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Senza pretese

La stagione degli affetti, dei regali appuntati di nascosto nelle note del cellulare e poi consegnati con un senso di vero trionfo, ti ricordi quando hai detto che ti si era bucata la maglia verde, eccone una nuova uguale, che bella la tua faccia sorpresa, dell’albero che ho lasciato nel corridoio, dei capelli tirati in code sempre più unte, della cioccolata raschiata via dalla torta con zampe di tasso, ma anche delle diete rigorosissime, cui mi sottopongo per purificarmi l’animo da ogni desiderio non ortodosso.

Il rito di passaggio fra due anni, quello che finisce e quello che arriva con la sua valigia di speranze sempre meno profumate, così catartico e così deludente, perché di feste ganze ne capita una ogni trent’anni, comunque pieno di significati antichi come un genitore che ti sgrida, impattanti, che tu lo voglia o no. Il tempo dilatato, come un gas senza contenitore, in cui affaticarsi per arrivare in fondo al respiro senza lasciare andare la mandibola. Sorridi. Il momento delle domande ficcanti a sorpresa, cosa hai fatto quest’anno, cosa farai il prossimo, non ti manca qualcuno accanto?

Il tempo della mancanza viscerale, perché a cinquant’anni la vita ti ha già separato da alcuni affetti straordinari. Mi mancano quel like su Facebook che appariva solo sulle boiate più poderose, come succede fra veri amici, i fantasmi di una foto che è un relitto fantastico, qualcuno da mandare di nuovo in cucina a prendermi il fruttino gelato: sono come buchi profondi nell’anima riempiti con punture di resina a tenuta stagna. Per me questo è anche il tempo del compleanno, in cui sentire la piena frequenza del suono muto ma spacca-timpano dell’attenzione, una piccola morte ad ogni augurio, cui vorrei rispondere mi sento sola quando c’è festa attorno, lasciami stare.

Allora Netflix, Prime, allora correre, allora un altro centinaio di pagine digerite – quante nozioni si possono accumulare mai? Uno, due, dieci oroscopi, a caccia di un segnale, un pianeta che si posizioni come Dio comanda per dirmi che passerà tutto, come sempre, e che a breve sarò sommersa di lavoro stagionale, l’antidoto potente, la routine sacra per chi, come me, litiga spesso con sé stesso. Forse faccio quella famosa maratona, o forse mi iscrivo a Pilates, che toccarmi i piedi mi è più difficile che correre quattro ore. Faccio un selfie.

Il senso di essere stata sconfitta in una battaglia mai iniziata, certi giorni, arriva per rimanere. Mi metto in silenzio e aspetto che gli spiriti della tristezza abbiano finito la loro parata, che è più sguaiata nei momenti in cui si suppone ci siano gioia e secchiate di affetto gratuito. Quando il carnevale nero si è allontanato, rimane il vuoto, nel quale sono a mio agio da sempre. Apro Quora. Poi conto le mie benedizioni, un esercizio di umiltà nei confronti del dolore, e cerco di pareggiare i conti: nel male ho trovato sempre il bene, nel bene sono rimasta spesso sconcertata della mia fortuna, che accolgo con sospetto. Pensa a questo, mi dico, pensa a quest’altro, quella roba lì si che è pesante, altro che questo senso di pioggia che non bagna, brutta ingrata che non sei altro.

Apro Facebook. Seguo il mio sentiero conosciuto, i commenti, le foto, gli amici, i profili di chi un tempo era nel mio raggio esistenziale e poi è uscito come una tangente, le foto di chi mi incuriosisce ma non ha mai colto una verdura nel mio campo. Leggo gli altri: che fanno loro quando il cane arrabbiato gli morde la mano? Non si capisce bene, ma qualcuno scrive la cosa giusta al momento opportuno, ho la presunzione di intenderne i significati dietro le parole, e allora ricomincio a respirare. Che scema che è questa, penso qualche volta, ma subito l’arbitro che mi vive dentro corre ad ammonirmi, a fischiarmi in faccia, a ricordarmi che le (mie) foto più belle le ho scattate negli anni in cui sono stata disperata.

