cancro, mormoravano le altre a pranzo, quando lei andava al bagno. Poi lei tornava e lei aveva gli occhi di chi è sano ma sembra malato: quella è una stirpe che dura duecento anni.

L’esitare, davanti ad un panorama famoso, davanti al David, è lecito. Quello di cui ci siamo convinti è che si debba dire qualcosa di straordinario davanti ad opere d’arte o viste mozzafiato, invece è una boiata: “che bello, wow, oddio” sono esattamente quello che Michelangelo, Vasari e Cristo hanno voglia di sentire da lassù. Ma te l’immagini che palle il commento critico alle colline del senese. “Guarda caro, gli ossidi ferro e argilla: che nuances. Certo, nota che finezza questi grani, osserva l’indice di rifrazione”. Molto meglio un “Mi, che colori”. E questo è proprio quello che intendo: le mie ragazze, quelle che mi piacciono tanto, non hanno bisogno di dire nulla di più di quello che il cuore comanda. Senza tanti accenti, accessori, pause. La libertà deve ancora arrivare, per questo è importante conservare la bellezza del cammino.