Tornando dal mercato con il salmone e il cartoccio di tartara nello zaino rido da sola: mi mancano i croccantini e ci siamo, sono un siamese. Supero il cane cieco che punta la strada per abbaiare a chi passa, ma tanto non vede nemmeno le ombre e forse è il mio animale preferito di sempre. La famiglia di hoarders tiene il neon di cucina sempre acceso, con i portatili sintonizzati su canali diversi, un apprezzabile effetto di vivacità metropolitana accompagnato dall’odore che sfiata dalle finestre, un’essenza rancida e calda di lasagna dimenticata in forno. Stanno bene, anche se ogni tanto ne rianimano uno: hanno diametri stupefacenti.
Prendo la via che va alla fabbrica abbandonata, dove in ogni appartamento vivono troppe persone di cui non si sente mai un rumore: chi ha paura vive in punta di piedi, circondato da segnalatori anonimi, razzisti, beghine. L’assenza della chiesa in strada è assordante, la mancanza di umanità un batterio che ci ammazzerà tutti. Qui non c’è nessuna integrazione, solo qualche sorriso a sottolineare che sappiamo essere amabili, che ci dispiace, che davvero non capiamo cosa sia successo.
Passo davanti alla casa dei drogati che ululano e fanno a botte, e quando arriva la polizia continuano a sparare boiate, nonostante l’ora, l’eroina, il freddo abissale. Non li condanno, anche io senza routine sono materiale da bidone, ma, a parte il subwoofer, tengo in considerazione le orecchie dei vicini. Due li conoscevo da ragazza: una ormai è gonfia come un cadavere di orca, l’altro è un povero ebete, qualche volta mi chiede di prendere un caffè e mi dispiace di essere diventata così intollerante. D’altro canto, devo difendermi dalla calamita per casi umani che sta qui, dentro il mio cuore di bambina grassa. Ti voglio presentare uno, mi dicono, e io già lo vedo sotto casa, con la foto del cane a brandelli e il braccialetto con le nostre iniziali, che sniffa i miei vestiti lasciati alla Caritas. Un ottimismo che sta dando i suoi frutti: un altro anno e posso dare un contributo cruciale alla dottrina talebana dell’astensione.
Cammino per la via dei panni odorosi, con la faccia verso l’altro e le narici spalancate, attraverso la piazzetta col bar trucido e faccio finta di non sentire i commenti di quella milionata di euro di pensioni che ci si accampano davanti. Tanto, fra qualche anno, nessuno ti dirà più niente – mi dicono le amiche – vedrai te, i commenti, lo sguardo abbassato e la tensione scompaiono, si diventa trasparenti. Io a questa storia mortifera non c’ho mai creduto e rimango team-Picasso, per una vita piena di strafalcioni o amori non vissuti con petty-points sulla lavagna, con ex che si mettono con donne più brutte e io lo vengo a sapere. Tifo per la speranza senza appiglio eppure forte come l’energia dei bambini piccoli quando hai sonno, insomma, mi piace pensare alla vita, persino la mia, come ad un’epica.
La nostra anima diventa lentamente la sommatoria delle nostre paure, e una delle mie è proprio quella di avere vissuto una sola dimensione, senza mai entrare in contatto con me distanti e possibili. Forse per questo mi piace tanto guardare dentro le case, per immaginare come sarebbe stato se, o scrollare i video delle persone di ogni forma, età e colore che ballano: mi piace la gioia incontenuta, la vertigine di quando per qualche attimo, e facendo gli scongiuri, va tutto così bene che la gola si strozza.