Come ho fatto? Penso. Forse qualche credito lo devo aggiungere alla colonna dei più, quella in cui tengo il mio punteggio esistenziale. Posso essere soddisfatta, certo; non ne scrivo per rispetto a chi rimane, ma mi sono tuffata in una palude che era una fogna e, come in Shawshank Redemption, ne sono uscita in un’isola felice. Ci ho piantato le palme, ci ho dipinto la barca, ci ho costruito la casa, ci ho allevato cuccioli, senza concedermi molto oltre alla disciplina di titanio di cui mi sono armata.

Questa avventura di vivere non è cosa per i deboli di cuore, ancora meno per chi capta le emozioni altrui come un baracchino, ma vengono in aiuto le parole degli altri, che combattono guerre anonime, talvolta dolorosissime, fra un isee ed un caro da assistere, fra rinunce obbligate e cammini da intraprendere nonostante non ci sia nemmeno un metro di riparo. Ci riempiono di vita le persone attorno a noi, che ci rimangono accanto nonostante il mostriciattolo che ci abita dentro, che ci scusano e accolgono a modo loro, anche se questo non sempre ci è congeniale, che si inventano cose da fare assieme pur di lasciare una traccia in questa nostra piccola galassia magnifica quanto entropica.

Apro TikTok. È da non molto che ho scoperto che non ho nulla di esorbitante da dire, non ho contenuti interessanti da condividere, o in genere concetti che non siano una foto della mia faccia, o una canzone col mio amato gruppo. La mia vita è un libro senza indice, o una storia senza eroi, come molte, e alla fine quello che mi rimette al mondo è una risata o una passeggiata nel bosco. Non ho storie mirabolanti, o gambe lunghe da bikini, ho me e bisogna che me lo faccia bastare nei giorni come questi, in cui mi casca l’universo in testa e, miracolosamente, non mi schiaccia come una piattola. Il pensiero, stasera, va a quelli che capitano qui e che durante le feste si fanno mordere dal cane nero; che stanno affrontando mari ingestibili ma silenziosi, per aspettare assieme che la parata si allontani e il tempo ci renda la calma di una giornata normale, senza pretese.

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Juanita de Paola

Finché ci siamo

Ci fanno compagnia in questo tempo grottesco le immagini del passato che conosciamo e che ci sa consolare: la bella atmosfera di alcune foto che abbiamo conservato, gli inviti ai battesimi, le sagre, il mercato rionale, l’inaugurazione del nuovo bar. Cristallizzati in un mondo che non esiste più ma che ancora fisicamente è qui, ci sostengono spesso i certificati di merito, le cose che parlano di noi.

Esecutori di commissioni che nessuno ci ha assegnato, utilizziamo modi antichi ‘Risponda di questo la giunta!‘ per urlare senza dire niente, come generatori di supercazzole, con il fucile carico di iperboli e rabbia, ma senza peccato.

Eppure in ogni storia di sopravvivenza rimane il senso stesso del vivere, che è essere vivi. Delle tre funzioni biologiche assegnateci, nascere-figliare-morire, qualcuno di noi salta quella intermedia ma il finale rimane il solito per tutti, e forse è questa la grande avventura che ci è toccata, aldilà dei piani e religioni, forse è, semplicemente, vivere la sequenza di giorni con una forza che è più ampia delle magagne del nostro diametro morale, più vivace di ogni fabbricazione contemporanea.

I problemi ci hanno bruciato, ad un certo punto, come pagnotte lasciate in forno. Nella routine, nei cicli meritevoli che ci impediscono di pensare troppo, abbiamo trovato qualche pace, la distrazione dalle domande più profonde, l’interruttore per fermare il cervello – finalmente. Abbiamo lasciato indietro amori, affetti, abbiamo abbandonato, rinnegato e nascosto.

Eppure dalle finestre delle case alla sera, nel parcheggio del cinema, sui tetti delle grandi capitali, negli spazi desertici, dietro le mascherine degli anziani impauriti, sulle rive dei fiumi e dei mari, negli occhi dei bambini, si vede la vita: ogni granello, ogni insetto, ogni particella, pianta, bestia, fa la sua corsa seguendo la linea della sua esistenza, fino a che non esiste più. E poco importano i ricordi di chi ti amava, quello che hai fatto: eri prima, e poi non sei.

Chissà se diventiamo polvere cosciente, se da qualche parte c’è una plancia da cui osservare chi rimane, casa. Chissà se poi, ad un certo punto, l’infinito è talmente coinvolgente che si smette di guardare la terra, e si procede verso un futuro omni-dimensionale e fatto di noi. Chissà se ci emaniamo per sempre, o se la morte è solo una malattia degenerativa cui attribuiamo un senso celeste e che un giorno sarà debellata, così ci uniremo al resto nell’infinito ruotare attorno ai soli, con le nostre carcasse bioniche e cervelli sempre più pregevoli e futuribili.

Quando si invecchia il mondo diventa strambo e la gente fuori di cervello, ma credo sia un trucco per farci lentamente preparare alla fine della corsa, per farci arrivare all’off con un senso di liberazione. Se la saggezza crescesse davvero in maniera proporzionale all’età, ci dovrebbero legare ai pali per costringerci ad invecchiare. Molti si abbrutiscono, si spengono, accompagnati dallo sguardo tollerante di chi li ama. Pochi geni coltivano la vita, e invecchiando diventano acqua per piante, ombra per affaticati, parola per anime. Pochi hanno la fortuna di poter vivere secondo la loro volontà, pochissimi di scampare i pericoli della genetica, dell’inquinamento, delle brutte abitudini, della sfiga.

Rimane chi rimane, se ne va chi se ne va, tutto qui. E questo ci dovrebbe liberare, o perlomeno ci dovrebbe fare tirare un sospiro di un sollievo poderoso, guardare gli altri con affetto, in fin dei conti l’unica cosa che ci unisce tutti, oggi, è la mortalità – anzi, ne siamo tutti una piccola rappresentazione. Tutto il resto è un venticello che certe volte gonfia vele che navigano veloci, per qualche ora.

‘Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.’
Da Mt 6,25–33

English

Keeping us company in this time are the images of the past that we know and that can console us: the atmosphere of photos we have kept, the invitations to christenings, the local market. Crystallised in a world that no longer exists but is still physically here, we are sustained by the the certificates of merit, the little things about us. Yet in every survival story remains the very meaning of living, which is being alive. Of the three biological functions assigned to us, to be born-procreate-die, some of us skip the intermediate one, but the ending remains the same, and probably this is the great adventure that has befallen us, living the sequence of days assigned to us, something that is broader than the wretchedness of our moral diameter, solid like marble.

The problems that have plagued us have burnt us at some point like loaves of bread left in the oven. In the routine that prevent us from thinking too much we have found peace, the distraction from deeper questions. Yet from the windows of village houses, on the roofs of the great cities, in the deserts, behind the masks of the frightened elderly, on the banks of rivers and seas, in the eyes of children , we see life: every grain, every insect, every particle, plant, beast, runs its course following the line of its existence, until it no longer exists. And little matter the memories of those who loved you, what you did: you were before, and then you are not.

Who knows if we become stars, who knows if somewhere there is a command screen from which one can see the earth down, with those who remain. Who knows if then, at some point, infinity is so all-consuming that we stop looking down and proceed into a future that is omni-dimensionally made of us. Who knows if death is just a degenerative disease to which we attribute a celestial sense and which will one day be eradicated, so we will join the celestial bodies in the infinite revolving around the suns.

As we get older, the world and people get weirder, but I think it’s a trick to slowly get us ready for the end of the ride, to get us to the off with a sense of liberation. If wisdom really grew in proportion to age, somebody would have to tie us to poles to force us to grow old.

‘Look at the birds of the air: they neither sow, nor reap, nor gather into barns; yet your heavenly Father feeds them. Count ye not more than they? And which of you, however hard he works, can add a single hour to his life? And why do you toil for your garments? Observe how the lilies of the field grow: they neither toil nor spin. Yet I tell you that not even Solomon, with all his glory, dressed like one of them.’

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Ciao, sono io

Hai controllato le bollette, hai fatto le somme e le sottrazioni, lordo meno tara uguale peso netto, ovvero quello che finisce nella vita bella: la pizza, i gelati, le tutine di cotone al mercato per la piccina, l’umido Cesar per il canino. Ti sei svegliata di notte alle tre e quarantadue, succede spesso, per valutare tutte le cose che ti faranno morire senza un soldo e abbandonata da tutti, non stai prendendo nemmeno in considerazione che un giorno qualcuno appaia e ti voglia accompagnare: a te gli uomini ti chiedono i soldi, si vede che sei forte, mica come quelle stupide che si fanno trattare bene, pagare le vacanze, regalare gli anelli, cambiare le lampadine. Te no, te sei Atlante.
Nel tragitto ai bidoni della spazzatura incontro la Diana, mi dice ‘finalmente ti sei levata i tacchi’, penso che li ho dimenticati in montagna, as you do, e che sono in terra con questi sandali da frate, mica lo trovo uno che mi voglia sposare – sono signorina – se non mi vesto un pochino elegante. “Juanita pettinati” mi ha detto mio papà subito dopo che ho partorito, con quella faccia gonfia ed i capelli unti sembravo una carcassa di balena, effettivamente. Non capisco cosa ci trovino di bello le donne nel parto, a me sembrò di morire con un petardo nel sedere, e poi la bambina non si slegava dal cordone, mi hanno tagliata dopo trenta ore e meno male che lei non ne ha risentito. Avrei voluto tanti bambini, ma quel dolore non lo voglio provare mai più. I bambini se li tirano su le donne, ma allevano anche gli uomini, una fatica che l’Everest coi tacchi è una bischerata. Sei passata nuda davanti allo specchio, dopo la doccia, e hai chiuso gli occhi, di fatto non ti sei mai spogliata davanti a nessuno.
La pancia, in basso, dopo il brutto taglio del cesareo è rimasa scollata dal corpo, una ciambella di lardo su una struttura muscolosa, forte, ma non mi metto il costume da tanti anni: mi vergogno. D’Inverno ce la faccio bene, compro le mutande con le stecche, ma d’estate il bombolone epidermico galleggia e io me ne vado in montagna invece che al mare. Hai lavorato quattordici ore. Hai sperato che lui abbia deciso di iniziare una nuova carriera come guardiano delle statue dell’isola di Pasqua, ma questo succede alle altre: tu lo campi, ne tolleri la presenza così come si fa con una recidiva, e i dottori ti dicono che ce la farai. E te dici ‘si, ma quando?’.
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Uovo

Per cucinare un uovo in camicia di forma compatta e con un ripieno piacevolmente moscio, ma non moccoloso, ci vogliono una serie di piccoli accorgimenti con cui prendere la mano e il senso dell’uovo, ovvero un orologio interno che ti fa sentire il momento opportuno per tirarlo via dall’acqua a bollore, anche a dispetto del timer.

Cucinare è opera per i diligenti. La preparazione è un’ouverture mentre la sequenza che culmina nel piatto richiede attitudine personale a seguire un preciso percorso, comunque tracciato da altri, nonché la memoria dei tempi, il rispetto delle dosi, l’utilizzo di temperature e metodi di cottura che funzionino. Per questo motivo e per la mancanza di tempo, che caratterizza i miei giorni da quando ho iniziato ad ingozzarmi di lavoro, cucinare è qualcosa in cui non mi trovo a mio agio – come guidare, parcheggiare, andare alle feste, pranzare con persone che non mi abbiano fatto innamorare almeno una volta, appaiare colori, mettermi in costume, parlare al telefono e molto altro.

L’uovo affrittellato è diverso, elementare come bere il caffè espresso al bar, simpatico e volgare come una scarpa alta con la zeppa o un paio di zoccoletti sotto delle caviglie forti. Fritto col pomodoro, poi, ricorda il disegnare all’asilo: tutti ti dicono bravo, ma tu sai bene di avere fatto un pastrocchio e va bene così.

L’omelette prende da subito una piega pop da canzoncina estiva, con quella consistenza idiota che recupera dignità solo con qualche erbetta e una dose abbondante di sottilette o fontina (per gli esperti che non si fanno venire un attacco di ansia al bancone del formaggio – troppa scelta, troppi colori e tagli, praticamente un lavoro non retribuito). Comunque sciapa, tragicamente porosa, non ci sono dubbi che in questa epoca di timidezza esistenziale l’omelette raccolga grande consenso dalle folle ignoranti che, su su dalla fogna puzzolente delle loro rabbie sommesse, sono venute a ricordarci il suono perfetto del latino, la grazia secca della compostezza, la consistenza lenitiva della frittata di pasta dopo una cena annaffiata (tristemente) a merlot.  

Completamente diversa e titanica è infatti la frittata, untuosa e impenetrabile, ghiotta come un giornalaccio, sfumata di spessore verso l’esterno della padella, vivace come l’amore dei vent’anni, rara come le lucciole in campagna quando mani vergognose si cercano per camminare strette, spaziale come il sogno di una vita a New York, sensuale come una donna con le gambe forti.

Non ho nulla da dire sulle uova strapazzate, quelle che purtroppo mi somigliano di più: si faccia finta che non siano l’ennesimo poached-egg in salsa olandese finito male, ci si racconti la storiella dell’intento, tanto un pasticcio rimane un pasticcio. Bruttine a vedersi, possono mantenere un certo decoro fino a che non si trovino esposte vicino ad un uovo barzotto condito con una spolverata di pepe rosso, uno schiaffo morale meritato eppure doloroso.

Che c’entra: ci si prova comunque. Anzi, ci si dichiara. Ci si gira verso la tavola e si dice mi dispiace, volevo farli diversi ma mi si sono rotti i tuorli. E tutti scansano i piatti per fare posto al tuo vassoio coperto da una ciotta gialla, dicono ‘non ti preoccupare’ e se la mangiano sorridendo perché l’hai fatta tu, e ti vogliono ancora più bene, così come ai cani con tre zampe.

Ho visto donne rompere la testa d’œuf à la coque con una cucchiaiata che sembrava un test attitudinale per Guantanamo. Ho visto uomini buttare la salsa barbeque sugli ovetti di quaglia. Ho assistito al taglio di uova sode col coltello seghettato, una pletora di fette bianche, anemiche, ed il tuorlo sfarinato tutto attorno, spampanato, come un piscialetto.

Ho visto me stessa sfornare omelettes ogni Domenica mattina per poi tornare a letto e passarci un giorno intero, nella speranza di sparire per sempre pur di non dovere affrontare il mostro a sei teste che era diventata la mia vita privata. Ho visto me stessa ordinare le uova più extravaganti in qualche disgraziato hotel a cinque stelle, sperando di auto-fagocitarmi assieme al maggiordomo e agli argenti, e poi pubblicare una bella foto su Instagram senza poterci scrivere ‘aiuto, sto male’ sotto. Ma quel tempo è finito, Londra è lontanissima e io pubblico solo foto della mia faccia quando ride – ho pianto molto. Non sono (più) arrabbiata, non cerco riscatto e spero che la terra mi sia lieve mentre la cammino ancora da viva, con rinnovata gioia. All’amore, che ho trascurato per tanti anni, chiedo di tornare a trovarmi un giorno, e se dovesse succedere, vorrei che ci fossero le lucciole e il pane con la frittata.

Ho smesso definitivamente di cucinare, ma nel mio piccolo sono un mago delle uova, che preparo solo per me. Da qualche mese le prendo dal contadino e mi bevo il tuorlo arancione bello crudo, senza sale naturalmente. A quelli che preoccupati mi dicono che si può morire di salmonellosi, dico che sono cresciuta in campagna e che i batteri possenti se ne stanno negli ospedali sterilizzati, raramente nei pollai e tra gli alberi. E che si muore comunque, tanto vale godere.

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Un amore meno bello

Questo sia l’anno in cui ci amiamo meglio gli ho scritto nel biglietto di Natale, noi che non abbiamo passatempi in comune ma non sappiamo fare nulla da soli, noi che ci siamo incontrati ed era inevitabile, ma non abbiamo ancora preso le misure.

Il nostro amore, così diverso rispetto a quello di alcuni amici o a quello che mi ero immaginata, è  profondo e radicato come una malattia ereditaria che non guarisce, stracciato come un panno per vetri dal benzinaio e forte e vile come il filo da pesca. Guardami, sono io dico spesso, quando abbiamo perso la barca, il timone e anche il mare – e lui mi trapassa, non ricorda, e nemmeno io.

Ci si ritrova per sfinimento, siamo nello stesso esercito, abbiamo fatto noi due imbecilli senza testa una cosa così grossa come un figlio, e ci stiamo ancora riprendendo. Apparecchiamo allo stesso modo, beviamo e mangiamo le solite cose, siamo due pinguini reali che seguono l’istinto e rimangono assieme, con un cervello piccolo così. Pensiamo lo stesso pensiero, poi decidiamo sempre per due strade diverse, poi ci ritroviamo alla sosta, per un bicchiere di vino.

Leggiamo sui giornali che l’intimità è importante, due volte a settimana, io non mi ricordo quando siamo stati assieme l’ultima volta e di queste cose non si parla. Ti vorrei baciare, dico, ti puoi  lavare i denti che hai il fiato di un cane? Dice di si, chiede se mi posso cambiare, sono due settimane che mi metto il solito maglione. Già. Accendi la tivù, vai.

Ti ho comprato le mutande nuove. Ascoltami, sono uscita, ho pensato a te che cammini in stanza così magro, ti ho immaginato da dietro, nero dal collo in su, bianco come una lastra di marmo sotto la camicia e i pantaloni, un samurai da autoabbronzante, ti ho visto con le mutande mezze rotte e mi sono fermata in un posto, te le ho prese nuove, mi sembra un pensiero fantastico, così stai più comodo.

Che cosa è l’amore?

Ti devo parlare, ma non vorrei  tu usassi quel che ti sto per dire contro di me al prossimo litigio. Allora non me lo dire.

Non abbiamo avuto un’epifania ad un certo punto, non abbiamo scoperto qualcosa di talmente grosso che poi tutto è cambiato, non abbiamo mai sotterrato nemmeno un’ora del nostro passato facendo finta che non esistesse, che ci fosse stato un disguido. Non abbiamo un’arma segreta con un colpo in canna, non stiamo mettendo via per la pensione perché tutti e due abbiamo sempre pensato di morire presto, sai com’è.

Non ci siamo sposati, perché io vorrei farlo di nascosto nel bosco e lui scendere da un elicottero, perché io sono tirchia e lui è generoso, e lui ha bisogno di me per mangiare e io ho bisogno di lui per vivere. Io lo chiamo mio marito, lui mi chiama la mia ragazza. È l’idea delle bomboniere, per me, insormontabile. Io non sono trombata per queste cose, non ti offendere, ti supplico.

Preghiamo di nascosto uno dall’altra. Preghiamo uno per l’altra. Sono tutti migliori di noi, pensiamo, e abbiamo sempre ragione. Noi siamo quelli che a cena servono a rinsaldare le altre coppie, che quando vanno a casa parlano di noi e ringraziano il Signore di non essere a questa maniera, poi si abbracciano e fanno il quarto figlio. Siamo i meno affiatati. Siamo due generi, specie, elementi diversi. Siamo ridicoli.

Non corriamo assieme. Non giochiamo a tennis. Siamo fuori sincrono ma ci difendiamo come due pecore circondate da un branco di lupi, controlliamo gli scontrini per vedere che non ci freghino; io gli compro il formaggio verde, lui mi compra il pollo lesso e poi io gli mangio il formaggio verde di nascosto perché non voglio ingrassare.

Io pulisco: la casa, la gente, il casino, tutto. Lui apparecchia la casa per la festa, c’è sempre tempo per un festeggiamento, basta non andare a letto, baby, la vita è così corta, per favore non andare a letto. Non siamo vecchi.

Sono un peso per te dice. Si, enorme. Ma sei veramente un bel ragazzo, sempre così elegante, mi riempi l’occhio, ridi con il fischio e quello mi fa schiantare dal ridere. Mi piaci ragazzo vecchio che non è diventato un uomo, sei come me, una ragazza che non cresce e non invecchia, Peter Pan, solo che io sono più maschia.

Siamo due creature deformi che hanno trovato un lavoro, assieme, al circo.

Ho parlato stanotte? Si, tutta la notte, come sempre. Vorrei tanto dormire. Ma hai dormito, hai russato come una vecchia balorda. Oddio! Mi dispiace, davvero? Tutte le notti. Non solo moderatamente grassa, anche sguaiata: che tragedia.

Che sia un anno pieno di questa roba, e poi molti anni, che ci assistano lassù, che ci facciano invecchiare odiandoci e amandoci, probabilmente bevendo troppo ma molto meno di quel che potremmo se non avessimo figliato, ballando sui tavoli come due idioti appena possibile, ritrovandoci mogi nel taxi nero perché domani sarà un giorno di malditesta e perché abbiamo speso troppo, nell’uber che ci riporta da lei, l’unica ragione che abbiamo trovato.

Come mi sta? Sembro finocchio? Come sempre.

Io come sto? Sembri la Navratilova.

Proteggici, sempre.

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Amore e la distruzione

“Abbracciali tutti, tutto il giorno, raccattane i panni, lavane lo sputo nel lavandino, benedici le loro tracce terrene e l’odore dei panni sporchi, fallo in silenzio e con gratitudine: potrebbero portarti tutto via” (C.J.H). 

Non hanno uno sviluppo facile quelle relazioni che iniziano come la mia, simile a molte altre; una storia che è stata una scommessa allegra, un rimbalzo da un’altra molto più lunga e all’epoca più verosimile, forse una rivalsa. Prima una grande attrazione, la convinzione che tutto si accomoda per noi giusti. Poi una bruciatura che scarnifica, un rifiuto fisico dell’altro, un ribrezzo come da una sorsata assetata e generosa di latte rancido. Infine la solitudine vera, quella che si vive in mezzo a persone di cui non sappiamo niente, aldilà di quelle poche cose che costituiscono un’unione felice come una infelice.

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Un passato di tisane

Ho iniziato a lavarmi la faccia prima di andare a letto perché fra una settimana ho quarant’anni. Metto anche una crema che leva il rossore dal mezzo delle guance, ma non ci spero più di tanto perché bevo vino e pare che quella sia la causa – dice mia sorella. Metto un unguento alla rosa che profuma come il giardino davanti casa quando ero piccola, vado a letto e sogno la carezza della mamma che sussurra va tutto bene, con quella mano ruvida e corta che è identica alla mia.